Per Mondeggi e il futuro della democrazia

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Mi dispiace molto di non poter essere con voi oggi – e anche di non essere riuscito ad inviarvi un video, per le difficoltà di collegamento internet che ho nel luogo in cui mi trovo. Mi dispiace perché il sudore del vostro duro lavoro di quest’anno non è andato a irrigare solo la terra di Mondeggi, ma anche la terra sempre più piccola e sempre più sterile della democrazia italiana.

Tutti i fiorentini e tutti gli italiani devono esservi grati per quella che è sempre più evidentemente una supplenza istituzionale: a Mondeggi viene applicata quella Costituzione della Repubblica italiana che viene invece calpestata da coloro che hanno solennemente giurato di difenderla (a Roma e a Firenze).

mondeggi-bene-comuneAl posto di quella Costituzione, vige oggi in Europa la legge ferrea della cosiddetta «modernizzazione», che è stata la parola d’ordine dell’età di Tony Blair: un’età a cui Matteo Renzi si ispira esplicitamente e programmaticamente, e la cui «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, … [è] volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra». Sono parole di Luciano Gallino, che ha anche spiegato che il primo articolo di questa legge – virtuale, ma ferrea – del mercato dice che «lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio».

Così – mentre negli Stati Uniti economisti, storici e filosofi come Joseph Stiglitz, Tony Judt o Michael Sandel rilanciano il ruolo dello Stato e un’idea forte di interesse pubblico collettivo – l’Europa e con essa l’Italia sembrano condannarsi a guardare al passato, ripetendone errori e tragedie. È su questo altare – ideologico, ma sorretto da potentissimi interesse privati – che in queste ore ci stiamo preparando a sgozzare la Grecia: nel più grandioso sacrificio umano mai organizzato da istituzioni pubbliche per onorare il Dio Mercato.

Ciò che manca, ovunque si guardi, è un progetto di comunità, un’idea forte di cosa possa essere la Repubblica italiana del futuro, la capacità di render finalmente concreto l’attualissimo disegno contenuto nella Costituzione: quella vera. E questa idea manca perché oggi sembra impossibile avere un’idea dell’uomo che non sia ridotta alla sola dimensione economica. Far evadere il patrimonio culturale dalla prostrazione materiale e morale in cui è stato confinato dal totalitarismo neoliberista significa rimettere in circolo uno dei pochi antidoti a questo dogma.

Finora il patrimonio culturale – e cioè l’insieme inscindibile del «paesaggio e patrimonio storico e artistico della nazione», come dice l’articolo 9 della Costituzione: e cioè, ancora, la terra e ciò che l’uomo vi ha costruito – non è entrato nel dibattito sul futuro di un’economia civile e sostenibile che sostituisca all’obiettivo dell’accumulazione dei singoli quello del bene comune. Ciò dipende anche dalla distorsione per cui, nel discorso pubblico, il patrimonio culturale coincide sostanzialmente con i pochi musei celeberrimi. Ma la stragrande parte di esso consiste in ville, palazzi o complessi conventuali collegati a orti o a vere e proprie tenute agricole. Tutti casi in cui sarebbe percorribile la strada adottata per le terre sottratte alla criminalità organizzata, che vengono reintrodotte nel circuito economico legale grazie al lavoro di organizzazioni come Libera Terra, o a progetti come la Rete Economica Sociale, che riscatta le terre di don Peppe Diana, cioè il feudo camorristico di Casal di Principe.

E noi, in Toscana, dobbiamo guardare all’esperienza di Mondeggi esattamente nello stesso modo: un’esperienza che non coltiva solo la terra, ma coltiva la democrazia, anche a vantaggio di tutti coloro che dormono. E invece, l’unica politica del patrimonio culturale è una continua, sorda e criminale alienazione. L’alienazione del patrimonio culturale è una sottospecie, particolarmente grave e dolorosa, dell’alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, che a sua volta rappresenta la fase finale del gigantesco processo di privatizzazione del sistema delle partecipazioni statali intrapreso dal 1992 in poi.

Quest’ultimo ha riguardato il sistema bancario ed altre grandi attività imprenditoriali, come la siderurgia, l’alimentare, la grande distribuzione e la ristorazione, l’alluminio, il cemento, il vetro, le costruzioni, le telecomunicazioni, l’editoria e la pubblicità, la gestione delle infrastrutture e altro ancora: i grandi monopoli, o semi-monopoli pubblici che offrono servizi ai cittadini: le telecomunicazioni, la gestione del sistema autostradale, aeroportuale, portuale e altro.

Sono state così trasferite ai privati le grandi rendite precedentemente gestite dal pubblico. Praticamente nessuno ha venduto più di noi: l’Italia è al secondo posto nel mondo, dopo il Regno Unito e prima di Francia, Germania e Spagna. E abbiamo venduto per l’enorme controvalore di circa 205 miliardi di euro, ai valori correnti. Nel 2001 il ministro del Tesoro Vincenzo Visco poteva introdurre il Libro Bianco delle Privatizzazioni scrivendo che «la legislatura si conclude con la pressoché totale fuoruscita dello Stato dalla maggior parte dei settori imprenditoriali dei quali, per oltre mezzo secolo, era stato, nel bene e nel male, titolare». E lo diceva con orgoglio. Ma, nei fatti, questo colossale susseguirsi di alienazioni non è stato fondato su un progetto industriale, per esempio sul disegno (che pure era stato preso in considerazione) di creare «dieci/dodici gruppi industriali caratterizzati da una dimensione che avrebbe permesso loro di competere a livello europeo»: è stato invece guidato dalla ricerca della massimizzazione del valore degli introiti, per la riduzione del debito pubblico.

Ed è impossibile non osservare che se a ridurre il debito fossero stati incanalati i dividendi della imprese pubbliche che abbiamo invece venduto, il risultato sarebbe stato forse migliore. E se «dai governi Amato-Ciampi a quello di Monti il debito pubblico italiano, non è diminuito, anzi è aumentato», gli effetti delle privatizzazioni sul benessere dei consumatori sembrano ancora più controversi. Lo sono per quanto riguarda i servizi bancari. E lo sono per i servizi autostradali e delle utilities. In particolare, analizzando nel dettaglio i prezzi dei servizi erogati dalle utilities (acqua, energia, trasporti, telecomunicazioni), si osserva una dinamica dei prezzi molto accentuata soprattutto nei settori dell’acqua, del gas e delle autostrade, e una forte riduzione nelle telecomunicazioni.

Ancora meno soddisfacenti appaiono i risultati della privatizzazione delle banche per ciò che attiene al livello degli oneri che il sistema bancario pone a carico della clientela, che da tutte le indagini anche di recente condotte risulta sistematicamente e considerevolmente più elevato di quello riscontrato nella maggior parte degli altri paesi europei. È stato anche questo a spingere 27 milioni di italiani a votare (per il 95,5 %) contro la privatizzazione dell’acqua, nell’unica occasione (il referendum del 2011) in cui siamo stati chiamati a pronunciarci su questo processo che ha cambiato profondamente le nostre vite.

Sul piano sociale i risultati sono stati anche peggiori: «considerando l’indice di Gini, negli anni 1991-93 si osserva un brusco aumento della diseguaglianza, che è tornata ai livelli dei primi anni ottanta; l’indicatore si mantiene poi sugli stessi livelli per gli anni successivi. Gli indicatori di povertà assoluta mostrano una dinamica del tutto simile». E in più bisogna rammentare che, in Italia come in tutto l’Occidente, «la stessa agenda della privatizzazione e liberalizzazione è stata profondamente corrotta: ha fatto confluire rendite elevate nelle mani di chi usava la propria influenza politica per portarla avanti».

E quando, dopo un quinquennio di fuoco, la forza propulsiva della privatizzazione delle imprese statali iniziava ad affievolirsi (anche perché la materia prima cominciava a scarseggiare), è stata la volta della vendita del patrimonio immobiliare, decollata proprio con la creazione della Agenzia del Demanio (1999), ed ormai arrivata a cedere immobili pubblici per un controvalore di circa 25 miliardi di euro. Dopo una serie di tappe di avvicinamento, tutte dovute a governi di centro-sinistra, l’apice della privatizzazione del patrimonio si toccò, grazie a Giulio Tremonti, con «la costituzione, nel 2002, della Patrimonio dello Stato spa, una società per azioni che, almeno teoricamente, avrebbe potuto gestire e alienare qualunque bene della proprietà pubblica. In un colpo solo, lo Stato intero, il complesso della proprietà pubblica, si sarebbe potuta dematerializzare nella forma di azioni».

Ovviamente questa specie di escalation della privatizzazione colpì e travolse anche la parte più importante del patrimonio dello Stato, il «paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione»: e di fronte all’enormità dell’attacco, si risvegliò quel che rimaneva dell’opinione pubblica. Il libro Italia spa di Salvatore Settis – che uscì proprio nel 2002, conquistando subito un ruolo guida – aprì gli occhi agli scettici e agli increduli, dimostrando con numeri e fatti che «il patrimonio culturale italiano non è mai stato tanto minacciato quanto oggi, nemmeno durante guerre e invasioni: perché oggi la minaccia viene dall’interno dello Stato, le cannonate dalle pagine della Gazzetta Ufficiale».

Anche grazie a quella resistenza, il progetto megalomane della Patrimonio dello Stato spa si arenò, ma in questi dodici anni lo spirito del suo programma distruttivo è risorto molte volte. Si è reincarnato nella proposta «ancor più estremista» avanzata da Giuseppe Guarino nel 2006-07: quella di costituire una enorme società per azioni che alieni il patrimonio dello Stato fino ad estinguere il debito pubblico. E, da ultimo, nell’analoga idea dell’imprenditore Marco Carrai, intimo del presidente del Consiglio Matteo Renzi: il quale vorrebbe creare un «Fondo Patrimonio Italia, dove conferire gli asset morti dello Stato per estrarne valore: l’immenso patrimonio immobiliare pubblico». Dopo aver legiferato «a monte, per valorizzarlo, andando a rimuovere gli ostacoli burocratici che ne impediscono la valorizzazione», questo mega-fondo dovrebbe essere gestito, continua Carrai, con «efficienza, fantasia, volontà»: praticamente un incubo.

Ma mentre i teorici si esercitano, la soluzione finale prende corpo poco a poco, prima in Parlamento e poi nella carne di un Paese che appare ormai rassegnato. Tra i passi più recenti si possono segnalare la legge 248 del 2005, per la quale «nell’ambito delle azioni di perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica attraverso la dismissione di beni immobili pubblici, l’alienazione di tali immobili è considerata urgente con prioritario riferimento a quelli il cui prezzo di vendita sia determinato secondo criteri e valori di mercato. L’Agenzia del demanio è autorizzata, con decreto dirigenziale del Ministero dell’economia e delle finanze, di concerto con le amministrazioni che li hanno in uso, a vendere».

E ancora la legge 133 del 6 agosto 2008, che dispone la ricognizione del patrimonio immobiliare degli enti locali (il cespite oggi più succoso), al fine «della redazione del piano delle alienazioni» (art. 1). E poi soprattutto la legge più grave e disastrosa di tutte, la 85 del 2010 sul cosiddetto ‘federalismo demaniale’, che prevede il conferimento agli enti locali, e la possibile, successiva alienazione di beni demaniali, ivi compresi quelli storici e artistici: com’è avvenuto, per esempio, a Venezia per Cà Corner della Regina sul Canal Grande, venduta dal Comune a Prada per far tornare i conti del bilancio ordinario.

E infine il devastante Sblocca Italia di Maurizio Lupi e Matteo Renzi (2014), che mette una taglia sul patrimonio immobiliare pubblico, promettendo una quota degli utili ai Comuni che ne favoriranno la dismissione. Come ha scritto il vicepresidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena: si tratta di provvedimenti legislativi di una gravità eccezionale, che vanno contro la lettera e lo spirito della Costituzione. Questa mira ad un’equa ripartizione dei beni tra tutti i cittadini, ispirandosi al principio di eguaglianza sostanziale e ai criteri dell’utilità generale e del preminente interesse pubblico. Il decreto legislativo in esame, invece, toglie a tutti i cittadini per favorire, in un primo momento, i residenti di ogni singola regione, e in un secondo momento, addirittura singoli privati cittadini.

Questa ormai fitta legislazione consegna ai manuali di storia del diritto le differenze tra beni disponibili, beni indisponibili e demanio inalienabile dello Stato, e cancella l’idea stessa di un demanio inteso come una riserva inattingibile rivolta al futuro e finalizzata all’attuazione dei diritti fondamentali dei cittadini: tutto è, nei fatti, alienabile, tutto è anzi potenzialmente già in vendita, e le differenze di stato giuridico tra i beni comportano solo trafile burocratiche differenti. Un’involuzione, questa, la cui insensatezza è denunciata dal persistere di benemeriti istituti giuridici, come la prelazione pubblica e l’espropriazione per interesse culturale: che senso ha comprare, o espropriare, beni privati per difenderli meglio, se in un domani non tanto remoto sarà possibile rimetterli sul mercato?

Così l’incubo della Patrimonio dello Stato spa si è di fatto avverato, anche se nella forma di uno stillicidio: le tre inserzioni di Stato con cui si apre questo capitolo sono tre gocce di un flusso continuo di alienazioni del quale l’opinione pubblica sostanzialmente non si rende conto. Ma, di fatto, la nostra generazione lascerà ai nostri figli molto meno di quanto ha ereditato. E molti si accorgeranno di ciò che abbiamo fatto solo quando – magari da vecchi, accompagnando i nipotini in una gita domenicale – troveranno sbarrato da un cancello con su scritto «proprietà privata» il parco, la chiesa, il castello in cui hanno trascorso lunghe ore della loro infanzia.

Dev’essere chiaro che quel che si vende (anzi, si svende) non è terra, e non sono mattoni: sono invece la carne e il sangue della democrazia italiana. In gioco non c’è solo la conservazione del territorio: in gioco ci sono valori come la libertà, la giustizia, l’uguaglianza. Una società in cui si riducano ancora gli spazi pubblici dove tutti siamo uguali, i luoghi in cui non siamo clienti e gli oggetti e i valori non commerciabili è una società condannata a divenire meno libera, più ingiusta, ancora più insanabilmente diseguale. È un suicidio: lento, e travestito da cura. Ma è un suicidio.

Difendere l’esperienza di Mondeggi – come quelle del Teatro Valle di Roma, della Cavallerizza Reale di Torino, del Teatro Rossi di Pisa e molte altre ancora – significa difendere quel che resta della nostra sovranità. Perché è evidente che stiamo tornando alla teoria abbracciata con fervore da uno dei personaggi del Mulino del Po, scritto da Riccardo Bacchelli intorno al 1938: «la teoria per cui Buongoverno è dove uno comanda in piazza, e tutti sono padroni in casa propria». Nel discorso berlusconiano, e ora in quello renziano, «padroni in casa propria» aveva un significato letterale (compendiare e ‘lanciare’ il Piano Casa), ma ne aveva anche uno traslato e generale: la casa è il Paese, l’Italia, e l’essere padroni è l’insofferenza radicale degli italiani ad ogni regola.

È il ribaltamento letterale dell’articolo uno della Costituzione: alla sovranità del popolo basata sull’idea ciceroniana di una comune libertà basata sulla comune sottomissione alle leggi, si oppone l’idea ‘texana’ di una proprietà individuale dal valore assoluto: la legge finisce dove inizia la proprietà. Ecco, invece, noi vogliamo una Repubblica senza un uomo solo al comando, e una terra senza padroni. È per questo che ringrazio dal profondo del cuore tutti coloro che, a Mondeggi, coltivano il futuro della democrazia italiana.

(Intervento scritto per l’Assemblea pubblica alla Casa del popolo di Grassina, 28 giugno 2015)

*Tomaso Montanari, docente di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli, editorialista e blogger

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