In diretta dalla Catalogna: un popolo che ancora chiede terra e libertà

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Due anni fa ho conosciuto una ragazza di Barcellona in Erasmus a Firenze. Era una militante di Arran, organizzazione giovanile della sinistra indipendentista. Prima di lei avevo conosciuto diversi indipendentisti e indipendentiste del Paese basco, ma mai nessuno dalla Catalogna. Le dissi che negli ambienti della sinistra italiana si parla spesso di Euskal Herria (il paese basco), ma non avevo mai sentito di nessuna iniziativa sulla Catalogna. Lei molto stupita mi disse “Eppure noi catalani siamo molto più vicini all’indipendenza”. Sul momento pensai che fosse frutto dell’orgoglio ma la sua affermazione mi rimase impressa nella memoria per la determinazione che vi si poteva cogliere.

Alcuni mesi dopo ho incontrato di nuovo la ragazza per un’intervista (la trovate qui): partendo come volontaria un po’ all’improvviso e senza contatti, aveva passato quattro settimane nel campo profughi di Idomeni (confine Grecia-Macedonia), spinta dalla voglia di impegnarsi concretamente di fronte all’indifferenza generale e dalla volontà di informare su quanto accadesse ai confini dell’Unione Europea. In un solo mese era stata arrestata, era finita in televisione, aveva raccolto soldi su internet con cui aveva comprato vestiti ed altre cose utili per i migranti. Capii che, se solo la metà dei catalani e delle catalane erano come lei, l’indipendenza doveva essere davvero vicina.

E così arriviamo al presente: nelle ultime settimane si è parlato sempre più spesso del referendum per l’indipendenza della Catalogna del primo ottobre. Dopo mille tentennamenti (e con due soli giorni di anticipo) ho comprato un biglietto aereo: andata e ritorno in sole 36 ore! Per motivi di lavoro non potevo assentarmi più a lungo ma non mi volevo assolutamente perdere questo momento storico. Quello che segue è il racconto più o meno lineare di questa esperienza.

Sabato 30 settembre
Arrivo a Barcellona sabato sera. La prima tappa è l’Institut del Teatre, dove raggiungo alcuni amici che hanno preso parte ad un’assemblea. Il tempo di sentire gli ultimi aggiornamenti e dai palazzi intorno si alza un frastuono di pentole. “Succede ogni sera dalle 22 alle 22 e 10, ormai va avanti da giorni: in tutta la città la gente prende una pentola e si mette a fare la cacerolada dalla finestra in appoggio all’indipendenza o semplicemente contro gli arresti della polizia” mi spiega un ragazzo. Ed in effetti la partecipazione di massa sulla questione è evidente: mentre andiamo a mangiare un boccone, la cacerolada continua strada per strada ed alzando lo sguardo è impossibile non fare caso al fatto che dai terrazzi e dalle finestre di tutti i palazzi sventolino bandiere. Per la maggior parte bandiere degli indipendentisti catalani (Estelada blava o Estelada roja), poi molte bandiere per il Sì (il voto a favore dell’indipendenza), qualche bandiera della repubblica spagnola del 1931-39 (tre strisce orizzontali colorate di rosso, giallo e viola scuro) e qua e là qualche bandiera dell’attuale regno di Spagna. Ogni muro, lampione, vetrina e persino gli alberi sono tappezzati da manifesti per l’indipendenza.

Dopo esserci rifocillati al Barraqueta, un locale a Vila de Gràcia frequentato dagli indipendentisti, ci rechiamo ad un seggio elettorale poco distante, un Centro comunale polivalente occupato da giorni per il referendum. Fuori dall’edificio c’è stata una cena sociale ed adesso è in corso un cineforum. A pochi metri una distesa di tende da campeggio: ragazzi e ragazze (ma anche famiglie con bambini) presidiano il seggio da giorni per paura degli attacchi della polizia. Dopo un po’ un signore sulla cinquantina ci si avvicina, sorride e ci chiede “Dormite qui?”, “No, però siamo qui per il referendum”. “Italiani?”. “Sì, di Napoli, Firenze. Siamo qui per dare una mano”. Sorride ancora. “Mira aquì” e ci indica la maglietta dove c’è il volto di un uomo, un militare. “Sapete chi è questo?”. La faccia non ci dice niente: sarà qualche patriota catalano? “È un famoso comandante anarchico della rivoluzione del ’36. Era italiano”. Restiamo un po’ impacciati, lui continua: “Tanti italiani sono venuti in Catalogna nel ’36 per aiutarci a battere il fascismo. Qui nessuno ha mai dimenticato le Brigate Internazionali. Forse oggi voi che siete venuti qui siete i nuovi Brigatistas”.

Gli chiediamo quali siano i seggi che hanno bisogno di rinforzi. Consulta diverse chat sul telefono e ci dice che ci sono alcuni seggi con meno persone ma che sono distanti, in questa zona è tutto tranquillo. Diamo un’occhiata alla mappa e valutiamo dove andare: l’appuntamento è per le cinque di mattina davanti ai seggi. Decidiamo di andare a riposare un paio d’ore a casa di un amico.

Domenica
Quando riapro gli occhi fuori è ancora notte fonda. Prendiamo un caffè al volo e ci avviamo a piedi verso il seggio. Poco prima di arrivare, su un muro leggo la scritta “Vota per un Sì anticapitalista”. Nonostante la pioggia, fuori dalla Escuela municipal de arte y officios c’è già una gran folla. Incontriamo anche un nostro amico basco con altri ragazzi “Siamo venuti in migliaia per sostenere la Catalunya, ogni popolo deve avere il diritto di scegliere il proprio destino”. Le facce sono stanche ma sorridenti, la gente fa cori e canta. Dentro la scuola da giorni dormono studenti, insegnanti e genitori.
Tutto procede tranquillo fino alle sette di mattina, quando in fondo alla strada appaiono dei lampeggianti. Cala il silenzio e tutti si stringono di fronte al portone. Arriva un blindato. “Saranno i Mossos d’Esquadra (polizia catalana) o la Guardia Civil (polizia spagnola)? E se sono i mossos, che linea terranno?” Nei giorni scorsi si sono infatti susseguite una serie di dichiarazioni che lasciano sperare che la polizia locale non abbia intenzione di usare la forza per impedire il referendum, ma la certezza non ce l’ha nessuno. La folla scaccia la paura intonando un coro e battendo le mani “Els carrers seran sempre nostres/Le strade saranno sempre nostre!” Si apre il blindato, scendono due mossos con la divisa ordinaria. Si avvicinano; si alza il coro “Votarem! Votarem!”. I mossos si limitano a constatare la situazione e se ne vanno tra gli applausi. “Votarem! Votarem!”. La scena si ripeterà diverse volte durante la mattinata.

Col passare delle ore la folla aumenta: ci sono studenti, genitori con bambini, anziani. Quando alle nove si apre il portone, la strada è piena in entrambe le direzioni. Esce un signore che dà le istruzioni su come mettersi in fila e sulla procedura per votare. Tutti ascoltano in silenzio e in pochi minuti si formano file lunghissime. Quando arriva un votante particolarmente giovane o anziano viene accolto da un applauso. Quando arriva la polizia tutti corrono davanti al portone.

Presto però arriva anche la notizia che la Guardia Civil sta impiegando molta violenza per sgomberare i seggi. Girano le prime foto, i primi video. “Sono appena arrivati ad un seggio qui vicino, hanno sgomberato quel seggio là”. Gli elicotteri della polizia volano in cielo. Alla fine decidiamo di andare a fare un giro dei seggi, qui c’è un sacco di gente, magari possiamo dare una mano altrove.
Quando arriviamo al seggio successivo il cancello è chiuso, fuori ci sono poche persone e alcuni giornalisti della televisione. Parliamo con un ragazzo della CUP (Candidatura di Unità Popolare, partito della sinistra indipendentista). Il seggio è stato violentemente sgomberato, le urne sequestrate. Gli chiediamo quale sia la situazione altrove e come possiamo renderci utili “La polizia si presenta a sorpresa, impossibile prevedere dove andrà. E poi sono in atto forti attacchi informatici (nei seggi si vota 2 volte, sia su cartaceo che per via telematica). Per fortuna il sistema informatico è stato solo rallentato e la stragrande maggioranza dei seggi sono ancora aperti, ci sono code massicce per votare, le persone sono felici e restano nelle strade nonostante la repressione. La gente sta dimostrando il proprio coraggio ed ha voglia di votare, che sia un sì o un no, vuole decidere il proprio futuro in libertà. È normale che abbiamo paura ma bisogna sorridere, oggi stiamo facendo la storia”.

Gli parlo del referendum che si terrà in Lombardia e in Veneto il 22 ottobre, gli parlo delle ragioni economiche che ci sono alla base. Gli chiedo quali siano le ragioni dell’indipendentismo catalano: mi dice che la borghesia locale è in buona parte contraria all’indipendenza. Per esempio la confindustria catalana si è espressa contro. Invece i lavoratori, la piccola borghesia, i poveri sono a favore. Ci sono ragioni economiche ma soprattutto ragioni politiche, principi democratici. Mi racconta che il parlamento catalano ha approvato una legge che vietava di tagliare luce e acqua alle persone senza i mezzi per pagare le bollette, le fasce vulnerabili della popolazione. Il tribunale di Madrid ha abolito questa legge. Mi parla poi della costituzione spagnola, discendente da quella del regime franchista. “Il re ha guidato la transizione della spagna dal regime franchista alla monarchia parlamentare, ma con quale diritto? La monarchia era stata abolita nel 1931 dalla schiacciante vittoria dei repubblicani alle elezioni, il re era scappato in esilio a gambe levate. Il suo ritorno è stato possibile solo grazie alla dittatura. Noi non ci riconosciamo nella monarchia, noi vogliamo la repubblica! Vogliamo creare una società basata sulla solidarietà, sull’integrazione, sui diritti sociali ed economici. A quanto pare questo non è possibile all’interno dello stato spagnolo. In più quando ci organizziamo per votare quello che otteniamo è solo repressione e divieti. È la prova che in Spagna vige ancora molta della cultura franchista.”

Non resisto alla tentazione di domandargli perché l’impennata dell’indipendentismo è avvenuta dopo che è scoppiata la crisi economica del 2008. “È vero che c’è stata un’impennata dopo il 2008. Più precisamente nel 2010, quando il Tribunale Costituzionale spagnolo ha abolito molti articoli dello statuto dell’autonomia catalana approvato nel 2006 [Sentencia 31/2010, de 28 de junio de 2010, Tribunal Constitucional de Espana]. Da allora abbiamo chiesto in tutti i modi un tavolo di trattative con Madrid senza risultati. Se chiedi alle persone alcuni ti diranno che vogliono l’indipendenza per i soldi ma la maggior parte ti parlerà di dignità e di democrazia”.

E così è andata. Ho posto la domanda ad altre persone mentre passavamo da un seggio ad un altro durante tutta la giornata e tutte mi hanno parlato della democrazia, della repubblica, dell’importanza di portare avanti i diritti delle donne, degli omosessuali, delle fasce povere della popolazione, dei migranti. Tutti temi ostacolati da una Spagna cattolica e conservatrice (qui ci sarebbe da fare un’enorme autocritica visto che in Italia su questi temi siamo ancora più indietro ma lasciamo perdere.. il punto è che a quanto pare i catalani vogliono fare ancora di più!). Di tutti quelli con cui ho parlato nessuno ha mai accennato alle ragioni economiche se non una persona “Quelli del governo di Madrid non fanno altro che sprecare soldi e poi ci impongono l’austerità. Noi vogliamo pensioni dignitose, vogliamo dare aiuti ai poveri, vogliamo investire nell’istruzione e nella sanità.” Pensate che a dirlo è stata un’anziana in sedia a rotelle che aveva voluto fare la fila di 5 ore per votare, senza passare avanti come le proponevano.

Arriviamo così, dopo una giornata interminabile, all’ora di chiusura dei seggi. Il momento è delicatissimo perché si teme che la guardia civil abbia atteso che scemasse la folla per intervenire e sequestrare le urne prima del conteggio dei voti. Invece la gente è rimasta per strada a migliaia! “Em vutat/abbiamo votato!” scandisce la folla, aggiornando il coro della mattina “votarem”. Cantano tutti, si abbracciano. Alla fine escono le urne vuote, le schede sono state contate, i dati trasmessi!

Ci dirigiamo verso plaza Catalunya per sentire i risultati del referendum. Quando arriviamo, una folla gigante sta cantando els Segadors, l’inno nazionale catalano. Stanno già festeggiando. Capiscono di aver sconfitto la rassegnazione, il pessimismo, la paura, si sentono parte del cambiamento in corso, anzi: sono proprio loro gli artefici di quel cambiamento.. ed insieme a loro festeggiano tutti: baschi, sardi, persone provenienti dalle Asturie, dalla Galizia, da Valencia. Sembra che a loro non dispiaccia l’uscita della Catalogna dalla Spagna e anzi sperano di imitarli presto. Quando escono i risultati iniziano tutti a saltare e ad abbracciarsi, ricantano l’inno e poi altre canzoni ed altri slogan: il sì ha vinto con il 90% dei voti! Nessuno ha idea di cosa succederà domani e nei prossimi giorni ma questo non è il momento dei dubbi o delle paranoie, questo è il momento di festeggiare. Il resto lo affronteremo poi, una cosa alla volta, uniti.

Alle quattro di mattina mi avvio verso l’aeroporto. Tra pochissime ore dovrò entrare al lavoro e non ho dormito praticamente niente ma non mi pento assolutamente di questo viaggio. Mi ha insegnato una lezione preziosa: a volte bisogna rifiutare i compromessi ed avere il coraggio di intraprendere strade nuove, anche se non sappiamo dove ci condurranno.

Come finirà tutta questa storia nessuno lo sa, dipende da mille fattori. Soprattutto bisogna vedere se il popolo catalano sarà in grado di restare unito, continuando a camminare nella stessa direzione. Perché un popolo diviso si indebolisce, si lascia andare alla rassegnazione o peggio ancora casca nella trappola della guerra tra poveri. Quando invece un popolo decide di prendere in mano le redini del proprio destino, niente può fermarlo. Perché il popolo, i lavoratori, sono la vera forza alla base di qualunque cosa. Sono i lavoratori che coltivano la terra, sono loro che costruiscono le case, sono loro che producono, trasformano e trasportano tutto ciò che l’umanità consuma. Non hanno bisogno di padroni. Questi ultimi, al contrario, non possono fare a meno dei lavoratori. Gli indipendentisti catalani lo sanno, per questo è già stato chiamato uno sciopero generale in Catalogna e i sindacati di altre regioni hanno fatto altrettanto in solidarietà. Se i lavoratori riusciranno a restare uniti, nessuno (dentro o fuori dalla Spagna) potrà negar loro i diritti politici, sociali ed economici a cui ambiscono (motivi alla base dell’indipendenza in Catalogna).

E chissà che anche in Italia non si possa iniziare a pensare di cambiare le cose.. Come dice uno slogan di Arran “L’organització és la clau de la victòria/L’organizzazione è la chiave della vittoria!”

*Thomas Maerten

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Thomas Maerten

Thomas Maerten, classe 1988, è cresciuto tra sud America, Africa ed Europa. Attualmente vive a Firenze, lavora con i migranti e scrive per passione. Partecipa attivamente ai Clash City Workers e alle attività dello Spazio Inkiostro.

1 commento su “In diretta dalla Catalogna: un popolo che ancora chiede terra e libertà”

  1. Enrica De Palma

    Quello che hai scritto e come lo hai scritto mi ha commossa. Hai delle vere doti giornalistiche, perché sai comunicare le emozioni. Adesso aspettiamo che tu segua le reazioni a livello europeo e le determinazioni del parlamento europeo. Questo è un popolo ch ha la sua lingua, l’antica lingua d’Oc. La storia della Spagna è tanto diversa dalla nostra. Non farei un paragone con i referendum previsti in Veneto e Lombardia: sarebbe un’offesa ai Catalani e ai Baschi.

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