Politica e tessuto urbano al Cairo: un reportage.

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Chiunque abbia trascorso almeno qualche ora al Cairo porterà probabilmente con sé l’immagine di una città caotica, inquinata, sporca, e brulicante. Nei suoi racconti agli amici lo strano fermento che si nota sui tetti (un mix di enormi parabole satellitari e tende svolazzanti dove chi non può permettersi un appartamento trova riparo) facilmente si mescolerà alla proverbiale spericolata guida del tassista di turno. Soprattutto però, nelle prime ore trascorse nella capitale egiziana un senso di smarrimento e di sbigottimento colpisce il forestiero, stretto tra il frastuono costante dei clacson e l’apparente illogicità di una città che sembra sempre sul punto di collassare su se stessa. Muoversi ed orientarsi in questa enorme metropoli, apparentemente senza confini e costantemente protesa verso un’infinita espansione nel deserto, può quindi risultare impresa alquanto ardua. Ed infatti, lo è. Questo però non deve portarci a concludere che, parafrasando il titolo di una bell’opera di David Sims, non esista una logica in questa città fuori controllo. Al contrario, la raccolta della nettezza in una città senza cassonetti, così come la possibilità di prendere un minibus in una città dove non ci sono fermate dei mezzi pubblici né tantomeno orari rispetta un proprio funzionamento interno. Comprenderlo non è compito facilissimo. Fermarsi solamente all’apparente pazzia della città è però il mezzo migliore per rendere tale impresa ancora più complicata. Un diretto corollario di questo modo di ragionare è la presentazione del Cairo come un blocco monolitico: un’enorme, amorfa, incomprensibile metropoli. Diversamente, uno sguardo più attento alla città rivela le sue immancabili differenze interne, con il suo tessuto urbano che può essere elevato a cartina tornasole delle diverse politiche economiche e sociali dei governi che si sono successi sulle sponde del Nilo.

Escludendo la breve parentesi della presidenza di Muhammad Naguib (1953-54), dal colpo di stato dei Free Officers guidati dall’allora giovane Gamal Nasser nel 1952 fino alla cacciata di Hosni Mubarak l’11 febbraio 2011, l’Egitto è stato governato solamente da tre presidenti. Ognuno di questi ha legato la propria carica ad un preciso modello di sviluppo che ha direttamente ed indirettamente determinato profonde trasformazioni nel tessuto urbano del Cairo, una metropoli che è rapidamente passata da quasi 3 milioni di residenti dell’immediato secondo dopoguerra ai quasi venti di oggi. In estrema sintesi, il capitalismo di stato nasserista è coinciso con lo sviluppo della città formale; la politica economica di Infitah (letteralmente “apertura”) del suo successore, Anwar Sadat, con l’articolarsi della città informale; infine le politiche ultra neo-liberiste di Hosni Mubarak con l’espansione delle città nel deserto e dei compounds. Nell’analisi che segue gli anni in carica dei vari presidenti sono utilizzati come spartiacque. Ovviamente però i processi politici ed economici non sono strettamente legati al presidente di turno. Questo significa che i tre periodi considerati vanno letti come delle semplificazioni utili a chiarire il dinamico sviluppo degli eventi.

L’evoluzione della popolazione del Grande Cairo
Anno Cairo Formale Cairo Informale Cairo Semi-Urbano Cairo Deserto Grande Cairo
1947 2,400,242 0 586,038 0 2,986,280
1960 3,905,670 100,000 955,166 0 4,960,836
1976 4,610,326 1,969,000 1,374,317 0 7,953,643
1986 4,650,000 4,248,866 2,063,376 32,615 10,994,857
1996 4,807,632 5,436,477 2,857,468 149,992 13,251,569
2006 5,005,824 6,742,416 3,942,262 601,767 16,292,269
2009 5,038,763 7,155,106 4,345,567 800,952 17,340,388
Fonte: D. Sims, “Understanding Cairo: The Logic of a City out of Control”, Cairo, AUC Press, 2010.

1- Il capitalismo di stato nasserista (1956-1970)

Il gruppo di giovani ufficiali che assunse le redini del potere la notte del 23 luglio 1952 defenestrando re Farouk era stato largamente ispirato nel proprio agire dalla “rivoluzione dall’alto” guidata alcuni decenni prima in Turchia da Mostafa Kemal Ataturk. Tale prospettiva si basava sull’assunto che in contesti politicamente poveri ed economicamente poco sviluppati, solamente l’esercito attraverso la sua supposta coesione interna poteva farsi garante di un rapido processo di industrializzazione e modernizzazione del paese. Tuttavia, tali generici obiettivi erano declinati attraverso strategie alquanto diverse, con una parte dei golpisti favorevole a concedere ampio spazio all’iniziativa privata ed altri invece inclini a sostenere una politica fortemente interventista dello stato in economia. L’affermarsi della seconda linea di pensiero dopo alcuni anni nei quali sembrava invece essere prevalsa un’apertura di credito al mercato fu il portato di contingenze interne ed esterne. Il lungo dominio britannico in Egitto, cominciato nel 1882 e protrattosi in modi e forme diverse fino alla coraggiosa iniziativa del gruppo di Nasser, aveva determinato le classiche storture economiche comuni in tutta l’area. La vitale classe artigiana egiziana era praticamente scomparsa sotto il peso insostenibile dei prodotti industriali europei, mentre lo sviluppo industriale era praticamente assente. Il paese era stato, in poche parole, trasformato in un grande mercato che riceveva manufatti europei e provvedeva derrate alimentari al Vecchio Continente. In siffatta situazione, il processo di accumulazione originaria di capitale era stato alquanto limitato ed i pochi capitalisti egiziani presenti pur godendo di un regime favorevole ai loro interessi non riuscirono nei primi anni del post-1952 ad innescare un processo di industrializzazione su vasta scala. Secondariamente, in politica estera vi era il pericolo israeliano, che i militari pensavano arginabile solamente attraverso una dotazione di armamenti di provata qualità. Lo stretto rapporto che Nasser intratteneva con Washington lo spinse a cercare i mezzi economici e militari necessari a questa impresa nel paese a stelle a strisce. Tuttavia, il costante rifiuto che l’amministrazione Eisenhower oppose alle sue richieste, ritenendo le sue minacce di volgere lo sguardo ad Est sempre poco credibili, lo spinse a siglare nel 1955 un clamoroso accordo con la Cecoslovacchia per la fornitura di armamenti. Il dado era ormai tratto. Nei successivi anni il regime nasserista imbracciò con decisione un modello di sviluppo basato su nazionalizzazioni ed espropriazioni, deciso intervento statale in economia, crescita spasmodica del settore pubblico, sviluppo infrastrutturale del paese, e politiche redistributive attraverso l’istituzionalizzazione di servizi sanitari ed educativi con portata universale per quanto di limitata qualità. Una dinamica demografica esplosiva determinò anche un’imponente processo di urbanizzazione, che il regime decise di affrontare attraverso dispendiosi e grandiosi progetti di edilizia statale. Interi quartieri furono pianificati e costruiti su precedenti terreni agricoli, fornendo un alloggio umile (generalmente queste abitazioni andavano dai 45 ai 65 metri quadrati), ma decoroso a famiglie con basso reddito che poterono godere di affitti calmierati e di un diritto perpetuo all’utilizzo dell’abitazione. I numerosi impiegati dell’amministrazione pubblica che trovarono alloggio in questi nuovi appartamenti disponevano di tutta una serie di servizi che furono pensati assieme ai blocchi residenziali, marcando un netto contrasto rispetto alla città vecchia dove invece tutto continuava come prima. L’esempio più famoso di queste politiche abitative rimane certamente quello del quartiere di Mohandiseen-Agouza, sito sulla sponda occidentale del Nilo. Come si può facilmente osservare da un piccolo spaccato del quartiere, la regolarità e la larghezza delle strade e delle intersezioni che vi si trovano mostrano un chiaro tentativo di regolazione da parte delle autorità di una città che nel 1960 si trovava già alla soglia dei 5 milioni di abitanti.

fig1Figura 1: Veduta aerea del quartiere di Mohandiseen, classico esempio della città formale.

2- L’apertura liberista di Sadat (1970-1981)

La guerra del 1967, che impose severe restrizioni di bilancio all’Egitto, ed ancora di più il processo di liberalizzazione economica annunciato da Sadat nel 1974 sotto il nome di Infitah posero un serio freno all’espansione della città formale. Molto è stato scritto sulle ragioni che portarono ad una rapida virata in campo economico durante la presidenza di Sadat quando alcune vestige del precedente sistema si mescolarono ad una poderosa ed improvvisa apertura ai capitali stranieri, favorendo tutti coloro che riuscirono ad affermarsi come agenti di import-export e junior-partner delle compagnie straniere che iniziarono ad operare in Egitto. Tre aspetti vanno richiamati qui. In primis, il periodo nasserista era stato caratterizzato da un costante impegno bellico per i militari, chiamati prima a fronteggiare la proibitiva alleanza tra Francia, Gran Bretagna, ed Israele nel precipitare della crisi del Canale di Suez nel 1956 e poi schierati in una logorante guerra in Yemen per cinque lunghi anni (1962-7). Ancor più significativamente, la straordinaria vittoria israeliana nella cosiddetta guerra dei sei giorni nel 1967 lasciò un profondo senso di amarezza tra le alte gerarchie militari, che ottennero una parziale riabilitazione politica solamente sei anni più tardi con la tanto decantata vittoria nella guerra del Kippur. Comunque, al netto della martellante campagna propagandistica volta a presentare le operazioni militari come un completo successo per gli egiziani (un mito che continua ad avere una presa fortissima anche oggi), la realtà aveva sancito ancora una volta l’indiscutibile superiorità militare degli israeliani che, anche se attaccati a sorpresa e su più fronti, uscivano certamente non sconfitti dal conflitto. I militari, ben consci della realtà delle cose, cominciarono a sostenere un graduale abbandono del tanto strombazzato pan-arabismo di nasserista elucubrazione a favore di un approccio estremamente pragmatico, che mirasse a concludere una duratura pace con il nemico che non poteva essere sconfitto. In tale ottica, il diverso posizionamento dei due paesi lungo l’asse del conflitto Est-Ovest cominciò ad essere vista come problematica, e siccome Israele non si sarebbe certamente mai avvicinato a Mosca, gli egiziani dovevano muovere verso Washington. Gli americani colsero ovviamente al volo l’occasione, barattando la girata a 180 gradi in politica estera di Sadat con due precise richieste: l’acquisto di costosissimi armamenti made in the US e l’imposizione dell’apertura verso l’esterno del mercato egiziano. Questi importanti aspetti di politica estera si intrecciarono a due fattori interni. Per prima cosa, l’imponente intervento statale in economia aveva creato numerose storture: un crescente debito statale, un’eccessiva burocratizzazione, ed una scarsa produttività. Secondariamente, Sadat andava cercando l’affermazione della propria leadership personale attraverso la promozione di una nuova coalizione sociale dominante, che potesse liberarsi dai tecnocrati e burocrati promossi ad alti ranghi dal precedente governo. Le difficoltà politiche insite in una rottura completa dell’implicito patto stipulato da Nasser con le masse lavoratrici (quiescenza e non autonomia politica dei lavoratori in cambio di elargizioni materiali e sociali da parte dello stato), spinsero il paese su un crinale pericoloso dove lo stato manteneva la sua tradizionale funzione di principale datore di lavoro, ritirandosi però da alcune aree dove l’azione privata veniva incoraggiata e favorita. In sintesi quindi si può evidenziare come lo stato, dopo aver favorito il processo di accumulazione capitalistica attraverso la sua iniziativa diretta, lasciava che ad appropriarsene fosse una ristretta minoranza che intratteneva stretti rapporti con la leggendaria ed ingarbugliata burocrazia egiziana. Scuola e sanità pubblica furono lasciate languire, mentre tutti i progetti di pianificazione urbana per un’espansione controllata della città furono completamente abbandonati, lasciando alla sola iniziativa personale tutto l’onere. Il risultato fu l’esplodere della città informale che, già cresciuta negli ultimi anni della presidenza di Nasser, divenne l’assoluta protagonista del panorama urbano negli anni settanta ed ottanta. Considerando la costante crescita demografica della città, i vasti processi di urbanizzazione, e il dislocamento di oltre un milione di profughi dal Canale di Suez la situazione divenne presto di difficile gestione. Abbandonata qualsiasi aspettativa di uno sviluppo controllato attraverso vasti progetti di edilizia statale, la scelta degli amministratori, preoccupati per le crescenti tensioni sociali, fu quella di non contrastare l’espansione caotica e non controllata della città. Interi quartieri sorsero in pochissimi anni come il risultato del disordinato ed incontrollato affastellamento di edifici, con strade che conseguentemente non correvano più parallele tra di loro come in Mohandiseen e la spesso totale assenza di intersezioni. Questi quartieri mancavano ovviamente di tutti i servizi, con assenza di acqua potabile e sistemi fognari, oltre ovviamente a presidi sanitari ed edifici scolastici. In una fase di grande vitalità delle varie anime della sinistra egiziana, che vantava un’egemonia pressoché assoluta nelle università, Sadat riabilitò, dopo anni di ferocia repressione, la Fratellanza Musulmana. Lo scopo era duplice: arginare la sinistra marxista nelle università e permettere che la Fratellanza attraverso le sue organizzazioni caritatevoli potesse garantire quei servizi essenziali che uno stato in disordinata ritirata non riusciva più a provvedere. Il Cairo informale è quindi divenuto una roccaforte dei Fratelli Musulmani, che si affermarono come il principale erogatore di una particolare forma di welfare sociale. Ancora oggi, nonostante la defenestrazione di Mohammed Morsi e la messa fuori legge dell’organizzazione, la Fratellanza continua a vantare seguito e militanti proprio in quel Cairo informale che la svolta liberista di Anwar Sadat aveva creato.

fig2Figura 2: Sulla sinistra l’area di Bab al-Wazir facente parte della parte storica del Cairo e costruita nell’undicesimo secolo, mentre sulla destra Fustat Plateau sviluppata tra gli anni settanta ed ottanta. Le somiglianze del tessuto urbano sono sicuramente sorprendenti. Inoltre, il contrasto con Mohandiseen non è difficile da cogliere.

3- Il trionfo del neo-liberismo con Hosni Mubarak (1981-2011)

L’arrivo al potere di Hosni Mubarak, dopo l’uccisione di Anwar Sadat per mano di un membro della Fratellanza Musulmana, sembrò coincidere con un generale ripensamento delle strategie di sviluppo economico del paese, dato che l’eccessiva riduzione del ruolo dello stato veniva vista come pericolosa per la tenuta sociale del regime da una parte consistente della coalizione dominante. Il secondo shock petrolifero nel 1979, con la conseguente impennata del prezzo del petrolio, portò nuove e fresche revenues nei dissestati forzieri egiziani. In quegli anni, a differenza di oggi, il paese nordafricano disponeva ancora di discrete quantità di oro nero, che in parte esportava ricavando lauti guadagni, oltre ad essere favorito sia dalle rimesse dei quasi cinque milioni di egiziani impiegati come manodopera nei paesi del Golfo sia dai pedaggi navali dei passaggi nel Canale di Suez. Per tutta la prima parte degli anni ottanta ulteriori processi di liberalizzazione furono congelati, l’amministrazione pubblica continuò a crescere, ed i sussidi per i generi alimentari di prima necessità, il cui tentativo di abolizione aveva portato a violente proteste nel 1977 sotto Sadat, furono mantenuti. In poche parole, l’Egitto dei primi anni della presidenza Mubarak appariva come un semi-rentier state, eccessivamente dipendente dalle risorse esterne per procedere ad una profonda revisione delle sue principali linee di politica economica, eppure mal equipaggiato su questo fronte se confrontato con le petromonarchie del Golfo. La linea di galleggiamento era alquanto precaria e nel giro di pochi anni lo stretto passaggio a nord-ovest fu completamente ostruito. L’improvvisa caduta del prezzo del petrolio nel 1986, quando il brent scese sotto i 10 dollari al barile, pose il paese in una situazione di grande difficoltà. Impegnato a non toccare quegli che considerava fili elettrici ad alto voltaggio (introduzione di un sistema di tassazione diretta ed abolizione dei sussidi alimentari) il regime di Mubarak accettò pesantissimi passivi di bilancio che portarono l’Egitto a dichiarare bancarotta nel 1989. Due anni più tardi, nonostante la partecipazione nella prima guerra del Golfo al fianco degli Stati Uniti in cambio della cancellazione di quasi metà del debito che il Cairo aveva contratto con Washington, l’Egitto fu costretto a ricorrere agli aiuti economici del Fondo Monetario Internazionale. Qui inizia la mattanza neo-liberista del paese: privatizzazioni, sussunzione completa al capitale, esplosione delle diseguaglianze sociali, indiscriminati tagli a scuola e sanità pubblica, introduzione di una nuova e restrittiva legislazione nel mondo del lavoro, e piena riabilitazione politica ed economica dei grandi latifondisti parzialmente espropriati dalle varie riforme agrarie di Nasser. I mercanti del periodo di Sadat, che avevano accumulato una discreta fortuna economica, si trasformavano adesso in capitalisti nel senso stretto del termine, semplicemente acquisendo quelle attività produttive che lo stato andava svendendo alla ristretta cerchia che possedeva sia i mezzi economici necessari sia le giuste connessioni con il regime. In pochi anni un manipolo di super-ricchi emerse. Grandi amanti di moderni e fiammanti SUV, sempre e rigorosamente di colore nero e con finestrini sigillati a testimoniare lo spasmodico utilizzo di aria condizionata, attratti dal frenetico consumismo occidentale, e stanchi del perenne caos che avvolge la capitale egiziana, questa patetica trasfigurazione del genere umano ha cominciato a cercare la propria salvezza nel deserto. Gigantesche e tendenzialmente auto-sufficienti nuove città-satellite, distanti spesso qualche ora dal centro cittadino considerando il traffico infernale delle ore di punta, sono state pianificate e costruite da investitori privati che ottenevano concessioni e terre a prezzi stracciati. Nonostante questo, molti di questi complessi sono ancora oggi solamente parzialmente completati, assumendo le sembianze di vere e proprie cattedrali nel deserto, dove centri commerciali scintillanti che riproducono il Colosseo di Roma come involucro esterno della propria struttura si alternano a piloni di cemento armato desolatamente abbandonati alla sabbia e alla polvere del deserto. Maggiore fortuna hanno avuto invece i compounds, ovvero complessi residenziali chiusi e protetti da vigilanza privata che dispongono al proprio interno di mirabolanti giochi d’acqua e prati lussureggianti come nella piovosa Scozia. In un paese dove la carenza di acqua rappresenta un serio problema per molti, il volto crudele del neo-liberismo spesso si cela e si esplica proprio in questi assurdi capricci. Il tentativo perseguito dalla borghesia egiziana attraverso l’edificazione di questi nuovi compounds è chiaramente quello di un distanziamento completo e totale dal paese reale, quello dove il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno, in condizioni igienico-sanitarie quantomeno precarie. Povertà, miserie, e contrasti sociali vengono quindi immunizzati attraverso la loro rimozione dall’immaginario collettivo e la separazione fisica delle due comunità. Il trionfo dei compounds da un lato ha anche visto l’espansione della città informale in quello che viene definito il Cairo semi-urbano. Queste aree, rimaste agricole per millenni e punteggiate da molti villaggi di modeste dimensioni, sono state inglobate dall’espansione incontrollata della città e presentano tutti i problemi che abbiamo già discusso in precedenza per le aree informali in materia di accesso ai servizi essenziali. Inoltre, gli abitanti di questi villaggi che nel recente passato lavoravano la terra circostante, una volta privati del loro strumento principale di sussistenza sono finiti ad ingrossare le fila di un lumpenproletariat che qualsiasi osservatore minimamente attento avverte straordinariamente vasto nella capitale egiziana.

fig3

Figura 3: Classico esempio di compound nei pressi del Cairo. Il lussureggiante verde non inganni, ci troviamo infatti in piena area desertica.

Conclusione

“Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale”. (Marx, Per la critica dell’economia politica, Ed Riuniti, Roma, 1969, p. 5).

Questo lungo articolo ha cercato di tratteggiare attraverso una prospettiva diacronica le trasformazioni del tessuto urbano della capitale egiziana a partire dall’acquisizione della totale e piena indipendenza politica dalla Gran Bretagna. Il filo conduttore che lega tutto il ragionamento è abbastanza semplice e merita qui di essere semplicemente richiamato. Ognuna delle tre presidenze egiziane ha legato il suo mandato ad una specifica e precisa forma di modello di sviluppo economico. Questo ha prodotto ripercussioni evidenti sulla, per dirlo in termini marxiani, sovrastruttura. I cambiamenti urbanistici intervenuti rappresentano così un punto di osservazione privilegiato per capire la traiettoria seguita dall’Egitto negli ultimi sessant’anni. Questo è quello che abbiamo provato a fare.

*Gianni Del Panta è un attivista, studioso di Scienze politiche

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Gianni Del Panta

Gianni Dal Panta, studioso e attivista politico, è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione. Da piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).

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