Libia: l’assenza di una sinistra rivoluzionaria

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libiaLa decapitazione di ventun copti egiziani ha improvvisamente riportato la Libia agli onori delle cronache. Le reazioni di sdegno e sgomento per quanto successo sono state spesso ispirate da adattamenti più o meno volgari del cosiddetto Orientalismo, ovvero con lenti interpretative con le quali l’Occidente storicamente legge e rappresenta il cosiddetto Oriente.

Quest’ultimo viene raffigurato come un blocco monolitico, incapace di presentare sfumature e distinguo al proprio interno, e sempre condannato a scegliere tra governi dispotici ed autoritari oppure moderni califfati. In campo politologico la tesi più conosciuta è certamente quella proposta da Samuel Huntington che alcuni decenni fa sentenziò come vi fosse qualcosa di “naturalmente anti-democratico nell’Islam come religione”. Il teorico dello scontro di civiltà non è stato il solo però a ricorrere ad aspetti culturalistici per descrivere l’assenza di regimi liberal-democratici nella regione mediorientale. Infatti, da Elie Kedourie passando per Bernard Lewis l’elenco di studiosi che hanno seguito questa strada è lungo. Personalmente ritengo le spiegazioni culturaliste sempre insoddisfacenti, non fosse altro che per il loro carattere altamente aleatorio e per le difficoltà di testarle scientificamente. Propongo quindi qui tre diversi spunti per comprendere quanto succede in queste settimane in Libia.

Per prima cosa si deve tener presente che la crescita di movimenti religiosi conflittuali è tutto, fuorché una novità in Nord Africa. Le prime avvisaglie in tale direzione si ebbero nei primi anni Settanta del secolo scorso ed erano il chiaro segnale del fallimento politico ed economico del modello nasserista basato su nazionalizzazioni, burocratizzazione, e supposto socialismo. Lo spazio politico di contestazione a tali regimi, quando si avviarono processi di liberalizzazione economica che alimentarono povertà e maggiori diseguaglianze sociali (1969 in Tunisia; 1974 in Egitto; 1979 in Algeria), era quindi ristretto a sinistra, mentre trovava ampia possibilità di coagulare il crescente dissenso a destra, grazie all’impalcatura di difesa della proprietà privata ed esaltazione della comunità di credenti (umma) fornita dal sunnismo, largamente egemone in Nord Africa.

In tal senso, concordo pienamente con quanto affermato da Slavoj Žižek in una recente intervista: il successo islamista è la spia del fallimento di un pensiero radicale e rivoluzionario di sinistra. Tornando alla Libia si deve sottolineare come le forze islamiste radicali abbiano trovato storicamente maggiori difficoltà di affermazione, sia per il discreto benessere economico presente nel paese grazie alla ridistribuzione delle ricchezze provenienti dalla vendita di idrocarburi, sia per il limitatissimo spazio politico concesso a forze di opposizione nella Libia di Gheddafi. La spiegazione della loro rilevante crescita oggi mi sembra quindi necessiti di altri supporti.

Uno di questi è il richiamo al dominio coloniale italiano, certamente non meno aberrante e crudele di quello francese in Algeria e Tunisia. Rilevante ai nostri fini è soprattutto sottolineare come la costante e completa de-burocratizzazione alla quale ricorsero gli italiani per governare la loro supposta quarta sponda determinò una riattivazione delle appartenenze tribali. Come spiegato da una letteratura vasta e sostanzialmente incontestata, la fedeltà riposta in una comunità diversa (tribù, etnia, classe) da quella nazionale, presenta un serio ostacolo alla formazione di un’entità statale in senso weberiano. Tale congenita debolezza dello stato libico è stata poi accentuata dal regime del Colonnello per due specifiche ragioni.

In primis, non necessitando di uno stato tributario grazie alle ingentissime risorse energetiche presenti nel sottosuolo libico, l’autorità statale è stata volontariamente indebolita seguendo i precetti contenuti nel Libro Verde. Secondariamente, temendo colpi di stato da parte dei militari, l’esercito libico è rimasto piccolo numericamente e a margini della vita politica del paese. La tendenza a far affidamento su forze miliziane per la sicurezza interna ed esterna è stata poi ulteriormente accentuata dopo il fallito golpe del 1993. Il risultato è stata la presenza di una forza coercitiva fedele ad un governo di chiaro stampo personalistico e sultanistico piuttosto che allo stato libico come entità trascendente la contingenza politica. Il venir meno di Gheddafi ha quindi determinato la scomparsa delle forze di sicurezza nel paese, in una situazione non eccessivamente dissimile da quanto avvenuto in Yemen, dove l’esercito si è spaccato tra forze fedeli al vecchio regime di Saleh e battaglioni che hanno invece appoggiato le forze di opposizione.

L’ultimo tassello rilevante è il richiamo all’intervento NATO a guida franco-britannica, determinante per stabile le sorti del regime gheddafiano. Questo stimolo esterno è stato decisivo per esacerbare tutte le difficoltà storicamente presenti in Libia: forti appartenenze tribali, debolezza statale, assenza di un monopolio coercitivo dell’uso della forza. La logica conclusione è stata quindi una prolungata e strisciante guerra civile dove gli islamisti, penalizzati dalle elezioni parlamentari a differenza di quanto successo in Egitto, Tunisia, e Marocco, hanno cercato di imporre la propria agenda attraverso l’uso della violenza, trovando peraltro terreno fertile nell’assenza di autorità statuale.

Detto questo, concludere semplicemente che la forza degli islamisti è il portato di un nuovo, e per la verità mai venuto meno nei suoi caratteri di fondo, colonialismo europeo è insufficiente. Ci racconta anche e soprattutto, almeno a mio giudizio, dell’incapacità della sinistra rivoluzionaria nordafricana di articolare un discorso egemone nella critica del presente, lasciando quindi campo libero a forze altamente reazionarie. Ovunque infatti la storia sembra in moto e ovunque si avverte l’assenza di forze marxiste, costringendo sempre a scegliere il minore dei mali.

Gianni Del Panta è un attivista, studioso di Scienze politiche

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Gianni Del Panta

Gianni Dal Panta, studioso e attivista politico, è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione. Da piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).

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