Almaviva: il coraggio di rompere il ricatto

Si è molto parlato in questi giorni delle vicende dei lavoratori Almaviva, ma cosa è successo nella realtà? Almaviva è una grande multinazionale italiana di proprietà della famiglia Tripi, attiva in varie parti del mondo (Usa, Brasile, Colombia, Tunisia). Si occupa di Information & Communication Technology, cioè fornitura di servizi e consulenza per privati e pubblici. In concreto la sua attività principale è quella di gestire i servizi di call-center per società come Vodafone, Enel, Alitalia, Sky, Telecom, Wind, Poste Italiane. Ha fornito servizi anche alla Regione Toscana e ad altri enti pubblici.

Una storia di sfruttamento: di lavoratori e fondi pubblici

Fin dalla sua nascita l’azione di questa azienda, leader nel suo settore, fa perno su tre elementi:

  1. Contratti precari e al ribasso;
  2. Sovvenzioni ed incentivi statali;
  3. Delocalizzazione interna.

L’azienda, leader del settore e con profitti davvero considerevoli, da sempre applica principalmente contratti part-time o con inquadramenti più bassi rispetto alle aziende committenti. Questo si somma alla strategia dell’azienda di ottenere più finanziamenti pubblici possibile, ad esempio nel 2000 ha usufruito di sgravi contributivi dati a chi assumeva nelle regioni considerate svantaggiate aprendo sedi a Napoli, Palermo, Catania

Nel 2007, quando una sentenza l’ha obbligata a mettere in regola 4000 lavoratori che erano inquadrati in un finto contratto a progetto, l’azienda col sostegno dei sindacati confederali, ha convinto i dipendenti a rinunciare ai soldi pregressi in cambio di un contratto part-time a tempo indeterminato, e per questa regolarizzazione ha ottenuto i finanziamenti previsti dalla legge 407/90. Questa mobilità è possibile grazie al sistema della delocalizzazione interna che consiste nel trasferire le commesse da una sede all’altra. Ovvero delocalizzare al fine di intascare i soldi pubblici che Governo e istituzioni locali offrono; poter licenziare e minacciare esuberi, a seconda di dove è possibile e invece assumere dove sono previsti sgravi e incentivi. Così succede nel 2012 quando, alla scadenza delle sovvenzioni su Roma, l’azienda trasferisce le commesse nelle sedi del Sud e provvede a nuove assunzioni a Rende, ma dichiara gli esuberi nella capitale.

Ma anche una storia di lotta

La vicenda che ha portato alla chiusura dello stabilimento di Roma inizia a marzo 2016, con l’annuncio di 3000 esuberi a Palermo, Napoli e Roma. L’obiettivo è liberarsi dei dipendenti più anziani, perché più costosi e riassumere ottenendo i vantaggi previsti dal Jobs Act.

La mobilitazione inizia subito, il 13 Aprile uno sciopero nazionale porta ad un accordo con i sindacati e ad un referendum per il 5 maggio. Nonostante il ricatto dei licenziamenti il 90% dei lavoratori boccia l’accordo. I confederali firmano un nuovo accordo, che però è sostanzialmente uguale a quello bocciato, dunque niente licenziamenti, ma peggioramento delle condizioni di lavoro e del salario e, ancora una volta, finanziamenti pubblici per mantenere i posti di lavoro.

A ottobre però l’azienda decide di cambiare tutto: vuole chiudere le sedi di Roma e Napoli e trasferire 300 lavoratori da Palermo a Rende (Provincia di Cosenza), perché la soluzione proposta – che era più o meno “far stare peggio i lavoratori”; non basta ancora. Prima Almaviva prende i soldi pubblici e peggiora le condizioni degli operatori per mantenere il lavoro, poi dice che non è servito a nulla e propone come unica alternativa un drastico taglio dei costi e l’inserimento del controllo individuale.

Riparte la vertenza e la protesta. Il 19 ottobre i lavoratori scioperano ancora e a Palermo occupano la sede. La trattativa stalla fino a dicembre, quando il governo interviene per la prima volta, prolungando la Cassa Integrazione fino a marzo e cercando di far accettare il taglio ed il controllo, che però sono rifiutati. Il Governo allora fa una grave forzatura: scorpora la trattativa e fa esprimere separatamente Napoli e Roma. Le RSU di Napoli alla fine accettano con un solo voto contrario. Quelle di Roma chiedono di potersi consultare con i lavoratori ma non gli viene permesso. Per questo rifiutano in blocco l’accordo, rispettando il mandato delle assemblee e delle mobilitazioni portate avanti dai lavoratori nei due mesi precedenti.

Contro le RSU di Roma si scatena una vergognosa campagna mediatica che le accusa di essere le responsabili dei licenziamenti. Le dirigenze sindacali allora fanno marcia indietro, la CGIL indice un referendum che si svolge il 28 Dicembre vince il SI, ma, nonostante il ricatto, il 44% dei votanti conferma il NO delle RSU.

L’azienda però non è interessata e mascherandosi dietro i formalismi giuridici procede con la chiusura dello stabilimento romano e 1666 persone vengono licenziate; in questo modo Almaviva svela – se ancora ce ne fosse stato bisogno – la sua vera natura: nessun rispetto per i lavoratori e le trattative.

Il 21 gennaio i lavoratori Almaviva, organizzati nel “comitato 1666 ex Almaviva”, hanno manifestato a Roma assieme ad altre centinaia di lavoratori, migranti e solidali contro il ricatto e lo sfruttamento operato dall’azienda e contro la connivenza delle istituzioni con questi padroni-squali, sostenendo la necessità di lottare; per riaffermare la dignità, il valore e i diritti del lavoro.

Nonostante la manifestazione partecipata, l’importanza del coraggio dimostrato da queste donne ed uomini e la solidarietà espressa dai lavoratori di altre aziende, l’impatto mediatico di questo corteo è stato molto scarso: i media italiani hanno dimostrato ancora una volta che la cosa importante è creare il titolo sensazionale e dare modo a qualche politico di fare dichiarazioni superficiali, non di affrontare la notizia nella sua complessità. Della vicenda Almaviva all’opinione pubblica resta che le RSU romane hanno fatto licenziare 1666 lavoratori. Di tutto ciò che viene prima (la politica del profitto aziendale perseguito a scapito dei lavoratori) e dopo (l’arroganza di una azienda che chiude le trattative e licenzia, l’autorganizzazione della lotta dei lavoratori, la solidarietà di altri soggetti) ai media non interessa dare notizia o fare approfondimento.

Invece secondo noi, che abbiamo avuto modo di seguire le sorti dei lavoratori Almaviva da molto prima che se ne occupassero i giornali, questa vicenda è esemplificativa della condizione di tanti lavoratori, vessati da aziende che pensano solo al profitto e abbandonati da sindacati e anche dal governo, che dovrebbe come minimo avere un’attenzione particolare nei riguardi di chi usufruisce di agevolazioni statali che dovrebbero servire alla stabilità e al benessere dei lavoratori prima di tutto.

La vicenda Toscana

Peraltro, la nostra Regione – guidata dal Governatore Rossi che si presenta come “alternativa di sinistra” nel PD per ritagliarsi uno spazio nella battaglia interna al partito –  risulta nei fatti coinvolta in questa vertenza Almaviva, come ricordano i Cobas Regione:

Regione Toscana è fra i committenti di Almaviva Contact Spa: da sei anni i lavoratori di Almaviva di Roma gestiscono il contact center per le carte sanitarie della regione. Questi lavoratori sono stati adesso licenziati insieme a tutti quelli della sede di Roma (1666 lavoratori): l’azienda ha così ottenuto il taglio del costo del lavoro che voleva.

Di fronte al silenzio e alla complicità dei governi nazionali e regionali, rispondiamo rilanciando solidarietà e lotta per l’internalizzazione dei servizi!

 

*Clash City Workers