Non esiste la rivoluzione infelice

Non esiste la rivoluzione infelice. Il comunismo della destituzione.
Marcello Tarì

C’è un presente terribilmente monotono, definito e racchiuso in una «quaternità: Occidente-Modernità-Democrazia-Capitalismo». Un unico mondo che esclude la possibilità di poter nominare la pluralità dei mondi. La crisi di questo unico mondo, la catastrofe a venire, chiama all’appello tutti i rivoluzionari, coloro che «nel tempo della fine e dentro questa temporalità operano per la realizzazione di una felicità profana». Ma il crollo di questo mondo, significa che a crollare sono, e devono essere, anche i termini dell’azione politica che lo hanno costituito. Questo mondo deve essere deposto. Non soltanto per evitare la catastrofe, ma affinché la catastrofe stessa non travolga tutti, responsabili e vittime. Occorre deporre, destituire il potere; occorre allora che la caduta non sia una sostituzione. Occorre creare una sospensione dell’azione di potere. Fare “come non” – dice Tarì, citando Agamben – perché, “fare come non”, significa destituire ogni proprietà giuridica e sociale, senza che questa deposizione fondi una nuova identità. Sostituire il comando del capitale borghese con quello del capitale burocratico, non cambia niente. Cambiare questo mondo significa, in definita, cambiare anche i rivoluzionari, farne altri. Impedire che la militanza possa prendere quella deriva tirannica insita nell’operazione di sostituzione. La rivoluzione è la destituzione del potere. È una destituzione dell’organizzazione del potere, dello stato, del diritto e degli elementi che li fondano e giustificano. In definitiva è un cambio di paradigma: un altro mondo. Un mondo così profondamente anti capitalista, da fuggire praticamente ogni rimando economicistico.

E qui, Tarì, mette insieme tutte le articolazioni della militanza. Tutte le possibilità di pensiero che il cambio di paradigma presuppone e poi richiede. Tutti gli svelamenti, le soglie e i paradossi che la destituzione fa emergere. La spoliazione del soggetto che rivela forme di vita.

C’è un’ansia che richiama come un’esigenza di fare piazza pulita da alcuni rimandi, filiazioni e/o concatenamenti: la potenza destituente non deve avere connessioni con quella costituente e tantomeno con il potere costituito. Niente a che fare con il diritto, lo stato e la sovranità stessa. E se qualcuno rimane deluso, Tarì insiste nell’invocare il senso della destituzione. Il riferimento è alla delusione esplicitata da Roberto Esposito riguardo alle rivolte recenti, come dimostra questa citazione: “Più che un potere costituente, le attuali rivolte fanno pensare a un potere destituente – capace di minare l’assetto precedente, ma non a crearne uno nuovo” (p. 25). Ma ogni pensiero costituente sembrerebbe essere malato di democrazia e quindi di capitalismo. Con una democrazia incapace di redimere i vizi del capitale (come qualche altro crede), perché essa – nel suo multiforme modo di presentarsi – è la forma attuale di dominio del capitale stesso.

Tarì fa qui riferimento al Benjamin di “Perla critica della violenza”, facendo notare che la violenza costituente crea altra violenza a partire da quella usata per conservare il diritto che ha prodotto, mentre la violenza destituente esprime la potenza di mettere fine a ogni violenza, ricopre, cioè, «lo spazio e il tempo della giustizia nel suo stesso compiersi». E in questa immagine si rispecchia e si definisce il concetto di Comunismo che «non è un’idea del mondo, ma il dipanarsi di una prassi nel mondo» (pp. 43 e 44).

Le ragioni della destituzione sono molteplici, così come le implicazioni e i corollari. Ed anche i ragionamenti e le suggestioni che il testo veicola:

Stasis. Termine apparentemente polimorfo che significa sia sospensione sia guerra civile. Designa etimologicamente una posizione, uno stare fermo, un equilibrio, ma anche una tensione tra più posizioni diverse, tra più parti, tra più partiti. Stasis, è però sinonimo di kinesis, movimento, agitazione; ma anche di stallo dal verbo histemi (levare, porre, fermare) è l’atto di levarsi, di stare stabilmente in piedi. Il verbo stare e stasis hanno in comune la stessa radice “STA-“). «stasimos e il punto della tragedia in cui il coro si arresta in piedi e parla, stas e colui che pronuncia in piedi il giuramento». (In Giorgio Agamben, Stasis, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 22.)

Qui tutto si complica, tra agitazione e immobilità. Tra guerra primitiva, un tipo di guerra interna, e la guerra esterna: «Lo Stato, una volta installatosi, non solo pratica la guerra esterna per tracciare sempre di nuovo i suoi confini ma, aborrendo hobbesianamente la guerra primitiva, usa la guerra esterna per cancellare quella interna» (p. 46). È un espediente dalle origini antiche. È la soglia che separa in Grecia l’oikos (nella sua accezione di famiglia, stirpe) dalla polis. La stasis reintroduce l’oikos nella polis: la conflittualità familiare sfocia nel politico e il politico si ricongiunge e si concilia con il familiare. Quello che è in gioco è quindi il rapporto tra zoe e bios, dove la zoe (la semplice vita naturale) era apparentemente esclusa dalla politica, mentre invece giocava e gioca una possibile inclusione anche nel rimanere latente o solamente potenziale. Il fatto che la stasis costituisca piuttosto una soglia di indifferenza fra oikos e polis, fra parentela di sangue e cittadinanza, porta alla conseguenza di funzionare come una connessione bidirezionale nella quale lo spostamento da un lato all’altro provoca la politicizzazione dell’oikos, dall’altro l’economizzazione della polis. L’operazione che lasciava come in sospeso il pensiero di Arendt, l’esclusione dell’oikos dalla riflessione politica, dalla possibilità politica di un confronto paritario, si ripresenta invece come l’elemento, ma anche come l’indicatore della possibilità stessa o della sua messa in discussione. Ricorda Agamben la legge di Solone che puniva con l’atimia (la perdita dei diritti civili) il cittadino che non si fosse schierato per una delle due parti. La stasis dimostra di avere allora il potere di svelamento del lato politico o impolitico di un comportamento. La stasis non unisce oikos e polis, personale e privato con politico e sociale, ma, ponendosi sulla soglia tra i due elementi, ne permette il dialogo o lo sviluppo in un senso o nell’altro, dell’uno nell’altro. In questo ambito, «se la guerra esterna è la continuazione della politica con altri mezzi, “la politica è la continuazione della guerra civile” (Foucault) al proprio interno» (pp. 46 e 47). Allora la guerra, nella sua continua evocazione e messa in campo delle figure dell’amico e del nemico, è l’ambito metaforico del rapporto con Altri (maiuscolo e corsivo di Tarì) dei popoli primitivi orientata però ad impedire la nascita di una casta di guerrieri separato dal resto della popolazione. Casta che si potrebbe appropriare del diritto al Governo. «Partigiani e primitivi potrebbe significare prendere partito localmente innanzitutto, ma strategicamente non lasciare mai che un’istituzione, quale essa sia, confischi la potenza comune» (p. 51).

Nomos. Altro termine con un’etimologia e un’evoluzione complessa. Una componente rimanda ad una territorializzazione, l’altra alle consuetudini prima, e alla legge poi. Già per quanto riguarda la territorializzazione, Tarì ci dice che, per Varrone, il termine territorio indicava delle terre di uso comune, successivamente il termine territoria rimandava a luoghi interni all’impero ma occupati da barbari. L’autore sottolinea allora un’ambiguità, se non un conflitto tra un fuori e un dentro, all’interno del concetto di territorio, concetto che dunque può agire come una vera e propria tecnologia politica. E il territorio della contemporaneità non poteva non essere che la metropoli che tende a sostituire la fabbrica come luogo di incontro e scontro tra capitale e forza lavoro, con la particolarità che lo spazio metropolitano ha una tendenza centripeta tale che riesce a fagocitare tutte le ipotesi di esterno. Ma il punto in cui il nomos diviene il paradigma della governamentalità, quando cioè il campo semantico vira verso l’ambito del diritto, si svela una delle accezioni etimologiche del termine che rimanda al concetto di “pascolo”. Il governo pastorale non regna su un territorio, ma su una molteplicità di individui (citazione da Foucault) o, meglio ancora, sui loro legami, sia quelli tra di loro, sia tra questi e le cose, territori compresi. La connessione tra territorio e diritto è stato un accidente sul quale ha giocato ampiamente il pensiero di Carl Schmitt. Il rapporto tra comunità e proprietà, tra comunità e individualizzazione di ciò che si vuole essere il proprio, l’identità, è il frutto di una distorsione di destra. Schmitt, nel tentativo di territorializzazione della legge, scopre una forma di appropriazione della terra facendo, secondo noi, una forzatura di interpretazione linguistica del termine greco “nomos”. Ma, come è facilmente dimostrabile, nomos rimanda ad una serie di lemmi che hanno a che fare con un uso della terra non proprietario; c’è un rimando alla pastorizia, a comportamenti anche nomadi, all’uso comune delle terre non recintate. Più che appropriazione (Schmitt) il senso che se ne deduce è quello di diritto d’uso, d’uso comune. Se ne ricava così anche un corollario: l’appropriazione chiama una sovranità da esercitare anche in difesa dei confini, ma se la territorializzazione rimanda al pascolo, al nomadico, alla non recinzione, la sovranità si dovrà esercitare non sul proprio (sulla proprietà protetta da specifici confini), ma sulla relazione che costituisce la base del fare comunitario. L’accento dovrà essere messo non sulla proprietà, ma sull’uso. Non si tratta di appropriarsi della terra, si tratta di «abitare un mondo (…) Autonomia, in senso politico, allora non sta affatto a indicare una tattica per gli scontri di piazza o una strategia per la presa del potere dal basso, ma indica lo spazio e il tempo di una ripresa dell’uso, di quella capacità di abitare liberamente secondo la regola contenuta nella forma di vita nella quale abbiamo deciso di perseverare» (pp. 112-113). Un mondo non è un territorio circoscritto, racchiuso entro confini definiti, Tarì parla di abitudini, cosmogonie, storie da raccontare, ritmi musicali, esperienze da condividere. Ecco che emerge il plesso semantico del termine nomos che si riferisce alle consuetudini: νόμος sostantivo maschile (prima serie di accezioni in riferimento al termine con accento tonico sulla prima o) – 1 usanza, uso, consuetudine 2 costume, maniera 3 precetto, prescrizione 4 legge 5 cantilena, melodia, modo, tono musicale – νoμóς sostantivo maschile (seconda accezione) – 1 pascolo, luogo di pascolo 2 luogo di dimora, abitazione, domicilio, soggiorno 3 provincia, prefettura, satrapia, nell’Egitto e nel regno babilonese o persiano. (https://www.grecoantico.com/dizionario-greco-antico.php). C’è un gesto del prendere che si trasformerebbe in diritto di proprietà come vorrebbe C. Schmitt in quella forzatura per la quale nomos rimanda alla sequenza di appropriazione, distribuzione e produzione. Ma se l’appropriazione domina la sequenza, anche la distribuzione e la produzione avranno un senso legato alla proprietà, ma se quel gesto rimanda invece all’uso, «allora è possibile che gli altri due termini potranno essere ricondotti alla condivisione» dice Tarì individuando nella destituzione del diritto il punto che mette in discussione un’appropriazione illegittima anche dal punto semplicemente etimologico. Occorre rendere inoperante quel gesto di appropriazione permettendo così di abitare una terra che diviene allora mondo.

Non esiste l’amore (la rivoluzione) infelice. Frase di Benjamin riportata con scetticismo da Scholem facendo riferimento alle stesse vicende amorose dell’amico. In questo passo l’autore riesce ad accostare la rivoluzione ad un sentimento caratteristico della specie umana. Posizione che se da una parte mette a tacere la visione di una dimensione di sofferenza alla quale l’umanità sarebbe condannata, al senso di colpa originario, può anche scoprire la potenzialità nello rovesciamento di quest’ultimo inteso come una affezione che muove le reciprocità dei rapporti, che crea legami. Ma il punto cruciale che scaccia l’infelicità ruota intorno all’affermazione di Benjamin per la quale «la felicità non ha alcun bisogno o invidia di futuro» perché completamente immersa nella impellenza del presente. Il qui e ora, «l’assalto al cielo» del rivoluzionario, ma anche lo sparare sugli orologi da parte dei comunardi. La destituzione è quell’operazione che priva di ogni fondamento – giuridico, etico, ed esistenziale – il potere vigente» (p. 150), di nuovo hic et nunc. L’agire destituente deve «liberarsi da qualsiasi scoria progressista» (p. 155) dice infine l’autore. Non deleghiamo al futuro quello che è all’ordine del giorno oggi. Dire oggi “tutto il potere al popolo” significa il destituirsi della rivoluzione in quanto impianto di potere e non una sostituzione di quel potere. Il futuro è dei progressisti, il presente dei rivoluzionari. Il passato è una citazione. La citazione comporta una ripetizione, ma che non ripete lo stesso, esplora invece una possibilità rimasta incompiuta alla scoperta di un resto vincente oltre anche la stessa sconfitta.

La festa. Insieme non vogliamo più fare ciò che fino a quel momento avevamo fatto come singoli (Tarì cita Canetti), e la rivolta, e la destituzione, è questo non fare. È una cessazione, la libertà è il rifiuto di una necessità e «della finalità estrinseca; per questo si trova al di fuori della sfera della produzione materiale propriamente detta» dice Marx. Fare festa è un non dover fare, anche se può essere egualmente un fare. Qualcosa di non produttivo che non è generato da fuori ed è fine a se stesso. Per questo oggi non ci sono più vere feste, ma festività che perseguono un fine che gli è del tutto estrinseco.

Fantasia. La fantasia è il processo di dissoluzione dell’esistente, «una pura destituzione delle forme dominanti» (p. 194). L’insurrezione è la capacità destituente della fantasia stessa che non vuole e non può andare al potere ma essere il mezzo che lo vuole distruggere. La sua irriducibilità ad una forma respinge le richieste strutturanti del governo.

Destituzione dell’economia. Non basta la critica al modo di produzione, la critica dell’economia politica, occorre destituire l’economia in quanto categoria metafisica che diviene una tecnologia del dominio. Azzerare tutto perché il capitale ha costruito il suo dominio non attraverso l’economia, quella gli serve per incamerare il profitto, ma il comando e l’obbedienza sono stati costruiti attraverso secoli di lotta etica e di trasformazione della morale. Bisogna «percepire un mondo popolato non da cose, ma da forze, non da soggetti, ma da potenze, non da corpi, ma da legami. È attraverso la loro pienezza che le forme di vita compiono la destituzione. Qui, la sottrazione è affermazione e l’affermazione fa parte dell’attacco» (Comité Invisible, Ai nostri amici, citato p. 220).

Marcello Tarì, Non esiste la rivoluzione infelice – Il comunismo della destituzione, DeriveApprodi, Roma 2017, pp. 240 € 13.00

*Gilberto Pierazzuoli