Il movimento del 1977, ancora indigesto per il sistema di potere

Il movimento del 1977 è ancora estremamente indigesto per il sistema del potere, malgrado siano passati quarant’anni: colpisce l’odio, il puro odio di classe, ma direi anche di genere, con cui viene ricordato. Sì perché il femminismo è stata una componente essenziale, innovativa e dirompente del movimento. Ma forse più che di contrapposizione fra classi e generi si dovrebbe parlare della contrapposizione fra chi è comunque sostenitore delle classi dominanti e del sistema di potere esistente e chi vuole trasformare la società in senso egualitario e libertario.

“La nostra lotta è anche una lotta per la memoria contro l’oblio… una politicizzazione della memoria che distingue la nostalgia, che vorrebbe che qualcosa fosse come era, un tipo di atto senza utilità, da quel ricordare che serve ad illuminare e trasformare il presente”

Bell hooks, Yearning: race, gender and cultural politics, Turnaround, London, 1991

È un movimento odiato perché è stato capace di creare uno spiazzamento: mentre il PCI pensava alle mediazioni e a quali diritti umani e sociali vendere per ottenere il potere e un posto al governo, c’era chi, proprio quel “movimento eterogeneo”, dichiarava apertamente che non aveva l’obiettivo di “prendere il potere”. Inaccettabile: come comprarli dandogli qualche sedia in consiglio comunale o in parlamento? Il movimento del 1977 era spiazzante perché aveva altri valori, era davvero “da un’altra parte” rispetto alla democrazia formale (e democristiana): l’obiettivo era costruire da subito rapporti umani egualitari, eliminando con tutti i mezzi disponibili sessismo, leaderismo, sfruttamento. La domanda fondamentale era la ”felicità”: badate bene non solo più soldi o la casa in proprietà, ma la qualità della vita e la felicità. Velleitario? Mentre era forse realistico chiedere ancora una volta alla classe operaia e alle classi subalterne di fare sacrifici, in nome di una sviluppo che crea vantaggi solo a pochi? Da un lato si è accusato il movimento di velleitarismo e infantilismo, dall’altro di essere violento. Qualcuno ha sentenziato: “giocano più che fare politica”.

Sono queste accuse ad essere davvero infantili, inadeguate e servili: le classi dominanti non sapevano più che pesci prendere, sostanzialmente non capivano. È come se questo spostamento del piano delle rivendicazioni e delle lotte avesse rotto il loro giocattolo, perché noi quel giocattolo non lo volevamo. E questo crea anche un problema di senso: se il movimento non voleva prendere il potere, né pensava di fare la rivoluzione, come si poteva accusare di sovversione? La distanza dalle opzioni della lotta armata marxista leninista era evidente. Indirettamente gli strepiti contro il movimento ci dicono che quello che il potere (che per brevità denoterei come: stragista, nepotista, sessista, ignorante) ha temuto di più è stato che un “insieme eterogeneo di gruppi” si siano uniti contro di loro, contro le loro ingiustizie, per costruire un’altra società e abbiano condiviso obiettivi e valori con un grande coraggio (per dignità non per odio) e capacità di coesione malgrado non ci fosse una organizzazione o un centro direzionale… in modo del tutto autonomo ed anarchico.

Il potere si è trovato di fronte una eterogeneità coesa, un insieme composito di persone, giovani, ma non solo, unificate da un comune sentire, da una cultura comune e da giudizi di valore condivisi, e soprattutto dalla comune volontà di realizzare da subito una società più giusta. Quante conoscenze e riferimenti teorici condivisi: da Foucault, Guattari, Agnes Heller, Laing, Rosa Luxemburg, la scuola di Francoforte, a Cernisevsky con il suo “Che fare? il romanzo sugli uomini nuovi”. C’era una rete informativa fatta di due quotidiani (lotta continua e quotidiano dei lavoratori), volantini, assemblee quasi quotidiane, radio libere. E quanti seminari autogestiti o gestiti con professori di grande livello come a Torino, Giovanni Levi o Romano Alquati. Allora essere studenti lavoratori era ancora possibile. Il fatto che il movimento non stesse nelle regole li ha spiazzati. I propositi erano di cambiare davvero i rapporti sociali: non solo nei luoghi del lavoro ma nella famiglia e nella società, in tutte le sue espressioni.

La radicalità del movimento del 1977 era insita nei suoi propositi e nella sua capacità di aggregazione e non nell’uso della violenza. I propositi di chi vuole sconvolgere i rapporti di potere fra le classi e fra i generi, di chi vuole modificare l’organizzazione della società nella fabbrica e nella famiglia, nel lavoro e nel quotidiano, nel tempo libero e nella produzione di cultura è di fatto antagonista al potere costituito, anche quando non usa la violenza e soprattutto quando agisce come movimento in grado di unire componenti e culture estremamente diverse, che fino ad allora non erano state in grado di lavorare insieme. Politici e creativi, femministe ed operaisti uniti, anche se in un labile equilibrio, per modificare da subito parti delle loro vite, per sperimentare, per quanto possibile, la costruzione di una società alternativa; con l’obiettivo di non affidarsi solo all’orizzonte lontano della rivoluzione ma di realizzare da subito modi di vivere che rispondessero ai nostri bisogni.

Il movimento del 1977 ha costituito un problema così grosso per il sistema istituzionale e di potere delle classi dominanti, per tre motivi: ha mostrato una diffusione che andava oltre le vecchie divisioni sociali (oggi si potrebbe definire moltitudine); aveva capacità egemoniche dal punto di vista teorico e culturale, probabilmente perché poteva dire la verità (a differenza di chi nasconde gelosamente indicibili segreti di stato) ed aveva capacità creative ed innovative ed infine non era recuperabile proprio per la radicalità con cui rifiutava gerarchie di classe e di genere, identità imposte, sfruttamento per le classi subalterne, esclusione dalla fruizione e dalla produzione della cultura (determinando una alternativa biopolitica al biopotere). Aveva in potenza e stava sperimentando la capacità di trasformare l’esistente, i rapporti di forza e le regole del gioco.

In realtà, quella del movimento del 1977 è stata una storia interrotta. È stato un caleidoscopio di sogni che riempivano davvero le strade, trasformando città, piazze e quartieri. E la possibilità di viverci: invece di trovarsi alla panchina del parco, invece della noia del bar e della discoteca, invece della militanza nella sinistra rivoluzionaria senza “partire dai propri bisogni”. Fra gli obiettivi e le pratiche c’era la lotta agli spacciatori di eroina, al lavoro nero e all’introduzione del contratto di formazione-lavoro proposto allora per ridurre i diritti e precursore del lavoro precario. Dicevamo: basta con sacrifici e sofferenze, basta con il mito operaista del lavoro (leggi anche Quarant’anni di lavoro di Marco Arturi). Al loro posto rivendicavamo la qualità della vita da costruire subito collettivamente senza sessismo, senza leader, una vera autogestione della vita e della politica. Non ultimo chiedevamo l’inclusione delle cultura nelle poste in gioco della lotta politica e sociale attraverso l’autoriduzione e i prezzi politici per gli spettacoli e la ri-appropriazione della sua produzione. Ma il 1977 è stato anche confronto con le politiche classiste del governo, con la repressione e la criminalizzazione, con i morti nelle piazze, con la richiesta di sacrifici: con il PCI in prima fila contro tutto il movimento. Ed è stato anche il nostro tentativo, con tutto il movimento, di contrastarle. Noi lottavamo contro lo sfruttamento e l’ingiustizia, per poter costruire nuovi rapporti sociali con “i nostri tempi”, mentre lo stato ci dettava i suoi tempi e si rendeva responsabile dell’assassinio del compagno Francesco Lorusso, e poi di Giorgiana Masi, in modo diretto e di Walter Rossi in modo indiretto lasciando fare i neofascisti romani. Non sono crimini che si possano dimenticare.

I sacrifici che ci chiedevano Berlinguer (PCI) e Lama (CGIL), abbiamo visto poi a beneficio di chi sono andati: di rendite e profitti indissolubilmente legati al malaffare, tangenti e spartizioni. E quanti altri sacrifici sono stati richiesti in questi quarant’anni (scala mobile abolita, lavoro precario sempre più diffuso, austerity, tagli al poco welfare di cui disponevamo… fino ad arrivare all’infame job act) senza che si ottenesse altro che una distanza sempre maggiore fra classi dominanti e dominate, fra ricchi e poveri, fra i privilegiati e chi si vede espropriato di troppi diritti e beni comuni: dal reddito alla casa, dal territorio all’acqua, dalla cultura ai servizi a rete privatizzati.

Lo stato e i partiti (con nomi vecchi e nuovi) che hanno criminalizzato il movimento del 1977, e continuano a farlo, aspettiamo ancora che rispondano a semplici domande: come mai mafia, ‘ndrangheta e camorra non sono state debellate? Chi sono i responsabili e i mandanti politici delle stragi della banca dell’Agricoltura a Milano del 1969, di Bologna nel 1980, di piazza della loggia a Brescia nel 1978 solo per citare alcuni macigni che pesano su qualsiasi ipotesi di reale democrazia parlamentare in Italia? Oggi conviviamo con un potere mafioso, nepotista, sessista, ignorante, prevaricatore.

Il movimento del 1977 è stato uno di quei momenti nella storia in cui si fanno dei balzi in avanti sostanziali e inattesi, in cui i rapporti di forza si modificano in favore delle classi subalterne. In cui un vasto settore sociale può mettere in discussione i rapporti sociali e provare a sperimentarne di nuovi. L’attualità del movimento del 1977 è stato di contrapporre la qualità della vita al mito del lavoro e dei sacrifici (lavoro duro e sacrifici destinati solo alle classi subalterne, come ci chiedeva il PCI: “sacrifici e serietà”); di mettere il modo in cui si fa politica, il modo in cui ci si mette in relazione con gli altri al centro dell’impegno politico. Questo era il significato dello slogan il “personale è politico” traslato dal movimento delle donne, non a caso, visto che le donne che allora rifiutavano il binomio puttane/madonne per optare per un “siamo donne” (“nei cortei si gridava: “non più puttane, non più madonne, finalmente siamo donne”) avevano tutto da guadagnare da nuovi rapporti sociali. Era uno spostare l’attenzione sui nodi: le relazioni sociali, l’organizzazione sociale, la nostra vita e la nostra felicità e rifiutare i sacrifici finalizzati a favorire uno sviluppo economico fondato essenzialmente su sfruttamento e su merci molto spesso inutili e/o dannose e destinate solo a chi è solvibile e non certo prodotte in relazione ai bisogni umani di tutti. Allora era una intuizione, oggi tutti i movimenti che si oppongono alla globalizzazione capitalista hanno mostrato in tutto il mondo le storture dell’economia finanziarizzata, dell’accumulazione capitalista da espropriazione di beni comuni e di diritti inalienabili. E un altro nodo che il 77 ha individuato è la necessità dell’autonomia dalle istituzioni esistenti e quindi la necessità di costruirne delle altre, del tutto diverse per valori e organizzazione. Una storia appena iniziata.

“Ohei! O’ cangaceiros! Ohei! O’ cangaca’! Torino, 1977“. Lunedì 7 novembre 1977 il circolo del proletariato giovanile Cangaceiros viene chiuso dalla PS: “Noi diciamo che la nostra villa è stata chiusa e 21 compagni denunciati, come sono state chiuse altre sedi in precedenza, perché vogliono tappare la bocca qui a Torino come in tutta Italia, a tutti quelli che si oppongono al regime e che discutono e lottano per cambiare la loro vita sul lavoro, nella scuola, nel tempo libero, nei rapporti con le altre persone” (articolo a firma Circolo del proletariato giovanile Cangaceiros, quotidiano Lotta continua, 9/11/1977). E Vanni un compagno del circolo scrive sempre su Lotta Continua: “I compagni dei circoli sono quelli che da un anno portano avanti la lotta all’eroina, che sono stati davanti alla Materferro (ndr fabbrica) quando si volevano licenziare quattro delegati, come sono stati davanti alla CMD occupata contro il doppio lavoro nero sottopagato e come sono stati davanti ai cancelli della Mirafiori contro gli straordinari e per l’occupazione. Questo è il loro reato”.

Una lotta interrotta con la cieca violenza dello stato e con i dispositivi più abbietti, non può che offrire oggi una storia che deve essere continuata. Molti dei problemi posti allora non sono stati risolti, ma aggravati. Flessibilità del lavoro ed austerity per esempio, sono ancora sul tavolo. La lotta per cambiare le nostre vite è ancora all’ordine del giorno, come la lotta contro un capitalismo nuovo e vecchio allo stesso tempo, come sono nuove e vecchie le discriminazioni di genere e il razzismo. Ma per capire il presente si deve capire il passato, e per capire il passato abbiamo il presente da conoscere. E la nostra lotta richiede di abbattere i dispositivi del biopotere e di creare nuovi immaginari. E nel farlo abbiamo bisogno di una autogestione della memoria che non usi i dispositivi del potere per raccontarsi ma ne stia fuori, corra attraverso, si insinui ovunque, dove lo spazio si crea e si amplia.

*Marvi Maggio


Per un punto di vista interno e collettivo di una delle componenti più avanzate del movimento del 1977 a Torino leggete:
Settanta7- Disoccupate le strade dai sogni! – Il circolo del proletariato giovanile “Cangaceiros” di Torino – Un contributo per l’autogestione della memoria. È un libro sul circolo del proletariato giovanile Cangaceiros di Torino, che un gruppo di compagni (di cui faccio parte) che ha partecipato a quella esperienza, ha messo insieme 20 anni fa. Per il titolo “disoccupate le strade dai sogni” abbiamo preso in prestito il titolo di un disco e di una canzone del grande compagno, poeta, cantautore Claudio Lolli. Grazie ad alcuni compagni di Firenze, il libro è visionabile e scaricabile da: http://www.strano.net/cangaceiros/
“…mi sembra che al centro di tutto ci fosse la volontà di rendere più umana la nostra esistenza da subito, anche attraverso la creazione di questo punto di riferimento nei quartieri dove poter parlare dei soliti problemi, non limitandoci alla loro enunciazione e denuncia, ma trovando la forza e inventando i modi per risolverli. Si discuteva di tempo libero, dei problemi di chi ne aveva poco perché lavorava, si discuteva di rapporti interpersonali più umani e meno alienati, si discuteva di gite, di sesso, dell’amicizia e anche del padrone, del governo, di “politica”…”
“..una scoperta del 77 è che uno non è un soggetto politico solo per il lavoro che fa ma lo è anche per i bisogni che esprime…”
“…un enorme merito del 77 è stato di porre la questione della trasformazione dell’intera società e non solo del sistema economico: il capitalismo usa rapporti di potere preesistenti, come i rapporti fra i sessi o tra le classi, a suo favore…”
“…il personale si intendeva politico non soltanto perché le vicende individuali hanno un significato più generale, condiviso, ma anche perché tocca delle questioni che riguardano l’organizzazione della società, organizzazione che porta con sé i rapporti di potere tra le classi e tra i sessi, i ruoli nella famiglia e nella struttura della riproduzione…”
“come donna sentivo che fare politica per me era una scelta obbligata perché la strada che mi veniva assegnata non era quella che io volevo percorrere…vivevo…una disparità di opportunità segnata in modo discriminatorio dal fatto di essere sessuata al femminile”.

Articolo pubblicato con il titolo 1977, una storia appena iniziata su Comune.Info