Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria

Eccoci arrivati alla quarta recensione di saggi (il più possibile recenti, usciti cioè da meno di un anno), che indagano sul rapporto tra economia, lavoro, lotta di classe e ambiente. Testi classificabili anche in quella branca detta della “ecologia politica”. Qui, qui e qui, gli articoli precedenti.

L’edizione italiana di Antropocene o Capitalocene? è composta dalla traduzione di due articoli di Jason W. Moore pubblicati on line nel giugno 2014 (www.jasonwmoore.com/uploads/ cercate poi Capitalocene Part I e Capitalocene Part II). Seguono una prefazione e una conclusione scritte da Moore appositamente per questa edizione. È poi preziosissima l’introduzione dei due curatori e traduttori Emanuele Leonardi e Alessandro Barbero “Il sintomo-Antropocene”, che fa il punto sugli studi di ecologia politica in generale ed in particolare di quelli intorno al fortunato termine di Antropocene, funzionando più come uno sviluppo al testo di Moore che come una stretta disanima dello stesso. La potete trovare anche su “Effimera” (qui la prima puntata, qui la seconda).

Jason W. Moore è professore associato di sociologia presso l’Università di Binghamton e coordinatore della Rete di Ricerca sull’Ecologia Mondiale. Scrive frequentemente sulla storia del capitalismo in Europa, in America Latina e negli Stati Uniti, dal lungo XVI secolo all’era neoliberale.

La sua scrittura è farcita da neologismi e categorie costruite lungo il percorso dei suoi studi tanto che per la comprensione del testo occorre familiarizzare con alcuni termini e concetti; lavoro che possiamo fare con l’aiuto di un altro ricercatore italiano (Gennaro Avallone) che ha curato l’edizione di un precedente saggio di Moore sempre per le edizioni ombre corte: “Ecologia-mondo e crisi del capitalismo – La fine della natura a buon mercato” uscito un paio di anni fa. Ed è proprio all’introduzione di Avallone che anche i curatori di Antropocene o Capitalocene? rimandano.

Al di là di prese di posizione che riguardano gli oggetti messi in gioco e datazioni di partenza che animano la discussione intorno al termine Antropocene, i punti più interessanti sui quali porre l’attenzione riguardano il concetto che le catastrofi ambientali, annunciate e in atto, vanno adesso di pari passo con la fine della natura a buon mercato che indica la crisi di un elemento fondamentale dell’accumulazione capitalistica, che secondo il nostro autore si basa sull’appropriazione del lavoro gratuito delle nature umana ed extra umana e non solo sullo sfruttamento della forza lavoro.

Tratto rivelatore di un cambiamento di epoca al quale si potrebbe assegnare il nome di Antropocene, ma che, così facendo, attribuirebbe la causa dell’attuale situazione all’umanità tutta e non a quella parte in particolare che coincide con un sistema di produzione che ha prodotto nello stesso tempo le maggiori diseguaglianze economiche e sociali e ha interpretato la natura come esterna all’umanità tanto che quest’ultima poteva infinitamente attingere ad essa (saccheggiarla). Questa dicotomia prosegue nell’atteggiamento successivo che vede nella natura stessa il luogo dove poter scaricare i rifiuti prodotti dal suo sfruttamento.

In definitiva contro il concetto qualunquistico e generalista di Antropocene, Moore dice invece che il cambiamento climatico è capitalogenico. L’Antropocene come concetto sarebbe una specie di parola valigia nella quale caricare un’infinità di cose senza mettere «in discussione le disuguaglianze naturalizzate, l’alienazione e la violenza iscritta nei rapporti moderni di potere e di produzione» (p. 38). Un esempio illuminante: dal punto di vista dell’Antropocene si potrebbe dire che il carbone cambiò il mondo, ma dal punto di vista del Capitalocene si può invece dire che nuovi rapporti di merce trasformarono il carbone, non più roccia tra le altre, ma combustibile intorno al quale si poteva iniziare a pensare quella che sarebbe stata la rivoluzione industriale. Se la natura non è una generalità astorica e non è esterna all’agire dell’umanità, il cambiamento storico vede come protagonisti sia gli esseri umani sia le nature extra-umane che nel capitalismo assumono più forme: capitale, territorialità di stato e imperiale ed infine di classe. E se il capitalismo non ha, come viene detto in più parti del testo, un regime ecologico, ma lo è, allora ci sarà anche una dimensione storica per la quale il capitalismo è un modo di organizzare la natura nella sua dimensione storica. Affermare che le risorse sono relazionali, di fatto le storicizza.

Dentro questa polarità oppositiva, si rivela un nodo fondamentale del pensiero occidentale moderno che a partire dalla scissione corpo-mente, ha messo in campo tutta una serie di altre opposizioni non ultima quella società-natura o cultura-natura che ha permesso al capitale l’appropriazione degli elementi di cui parlavamo sopra: forza lavoro e lavoro gratuito delle nature umana e extra umana. Dentro quest’ultimo paradigma si riesce così a far finalmente entrare tutto il lavoro non retribuito quale quello domestico e di riproduzione della forza lavoro e quello cognitivo che fonda le nuove potenzialità ancora in relazione alla forza lavoro.

Lo spostamento dall’Anthropos al Capitale comporta anche una retrodatazione degli inizi del fenomeno. Non sarebbe (come qualcuno ha proposto) l’invenzione della macchina a vapore, ma il 1450, il momento nel quale gli Europei si guardano attorno alla ricerca di nuovi spazi di natura a buon mercato, iniziando un’appropriazione di nuove terre e assumendo un atteggiamento attraverso il quale schiavismo e colonialismo vengono sdoganati permettendo quell’accumulo originario che ha permesso l’esistenza del capitalismo stesso. «L’ascesa del capitalismo dopo il 1450 fu accompagnata e resa possibile da un epocale spostamento di scale, velocità e scopi della trasformazione ambientale attraverso l’espansione geografica» (p. 62). La deforestazione della foresta pluviale brasiliana e di quella del bacino della Vistola, nel XVII secolo, sono avvenute con una scala e ad una velocità tra le 5 e le 10 volte di più di qualsiasi altro fenomeno nell’Europa medievale. Il Capitalocene era già in azione. L’era nella quale viviamo non sarebbe soltanto una nuova epoca geologica, ma «un inedito regime di governance dell’ambiente globale» (p. 10).

Il Capitalocene immerge il modo di produzione capitalista nella rete della vita, restituendoci nuovi interrogativi e nuove visioni mettendo in campo nuovi descrittori, alcuni dei quali proposti ex novo dai due curatori nella introduzione, quali la governance degli algoritmi, il General Intellect e la messa al lavoro delle conoscenze del dispositivo proletarizzante del capitalismo cognitivo. Conoscenza/cultura e valore in quanto lavoro astratto, sono infatti strettamente collegati.

«Il capitalismo, nel suo complesso, vorrei sottolineare, non ha un regime ecologico bensì è un modo di organizzare la natura nella sua dimensione storica più fondamentale» (p. 57). Il Capitalocene come concetto permette anche di poter mettere in atto una dialettica più complessa dei rapporti tra capitale e salvaguardia dell’ambiente, tra difesa del posto di lavoro e riguardo ambientale; rapporti non semplicemente ridotti alla semplice tutela della sanità dei lavoratori, ma che definiscono l’opera del capitale nella natura e non sulla natura.

Questo sposta l’attenzione fuori della ricerca di priorità determinabili a monte, quali quelle che privilegiano ora il cambiamento climatico, ora l’efficienza economica. Considerazioni per le quali si è arrivati a dire che occorre cambiare il sistema e non il clima. Affermazione in qualche modo valida, ma egualmente riduzionistica. Pensare invece in termini non oppositivi tipo natura opposta a cultura significa leggere le azioni umane come fatti che avvengono nella natura e non soltanto verso (contro) di essa. Questo, come abbiamo visto, rivela l’azione che il capitale compie appropriandosi non solo della forza lavoro, ma anche del lavoro gratuito delle nature umana e extra umana. L’appropriazione della natura extra umana, una natura dunque, anch’essa, se non gratuita, a buon mercato, mostra oggi – nel momento che l’estrazione ha raggiunto il fondo del barile – la crisi del capitalismo, ma anche il raggiungimento dell’apice della non più sostenibile predazione della natura stessa. Questo, secondo noi, svela, nello stesso momento, altri territori di conflitto con il capitale. Territori e pratiche che, in qualche modo, possono divergere e ostacolare le possibilità di un ulteriore sviluppo del capitale e della sua capacità di predazione. La partita probabilmente si dovrà svolgere tra le capacità di evasione dal ciclo di estrazione del plus lavoro da parte dei lavoratori cognitivi e gli algoritmi che il capitale ha messo in campo per proseguire la governance che gli può permettere il proseguimento della ricerca del profitto.

Se non l’ultima parola, ma una parte importante dell’opposizione al capitale, si potrà esprimere a proposito della scrittura stessa degli algoritmi: di chi e come li scrive e li scriverà. Per Moore il tempo di lavoro socialmente necessario (quello che determinerebbe il valore secondo Marx) non può essere determinato dalle sole tecniche di mercificazione, ma «si forma anche attraverso i rapporti di potere e di sapere che identificano e permettono alla parte non retribuita di confluire nella determinazione del lavoro retribuito» (p. 98). Il valore è co-prodotto dalla natura umana e extra-umana; questo comporta un riordino della relazionalità della natura extra-umana, attraverso il valore come modo di organizzazione della vita. È una totale sussunzione del resto della natura come dono gratuito al capitale.

Questo non significa che lo scontro di classe avvenga solo e soltanto sul piano “cognitivo”. Ci sono infatti zone del mondo nelle quali l’industria manifatturiera è ancora l’elemento caratteristico del modo di produzione. L’industria turistica impiega manodopera difficilmente sindacalizzabile, spesso pagata al nero (se non totalmente, almeno in parte), estraendo così quote importanti di plus valore. Diciamo che i terreni di scontro si sono moltiplicati, forse proprio perché il capitale si è trovato di fronte a quella che Moore chiama “la fine della natura a buon mercato”, si è trovato perciò costretto a guardarsi intorno e a espandere il proprio raggio di azione, raggiungendo terreni precedentemente non sfruttati intensivamente come quello, ad esempio, dei “beni comuni” (ne avevamo già parlato).

Un lessico per un altro paradigma

Moore propone di pensare non ad una natura risorsa, ma a una natura-matrice. Non una natura esterna che si interiorizza soltanto nel senso che interagisce anche con i nostri corpi determinandone sia la forma che la funzione, ma anche attraverso i nostri corpi. «Gli esseri umani producono differenziazioni intra-specie che sono ontologicamente fondamentali per il nostro essere-specie: sono soprattutto le diseguaglianze di classe, coniugate in vari modi a cosmologie razziste e sessiste» (p. 41).

C’è da fare attenzione all’uso che l’autore fa di alcuni termini. Egli stesso ne chiarisce i modi. Per esempio il termine “appropriazione” differisce dall’uso che ne fa Marx; per Moore indica invece processi, anche extra economici, per i quali il lavoro non retribuito e non compreso nel sistema delle merci, viene rincanalato dentro il circuito del capitale.

Altro termine di invenzione di Moore è quello di oikeios ripreso da Teofrasto che si riferiva al rapporto tra le piante e il loro ambiente. Esso denota il rapporto instaurato tra umanità e natura. Rapporto di tipo dialettico e interrelato all’interno di un unico mondo. Allora le relazioni nell’oikeios formano le cicliche unità capitaliste che sfruttano il lavoro salariato appropriandosi nello stesso tempo di “zone globali di riproduzione”, cioè il lavoro non pagato sia quello estratto dalla famiglia che dalla biosfera.

Se per Marx il valore ha una corrispondenza con il lavoro sociale astratto e se il valore stesso è un fatto puramente economico con implicazioni sistemiche, Moore rovescia il rapporto definendo il valore come un fenomeno sistemico in sé, riconoscendogli comunque un peso economico centrale. I rapporti di valore si configurano a partire dal lavoro salariato, ma anche alla sua riproduzione allargata: di nuovo a quello definito lavoro non retribuito che «comprende sia l’attività umana sia quella extra umana al di fuori del – ma necessaria al – circuito di capitale […] La condizione della trasformazione storica del lavoro (retribuito) in valore è la svalutazione della maggior parte del lavoro (non retribuito)» (p. 75).

In sintesi. Non è soltanto un’altra terminologia, ma un passaggio di sguardo, un’apertura del campo dello sguardo stesso, prima centrato sul lavoro salariato ora espanso in una visione che svela la complicità epistemologica che divideva l’umanità dalla natura, permettendone la predazione (acquisizione gratuita). Come di altra acquisizione gratuita è quella del lavoro riproduttivo in senso ampio, degli schiavi e delle donne a cui compete la cura della prole e degli anziani nonché il lavoro domestico di accudimento della casa. Occorre cioè superare i dualismi uomo/donna e natura/società. Si tratterebbe di una frattura metabolica tra i due termini dell’opposizione, una disconnessione delle relazioni metaboliche tra umanità e “resto” della natura provocata dal capitalismo. «Il carattere calcolante del valore non risiede nel fatto che il capitale utilizzi una conoscenza oggettiva – basata su dualismo e quantificazione – bensì nel fatto che il capitale mobiliti il proprio potere simbolico al fine di rappresentare l’arbitrarietà dei rapporti di valore come oggettiva» (p. 103).

Jason  W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, ombre corte, Verona 2017, p. 173 € 15.00.

*Gilberto Pierazzuoli