La sala dispetto

Stazioncina periferica

Come sulle soglie di una cappella rustica muffita di drappi e madonnine di gesso, mi trattengo all’ingresso dell’ultima sala d’aspetto.

E davvero conserva qualcosa della chiesa: panche rustiche e consunte, scritte arcane, bacheche sgangherate che dettero ricovero a orari e avvisi.

Un senza dimora si allunga sulla panca senza distendersi del tutto per timore della vigilanza, due giovani si baciano con un occhio ala tabellone e uno al cellulare, un servo sciocco spennella del solvente su una poesia di Bukowsky vergata a pennarello.

Fuori è una ridda di passeggeri, uno sferragliare di macchine, li vediamo ma qui non arriva nessun rumore, non un alito di vento.

Stazione centrale

La sala d’aspetto non c’è.

Ci sono i Segreti di Vittoria, le perle di cioccolato, i panini di Donald, ma la sala non c’è.

Esiste un ristorante riservato ai possessori di Cartafreccia, un salottino per i prenotati di Italo, ma una sala d’aspetto per noi mortali non c’è.

Vado a sedermi dove si siede la gente, nell’ampia biglietteria aperta su due lati e insidiata sul terzo da uno spiffero maligno.

Sedili di ferro, schiamazzi, l’eco di un salone di marmo progettato per altro, dipendenti delle ferrovie che si aggirano in divisa molestando i passeggeri che tentano di sbrigarsela da soli, la vocina stupida degli annunci automatici e l’ottusità rivoltante degli avvertimenti: “Fare attenzione ai borseggiatori, non comprate dai venditori abusivi, segnalateli immediatamente alle autorità”.

Un film di fantascienza ben riuscito, colpi di scena a non finire e grandi effetti speciali, come il treno che scompare nel nulla dopo un ritardo di cinquanta minuti.

Con la privatizzazione delle ferrovie cosa è cambiato?

Sono diminuiti i treni.

Sono aumentati il prezzo del biglietto e i dispetti ai passeggeri.

*Massimo De Micco