Si sbloccano le lobby, altro che l’Italia. Il caso dell’acqua e dei servizi pubblici locali

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monete-in-acquaDue provvedimenti, il decreto del settembre scorso cosiddetto “Sblocca Italia”, convertito in legge da pochi giorni e la Legge di Stabilità in discussione nel Parlamento, stanno dando l’esatta idea della direzione intrapresa dalle politiche del governo italiano (che riprendono quelle dei rigoristi europei). I servizi pubblici locali sono riguardati molto pesantemente. Si provano a cancellare definitivamente anni di mobilitazioni, proposte e conquiste in tema di beni comuni, il cui punto più alto è stato il successo referendario del 2011. L’acqua, al centro di quel successo, è uno dei bocconi più pregiati offerti in pasto ai grandi interessi finanziari. A queste due normative, si aggiunge il piano sulla “spending review” che al grido di “1000 partecipate al posto di 8000”, con la propaganda della riduzione degli sprechi e dei costi della politica, dà la spinta ad un enorme processo di concentrazione economica delle gestioni del servizio idrico nelle mani di poche grandi multi utilities, A2A, Iren, Hera e Acea, già collocate in Borsa e delle multinazionali dell’acqua presenti nel nostro paese. Per favorire tali processi Cassa Depositi e Prestiti ha annunciato di mettere a disposizione 500 milioni di euro divenendo dunque uno degli attori protagonisti.

Nello Sblocca Italia, all’articolo 7 si introduce l’obbligo di far corrispondere all’ambito ottimale un unico gestore, in nome dell’efficienza. La Toscana, come da buona tradizione (è suo il primo consiglio regionale ad aver bocciato una proposta di legge per la ripubblicizzazione del servizio idrico), già dall’inizio del 2012 si è dotata di una legge regionale che prevede un solo ambito in tutta la regione con l’obiettivo dichiarato di avere, alla scadenza delle convenzioni esistenti, un unico gestore; ma nel resto del territorio nazionale sopravvivono ancora molte specificità locali nella gestione del servizio. Curiosamente, come nella legislazione toscana, si prevede anche il potere espropriativo delegabile al gestore per la realizzazione delle opere idriche. La Toscana fa scuola: sarà l’effetto Erasmo nei palazzi del potere?

L’obiettivo è chiaro: al termine di questo processo ci sarà un unico soggetto gestore regionale e le grandi concentrazioni di potere annetteranno tutte le gestioni più piccole, ponendo anche un elemento di rottura definitivo tra la territorialità dei servizi pubblici locali e le forme di controllo delle istituzioni locali, oltre che impedire qualsiasi possibilità di gestione partecipativa. E’ la vittoria della finanziarizzazione dell’economia, ciò su cui i mercati prediligono investire: le società di gestione devono produrre valore finanziario che si può basare solo sulla redditività garantita da servizi che, come l’acqua, sono irrinunciabili e quindi a domanda rigida, ed erogati su una scala significativa per produrre una grande liquidità periodica tramite l’applicazione delle tariffe.

Inoltre, è da notare che nello Sblocca Italia si prevede l’imposizione al gestore che subentra di corrispondere a quello uscente un valore di rimborso definito secondo i criteri stabiliti dall’AEEGSI (l’autorità nazionale di regolazione dei servizi), ciò che rischia di rendere più onerosi e quindi difficoltosi i processi di ripubblicizzazione (ad esempio nel caso di Reggio Emilia in cui il percorso è più avanzato).

All’attacco portato dallo Sblocca Italia si affianca la Legge di Stabilità, che dà lo slancio per superare ogni idea di riappropriazione dei beni comuni e di governo delle comunità locali vicino ai cittadini.

L’articolo che riguarda da vicino i servizi pubblici locali è il 43 sulla razionalizzazione delle società partecipate locali, nei servizi a rete di rilevanza economica (rilevanza economica che per il governo evidentemente hanno tutti, servizi idrici compresi, senza contemplare possibilità di alternativa). Appare decisamente pesante perché da una parte limita l’affidamento “in house” (come concepito a livello comunitario, quindi, sia a società per azioni totalmente pubbliche che ad aziende speciali) rendendolo oneroso per le casse degli Enti Locali e dall’altro favorisce le privatizzazioni. Infatti, si stabilisce in primo luogo l’obbligo per l’ente locale, che effettua la scelta “in house”, ad accantonare “pro quota nel primo bilancio utile” e ogni triennio una somma pari all’impegno finanziario corrispondente al capitale proprio previsto. Inoltre si stabilisce che i finanziamenti derivanti da risorse pubbliche debbono essere prioritariamente assegnati ai gestori selezionati tramite gara o a quelli che hanno deliberato aggregazioni societarie: in altri termini le risorse pubbliche devono essere date prima ai privati o ai soggetti in via di privatizzazione. Infine si dispone che gli enti locali possono usare fuori dai vincoli del patto di stabilità i proventi derivanti dalla dismissione delle partecipazioni.

Di mira vengono presi i Comuni, già tartassati da anni di tagli ai trasferimenti e di rispetto ferreo del patto di stabilità che ha di fatto portato al progressivo smantellamento delle funzioni pubbliche e sociali. Si vogliono costringere adesso a svendere i propri servizi pubblici con il ricatto dell’utilizzo fuori da vincoli delle risorse ricavate, per mantenere un minimo funzionamento ordinario dell’ente.

Niente di nuovo. Viene alla mente il diktat europeo che portò all’insediamento del governo Monti dopo la straordinaria stagione di protagonismo sociale segnata dal referendum per l’acqua pubblica. Il meccanismo è qui più sofisticato. Dato che non si può riproporre la brutale privatizzazione prevista dalla legge Ronchi poi abolita dal referendum del 2011, si vuole arrivare allo stesso risultato senza imporre obblighi ma attraverso scelte falsamente volontarie degli enti locali.

A ben vedere, l’origine di questo attacco non va tanto ricercata nell’emanazione di questi provvedimenti. E’ la costante costruzione di un clima favorevole che permette oggi di concretizzare processi di concentrazione economica e finanziaria nei servizi pubblici locali.

Illuminante è una relazione del 14 ottobre scorso intitolata “Una nuova politica industriale dei servizi pubblici locali. Aggregare. Semplificare” scritta da Franco Bassanini, attuale presidente di Cassa Depositi e Prestiti (si trova all’indirizzo http://www.cdp.it/chi-siamo/organizzazione-e-governance/discorsi-e-interviste.html), con cui tra l’altro si rende ancora più netta la direzione che dovrebbero prendere il decreto Sblocca Italia in fase di conversione e la legge di stabilità da approvare entro la fine dell’anno: un’ulteriore dimostrazione che la politica economica la fa la Cassa Depositi e Prestiti, come la Banca Centrale Europea fa quella monetaria, stringendo in una morsa letale qualsiasi scampolo di decisione autonoma presa da organi eletti dai cittadini, a tutti i livelli ed impedendo sul nascere i processi di democrazia partecipativa rivendicati dai movimenti sociali. Il documento chiarisce la strategia dei prossimi mesi sui servizi pubblici locali, in connessione con quanto previsto dal decreto Sblocca Italia e dalla Legge di Stabilità, che ne costituiscono le prime tappe e dimostra il ruolo di primo piano che Cassa Depositi e Prestiti, direttamente e attraverso il Fondo Strategico Italiano e F2i, assume in questo processo di spoglio dalla sfera pubblica dei beni comuni e dei servizi pubblici locali. Nella relazione si spiega inoltre che questi “campioni” capaci di misurarsi anche sui mercati internazionali, come Bassanini definisce i soggetti risultanti dal processo di aggregazione, devono usufruire di forme di agevolazione pubbliche che però vanno spiegate all’opinione pubblica perché altrimenti potrebbero pensare a ingiustificate forme di aiuto alle imprese, “alimentando la mistificante illusione” (!) “che solo alla proprietà pubblica delle stesse consegue la certezza di adeguati livelli di efficienza ed economicità dei servizi pubblici locali”.

La dimostrazione che la preparazione della conquista del patrimonio dei Comuni è a buon punto la si ha, ancora una volta, nel caso della gestione dell’acqua e riguarda anche buona parte del territorio toscano, incluso il capoluogo. Da notizie di stampa, trapela un piano da parte di Acea di accrescere le proprie dimensioni nel settore idrico prendendo il controllo totale delle aziende attualmente partecipate al 40% (Publiacqua, Acquedotto del Fiora, Acque spa), attraverso un sistema di compravendita di azioni, da far confluire in un colosso capace di operare in tutta l’Italia centrale. Il tutto condito dal prolungamento delle concessioni di altri 10 anni. Considerando che il socio privato di rilevanza all’interno di Acea è la multinazionale Suez, si porta a compimento il disegno del cartello tra queste due: utilizzare Acea come ‘braccio armato’ di Suez per l’acqua in Italia. Quel disegno che l’antitrust ha condannato qualche anno fa proprio per aver condizionato le gare d’appalto per la gestione del servizio idrico in Toscana (in sostanza tenere fuori la concorrenza tramite una spartizione decisa a priori). Di fronte a questa operazione scatta però una riflessione sui vincoli statutari delle varie società di gestione del servizio idrico in Toscana. Per esempio in quello di Publiacqua all’art. 7 è scritto che se l’azionista pubblico per qualsiasi ragione scende sotto il 51% della proprietà, la società si scioglie secondo le disposizioni del Codice civile. Questo aspetto potrebbe essere un’arma da usare, visto che nella fase di nascita di Publiacqua e poi del relativo iter di cessione del 40% di azioni dai Comuni ai privati, lo statuto è stato deliberato dai Consigli Comunali (a Firenze il 1 dicembre 2003), insieme agli atti di concessione e altri atti collegati. Pertanto una possibile operazione di aggregazione societaria condotta da Acea che passi preliminarmente dall’acquisizione delle quote possedute dai Comuni in Publiacqua, dovrebbe vedere la modifica di questo vincolante articolo dello statuto, che spetta sì ai Sindaci soci, ma anche ai Consigli Comunali stessi, che l’hanno originariamente deliberato con l’intento dichiarato di mantenere la maggioranza azionaria in mano pubblica.

Deregolamentazione, riduzione dei diritti, privatizzazioni e in generale allargamento della sfera d’intervento del privato a scapito di quella pubblica. Il canto delle sirene per svendere i servizi idrici ai privati è sempre lo stesso, garantire una gestione “industriale” (sinonimo di profitti in quantità, quella sì, industriale) e attrarre investimenti. Ma sono gli stessi anche i motivi per smontarlo: gli effetti della privatizzazione che abbiamo già sperimentato sono fatti di milioni di euro di investimenti già pagati dalla tariffa e non ancora realizzati, così come reti e impianti che, dati della dispersione nella rete di distribuzione alla mano, sono sempre più in pessimo stato.

Comitati, associazioni e tutta la cittadinanza attiva hanno di fronte un terreno di azione arduo ma obbligatorio: riaprire una mobilitazione globale e nei territori, per ridare voce alle persone che pur nella crisi non perdono la speranza di costruire un modello sociale alternativo, con l’obiettivo della riappropriazione dei beni comuni e della loro gestione democratica e partecipativa. Accanto ai cittadini, così come ai lavoratori dei servizi pubblici locali (conforta vedere l’immediata reazione dei sindacati di base in Publiacqua), devono però schierarsi anche le istituzioni comunali, a cui spetta scegliere una volta per tutte se essere solo l’ultimo anello delle politiche neo liberiste rovesciate dall’Europa e dal governo nazionale oppure i rappresentanti dei cittadini che abitano il loro territorio.

Roberto Spini

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Roberto Spini

Roberto Spini, del Forum toscano dei movimenti per l'acqua, è un attivista di Attac Italia e di perUnaltracittà

1 commento su “Si sbloccano le lobby, altro che l’Italia. Il caso dell’acqua e dei servizi pubblici locali”

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