Diario della crisi infinita

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Tornano gli operai(sti).

Il libro in questione è una raccolta di saggi e articoli scritti dall’autore tra il 2011 e il 2015. Trattandosi di un economista, di un teorico e militante proveniente dall’area “operaista” – un gruppo i cui contributi, anche quelli attuali, sono sempre più indispensabili per capire e agire il nostro tempo – i temi affrontati in questo testo non potevano non riguardare la crisi. Ma, da un autore quale Christian Marazzi, ci si aspetta naturalmente non soltanto una sua lettura (della crisi), ma anche che egli parli delle conseguenze e delle prospettive che si aprono – o si chiudono – in relazione ai movimenti che in qualche modo si oppongono al dilagante liberismo.

copertina marazziDa non trascurare poi la prefazione di Bifo che dà un ulteriore contributo a queste problematiche, nel momento in cui legge l’inceppamento del ciclo tradizionale della crescita in termini tutti interni al processo produttivo stesso: per la saturazione dei mercati, ma anche per cause quali la crescita tecnologica della produttività con relativa riduzione dei tempi di lavoro e conseguentemente con l’aumento della disoccupazione. Cercando anche di cogliere il nocciolo della problematica attuale quando fissa lo sguardo su alcuni concetti quali quelli di valore restituendoci un Marx che non poteva immaginarsi che si potesse appunto creare valore «senza passare attraverso la mediazione di oggetti utili» (p. 10). O che il ciclo D M D’ (Denaro – Merce – più Denaro) si potesse trasformare in D P D’ (Denaro – Predazione – più Denaro), con l’ovvia conseguenza che alla predazione corrisponda l’impoverimento sociale.

Questo, secondo me, significa che quello che il Capitale non riesce a estrarre dal plusvalore (dalla produzione delle merci) lo estrae tramite una predazione, un’appropriazione anche di quello che un Marx più giovane aveva chiamato “general intellect”, concetto recuperato guarda caso proprio da questo gruppo di pensatori. La predazione consiste nella privatizzazione dei beni comuni, nello smantellamento del welfare, nella dismissione del patrimonio pubblico e nella «costrizione» al debito. Questo viene attuato attraverso un sistema che consiste nelle istituzioni statali fatte di fatto complici di questo disegno; del sistema dei partiti, obbligati ad attuare il pareggio di bilancio, la riforma della costituzione e la spending review.

Vista la struttura della raccolta, gli argomenti trattati all’interno del tema comune della situazione economica negli ultimi anni, sono tra i più disparati. Alcuni, quelli in particolare precedentemente pubblicati come articoli, occupano spesso un paio di pagine, mentre il testo degli interventi a convegni o simili, hanno invece un respiro maggiore. Ovviamente riportare qui tutti questi temi sarebbe impossibile, mi limiterò pertanto a citare quegli aspetti che più possono arricchire rispondendo a volte a domande che ci siamo già poste o lasciando che altre ne emergessero tra le righe del racconto che l’autore propone, o che io semplicemente penso di avere colto.

Non potevano mancare pezzi sull’Euro, sul debito e sulle ipotesi di bancarotta degli stati con letture e prese di posizione spesso molto articolate, ma tenendo sempre presente l’ipotetico punto di vista di chi si oppone o si dovrebbe opporre al capitalismo in particolar modo quando si presenta nelle sue vesti liberiste.

«[…] nella fase attuale, a me sembra che la rivendicazione del “diritto alla bancarotta” […] definisca quell’orizzonte “riformista” (o di “transizione”) di cui abbiamo bisogno e di cui, peraltro, si parla con sempre maggiore insistenza sui mercati finanziari nei termini della “ristrutturazione del debito sovrano” […] per uscire dal pantano della crisi dei debiti sovrani. Ma un simile terreno di ricomposizione di classe deve necessariamente essere collettivo, istituzionale, per certi versi esemplare, deve cioè produrre dei luoghi di organizzazione democratica in cui fare crescere in modo duraturo pratiche militanti di costruzione di questo stesso diritto alla bancarotta» (p. 33 i corsivi sono dell’autore).

Oppure – contrapposto all’Euro – l’ipotesi della costruzione di uno spazio per una moneta (del) comune che sappia dare espressione materiale alla lotta di classe trasnazionale. «Cos’è la moneta del comune? È quella moneta che dà espressione e riconosce ciò che è comune nella moltitudine» (p. 181). Almeno cominciare a ragionare partendo da qui, dalla difesa ad esempio delle public utilities, a fare, proporre, un investimento di tipo keynesiano nell’immateriale, nella cultura, nella socialità, nella formazione e nella sanità. O, ancora: «Dobbiamo iniziare a pensare all’organizzazione militante e politica da una parte in termini di condivisione, dall’altra come costruzione paziente di terreni di alleanze e anche di linguaggi che ci permettano di capire e interloquire con questi soggetti della crisi, non necessariamente nuovi» (p123). «[…] le esperienze a livello di quartiere, dagli orti urbani comuni alle forme di condivisione della riproduzione, mi sembrano un buon modo per porre la questione non tanto di un’inversione delle aspettative decrescenti, ma della ricostruzione delle trame della soggettività» (p. 124).

Alla ricerca di una via di uscita dalla contemporaneità, da questa contemporaneità, da questo modo di produzione, si mettono in campo ipotesi che gli elementi dimarazzi criticità hanno portato in superficie. Di nuovo la moneta, di nuovo l’Euro. L’Euro che potrebbe e dovrebbe essere una moneta comune, ma che così come è adesso non riesce a sostanziare neppure le aspettative di un atteggiamento politico da blando riformismo. E considerazioni sul debito che sarebbe il problema chiave perché concentra il rischio su quelli che meno possono sostenerlo. Debito che poi «introduce una non linearità nel sistema economico, che i modelli keynesiani trascurano» (p.157).

Poi dei dati economici che raccolgo alla rinfusa: il PIL del mondo intero nel 2010 era di 74.000 miliardi di dollari, ma il mercato obbligazionario era invece di 95.000 miliardi; le borse capitalizzavamo 50.000 miliardi e i derivati 466.000 miliardi. Questo significa che la ricchezza reale ammonta a soltanto un ottavo del movimento totale di questo mercato. Ma questi dati significano lo spostamento del centro della valorizzazione e dell’accumulazione capitalista dalla produzione materiale a quella immateriale e l’asse dello sfruttamento da quello sul lavoro manuale a quello sul lavoro cognitivo, dando origine ad una nuova “accumulazione originaria” con caratteristiche di alta concentrazione, così dal 1980 al 2005 si è assistito a 11.500 fusioni che hanno ridotto il numero delle banche a soltanto 7.500.

Nel 2011 solo 5 tra SIM (J.P.Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e divisioni bancarie (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merril Linch, Bnp- Parisbas) avevano il controllo di più del 90 per cento dei titoli derivati. Le prime 10 società con maggiore capitalizzazione pari allo 0,12 per cento, delle 7.880 società registrate nelle borse, detengono il 41 per cento del valore totale, il 47 per cento del totale dei ricavi e il 55 per cento delle plus valenze registrate. Le concentrazioni non sono uno specifico del settore bancario, ma lo sono anche per quanto riguarda le industrie multinazionali «si stima che 147 di esse possiedano il 40 per cento del valore economico delle altre 43.060.

«I paesi con minor debito privato (Italia, Grecia e Belgio) sono quelli con maggior indebitamento pubblico, ma poiché l’indebitamento pubblico è inferiore, come quota del PIL, di quello privato», ne consegue che essi possono sopportare meglio il rischio di default ed essere così più appetibili per essere spolpati.

Se a metà del secolo scorso si poteva ipotizzare un futuro nel quale lo sviluppo tecnologico avrebbe reso sempre più superflua una parte del lavoro manuale, nessuno poteva ipotizzare che la sua sostituzione sarebbe stata non in una direzione di tipo edonistico, ma verso “occupazioni” di tipo cognitivo, nei servizi e, addirittura, per non diminuire l’orario di lavoro, si sono inventati dei lavori inutili.

L’ultima parte riporta anche il testo di due interventi organizzati da UniNomade che vertono entrambi su interpretazioni della moneta in essere e di quella possibile. Anche Marazzi cita (come molti degli autori dei testi sul debito recensiti in questa stessa rivista) il 15 agosto 1971, data nella quale il governo degli Stati Uniti dichiarò scollegati oro e dollaro, mettendo fine alla convertibilità e facendo emergere l’aspetto per il quale la moneta fosse un mero segno, anziché un valore, un equivalente generale. La mancanza della convertibilità apre però anche la possibilità di ripensare il ruolo stesso della moneta divenuta di fatto moneta scritturale, una moneta-debito e non più un equivalente generale che sembrava essere il suo ruolo precipuo e che permetteva la connessione con il lavoro contenuto nelle merci e quindi con la “sostanza”. Da cui deriva «una ipotesi interpretativa: il Capitalismo finanziario si è allontanato dalla categoria della sostanza spezzando, precarizzando e flessibilizzando la classe operaia, ma al prezzo di avere costruito un sistema monetario che si è ripiegato su se stesso ed è imploso» (p. 170).

C’è poi il recupero di una riflessione sulle trasformazioni postfordiste dei processi produttivi degli anni ’80 e ’90. Marazzi parla di esternalizzazione, outsourcing, di cattura delle competenze linguistiche e relazionali, cattura delle relazioni, anche della cooperazione stessa messa in rete e estratta dalla rete. Cattura del sapere per estrarre valore, dentro i processi produttivi, ma anche all’esterno, con investimenti piccoli senza far crescere troppo il capitale fisso. Un investimento in dispositivi di cattura più che in quelli di produzione. Ecco allora: «un consumatore che produce almeno una parte di quel che consuma» (p. 174). Il profitto diviene rendita perché non c’è più da pagare (del) lavoro. Qui una nota: anche nel fordismo c’era del lavoro non retribuito, per esempio il lavoro domestico o quello della cura. Il lavoro occulto delle donne che il sistema sociale regalava al processo di produzione. In gioco sarebbe dunque la misura oggettiva del valore che,

«probabilmente, non è più possibile. Possibile, anzi necessaria, è la misura, soggettività del valore, e questa rimanda alla soggettività dei movimenti di lotta, e alle forme di lotta e di vita che la sostentano» (p.176).

Sulla scomparsa della classe operaia e sul suo ritrovamento se ne sono dette in abbondanza, occorre però ricordare che nel Novecento la classe operaia fordista non ha mai superato il 30% della popolazione attiva. Dice Marazzi che comunque era riuscita a essere maggioritaria nel senso gramsciano della sua egemonia, questo perché, questa “minoranza” incarnava innumerevoli aspetti dell’intera società. Se il soggetto flessibile, spesso lavoratore autonomo che in realtà lavora egualmente alle dipendenze di un qualche capitale sovrastante, ha sostituito il soggetto della classe operaia, la problematica che si apre è quella di verificare quanto questo soggetto flessibile abbia la capacità di riassumere la società. Ecco che la moltitudine che opera in questo senso occupando spazi là dove invece il capitale contemporaneo agisce per flussi. Si tratta di esempi di autogestione dei quali il movimento operaio è riuscito a punteggiare la storia operando nell’organizzazione dei quartieri, delle mense, e, di nuovo, degli orti urbani.

Le varie esperienze in questa direzione Marazzi le chiama “esercizi di esodo” riprendendo un concetto di Paolo Virno e aprendo, o riportando, l’attenzione su programmi che potrebbero apparire datati, e che invece ritiene essere «ancora molto condivisibili e attuali, come la riduzione dell’orario di lavoro» (p. 190).

Christian Marazzi, Diario della crisi infinita, Ombre Corte, Verona 2015, pp. 190, 17.00.

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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