Eredità politica e familiare: il “Front National” francese

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La storia del Front National è indissolubilmente legata ad un cognome: Le Pen. Jean-Marie Le Pen è stato tra i fondatori del partito nel 1972, suo presidente ininterrottamente fino al momento del passaggio della presidenza alla figlia Marine, nel 2011.

Alla successione al vertice ha corrisposto una strategia che in francese è chiamata dédiabolisation (destigmatizzazione o normalizzazione). Si intende con questa espressione il tentativo che Marine Le Pen ha messo in atto, fin dalla sua elezione, di slegare il partito dall’immagine di estrema destra che ha caratterizzati il Front National nei lunghi trent’anni di reggenza del padre e di presentarlo come una formazione popolare pronta a dare accoglienza ad elettori di diverso orientamento ideologico, spesso portatori di un atteggiamento di protesta nei confronti dei partiti tradizionali.

In effetti, il Front National fu creato all’inizio degli anni Settanta come un rassemblement delle componenti sparse dell’ampio panorama dell’estrema destra francese alla fine degli anni ’60, con Jean-Marie Le Pen, combattente volontario in Indocina e nella campagna di Algeria, chiamato a tenere insieme gruppi che andavano da Ordre Nouveau a movimenti nazionalisti non direttamente legati all’ideologia fascista. Non è un caso che, dopo l’espulsione di Jean-Marie Le Pen, decisa dalla figlia Marine nel mese di agosto del 2015 proprio per avvallare la “normalizzazione” del Front National, il vecchio leader abbia fondato nel mese di Settembre dello stesso anno un nuovo movimento dal nome “Rassemblement Bleu-blanc-rouge” al fine di “rimettere il partito sui binari degli anni precedenti”.

La reazione di Marine Le Pen all’annuncio della nascita del movimento non è stata più negativa della distanza con cui la figlia “traditrice” ha accolto la maggior parte delle esternazioni del padre nel ruolo di presidente onorario del Fn, affidatogli nel 2011 al momento del cambio della leadership. E di dichiarazioni clamorose, in grado di attrarre sia elettori di nicchia della destra estrema sia l’interesse di una stampa attirata dai toni politicamente inaccettabili ma molto redditizi in termini di audience, Jean-Marie Le Pen può dirsi un esperto. Il vecchio leader del Fn è noto per ver definito le camere a gas come un “dettaglio della secondo guerra mondiale” (1987), o per aver rinvenuto nel virus Ebola il rimedio al problema delle migrazioni (2014) «Monsignor Ebola può risolvere questo in tre mesi».

Eppure, nonostante lo shock nella sfera pubblica provocato da queste dichiarazioni, Jean-Marie Le Pen è riuscito nel corso degli anni a raccogliere non solo il voto della destra estrema, ma anche a compiere un passaggio comune a diversi altri partiti della destra radicale in direzione di un populismo di destra in grado di attrarre elettori disillusi dalla politica tradizionale. La chiave di volta di questa strategia è stata la piattaforma xenofoba e anti-immigrazione che ha fatto del partito l’esempio per molte altre formazioni europee. Questa, unita a una serie di proposte anti-establishment nazionaliste, tradizionaliste e contrarie al pensiero unico del neo-liberismo, ha permesso al partito di guadagnare consensi anche all’interno dell’elettorato operaio già a partire dalla metà degli anni Novanta.

Una traiettoria non molto diversa è stata seguita da altri partiti in Europa che, provenienti da un milieu di destra radicale, hanno accolto attraverso una retorica populista i malumori e le insoddisfazioni di un elettorato sempre più marcatamente antipartitico e sensibile alle agende anti-immigrazione, law and order e di ritorno ai valori tradizionali di collettività omogenee , come nel caso della Fpö in Austria e del Vlaams Blok in Belgio.

Con il passaggio al secondo turno delle elezioni presidenziali del 2002, Jean-Marie Le Pen ha ottenuto il suo massimo risultato politico (16,9% dei voti, contro il 19,9% di Chirac e il 16,2 di Jospin), superato solo da quello della figlia nel 2012 con il 17,9% dei voti.

Nonostante i successi elettorali alle elezioni presidenziali, però, il Fn, a causa delle penalizzazioni del sistema elettorale e dell’adozione da parte delle forze politiche tradizionali di un cordone sanitario intorno al Fn che impedisce al partito di Le Pen la costituzione di coalizioni anche con formazioni della destra moderata, non ha una rappresentanza altrettanto ampia in Parlamento.

La strategia politica di Marine Le Pen punta quindi alla presentazione del Front National come un partito aperto a tutti gli elettori. Le parole d’ordine rimangono legate al vecchio passato: il nazionalismo legato al principio della preferenza nazionale, per cui i benefici dello stato sociale spettano in primo luogo ai cittadini della République; la lotta all’immigrazione; la legge e l’ordine, e uno stato forte che lotti per il riacquisto delle sovranità della Francia anche nei confronti dell’Unione europea.

La diabolizzazione da cui il partito si vuole liberare è quella non solo degli altri partiti, ma anche dei mezzi di comunicazione di massa nei confronti del Fn e della relativa percezione del partito agli occhi di un elettorato in crisi di rappresentanza politica e vessato dalla crisi economico-finanziaria che fa emergere i limiti dell’azione di governo dei partiti tradizionali.

Marine Le Pen ha finora quindi avuto gioco facile nel mettere al centro della sua condanna il fallimento dei modelli di integrazione, utilizzando l’argomento della laicità dello stato per poter agitare un’islamofobia che chiama in causa argomenti culturali e non etnici, che evitino di ricucire addosso al partito l’etichetta di estrema destra.

Contemporaneamente, questa strategia comunicativa e politica promuove temi inusitati ai tempi della presidenza del padre. Marine Le Pen è avvocato, donna, divorziata, con due figli da relazioni diverse e quindi lontana dall’immaginario femminile della destra radicale. La difesa in termini anti-islamici delle minoranze omosessuali nelle banlieues è quindi uno stratagemma discorsivo accettabile. A posizioni che mostrano una parziale apertura, però, come la dichiarazione di non di non modificare la legge sull’aborto, corrispondono i proclami sulla tolleranza zero; l’eliminazione dello ius soli, così come della possibilità di regolarizzazione degli immigrati clandestini; l’applicazione del citato principio della preferenza nazionale, la lotta contro il multiculturalismo.

Queste tematiche sono contenute all’interno di un nuovo modello di democrazia che, in un’ottica prettamente populista, rimetta il popolo – quello nazionale- al centro delle scelte pubbliche, restituisca dignità alla Francia e ai francesi in termini economici e nazionali attraverso misure di protezionismo e il ritorno al franco, e garantisca sicurezza e benessere ai cittadini francesi. La distinzione tra il bene e il male, altro tipico refrain del populismo lepenista, introdotto dal padre e portato alla massima espressione dalla figlia, è ben rintracciabile nelle dichiarazione ufficiali di Marine le Pen all’indomani degli attacchi terroristici di Parigi: “La France doit enfin déterminer quels sont ses alliés et quels sont ses ennemis”.

La decisione di Marine Le Pen, in perfetto stile repubblicano, di interrompere la campagna elettorale alla vigilia delle elezioni regionali che davano prima degli attacchi il Fn in ascesa nei sondaggi, è ancora una volta paradigmatica di una strategia comunicativa e politica che intende rimarcare la fedeltà ai principi della République, ma allo stesso tempo è ben attenta a non cavalcare l’onda dell’islamofobia con toni scomposti per non creare inquietudine in un elettorato emotivamente già molto provato, con il rischio di perderne una parte in favore di un rassemblement repubblicano che si raccolga attorno ai partiti tradizionali.

 

 

Manifesto per il 1 maggio 2013

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Giorgia Bulli

Giorgia Bulli, ricercatrice in Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Firenze, Scuola di Scienze Politiche. Si occupa da anni di estrema destra in Italia e in Europa. Insegna “Comunicazione Politica ed elettorale” e “Analisi del linguaggio politico”. Collabora con la Humboldt Universität di Berlino, dove insegna e svolge ricerca su questi temi.

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