Architettura occupata. Da Firenze ad Afrin

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La mattina di lunedì 26 marzo, in zona S. Ambrogio si percepivano nella quotidianità alcune increspature inattese. Non era la brezza della tanto attesa primavera, né il “sabato del villaggio” dei giorni prefestivi; un crocchio di passanti discuteva attorno alla scritta a caratteri cubitali apparsa sul selciato proprio sotto le finestre de La Nazione:

“DEFEND AFRIN / IL SILENZIO È COMPLICE / #la nazione”

Oltre il muro della Facoltà di Architettura gli studenti, appena rientrati, trovavano ad accoglierli al centro dell’aula studio un cumulo di macerie, coronato da un televisore vuoto da cui colava un liquido rosso sangue mentre, fuori dalle finestre, lo spazio espositivo, abitualmente abbandonato, brulicava di attività con una mostra stranamente priva di plastici e tavole. Sulla parete un grande graffito sottotitolato:

“DA FIRENZE AD AFRIN – CON SPIRITO DI COMBATTIMENTO”.

Cos’era successo? A cercare nei quotidiani locali assolutamente niente.

Eppure il grande striscione di fronte al mercato recitava: “ARCHITETTURA OCCUPATA”.

Apparentemente la non-notizia non aveva provocato nessuna reazione e nessun interesse, malgrado l’ultimo evento di questo tipo risalisse al lontano 2004 e una breve ricerca in rete ne riportasse l’eco in agenzie stampa straniere. Neppure la scritta che attirava tanti passanti trovava spiegazione, fatta eccezione per un trafiletto succinto riportante l’azione da parte di “qualcuno”. Strano per chi è solito coprire pagine con indagini sul pettegolezzo più irrilevante.

Ebbene sì, lo striscione non mentiva, durante tutto il fine settimana la Facoltà di Architettura era stata occupata ed era rimasta aperta alla città; al suo interno era stata aperta una mostra di racconti, foto e disegni di bambini provenienti dalla Siria. In un altro spazio un’installazione conduceva a una sala proiezioni dove, durante tutte le quarantott’ore, venivano presentati documentari, film e cortometraggi. Un’altra aula si era trasformata in una sala conferenze dove durante due giorni si eran succeduti racconti, testimonianze e dibattiti con ospiti di ritorno dal territorio della Siria del nord: giornalisti, ex combattenti, attivisti, persino un architetto in diretta video dal Kurdistan e un rappresentante del temutissimo partito dei lavoratori curdi. Nei cortili della facoltà, gremiti di studenti interessati e di passanti, noti street artist fiorentini dipingevano su pannelli, lunghi rotoli di cartone finanche, tremendo vizio, sui muri scrostati dell’università. Poco più avanti, di fronte al punto ristoro allestito per l’occasione, si succedevano performance musicali che andavano dalla musica curda suonata dal vivo al rap all’elettronica.

L’iniziativa, intitolata “DA FIRENZE AD AFRIN 48h / APRIAMO L’UNIVERSITÀ”, si è svolta in concomitanza del Global action day for Afrin lanciato per il 24 marzo, in parallelo con decine di altre azioni in città e in tutto il paese mirate a rompere il muro del silenzio e a chiedere un intervento rispetto all’aggressione turca nei confronti dei territori della Confederazione democratica della Siria del nord.

Nel caso italiano la questione non è “solo” la richiesta di intervento rispetto all’aggressione, da parte di una ormai palese dittatura, nei confronti di un territorio pacifico, dove da anni vigeva un sistema di democrazia diretta in grado di costruire una convivenza fra numerose etnie e religioni nel mezzo del tragico scenario siriano. Nel nostro caso si tratta anche e primariamente di fermare l’appoggio politico e tecnologico dato dall’Italia all’operazione omicida. Il “nostro” stato, infatti, fornisce a Erdogan i mezzi per portare a compimento i suoi piani imperialistici e genocidi vendendo gli elicotteri da guerra, i droni, le mine e altre armi che uccidono i civili e i combattenti delle unità di difesa popolare (YPG e YPJ). Inoltre, attraverso gli accordi sulla gestione dei rifugiati l’Italia finanzia direttamente le operazioni di sostituzione etnica con cui il “sultano” punta a cancellare il popolo curdo, in Turchia come nella regione di Afrin, rimpiazzandolo con i richiedenti asilo in fuga dalla Siria. Accordi che proprio il 26 marzo vedevano una possibilità di continuità nel vertice di Varna fra UE e Turchia, fallito anche (si potrebbe dire soprattutto) per le pressioni esercitate dal basso sui governi europei. Il tutto giustificato nel quadro di interessi economici e geopolitici di nuovo in grado di scavalcare qualsiasi valore sia esso in tema di democrazia come di rispetto dei diritti umani.

Non come studenti ma come esseri umani, abitanti di questo mondo e ostinati a voler costruire un futuro di pace abbiamo sentito l’urgenza condivisa di agire in prima persona contro questo attentato al futuro. Così è rapidamente sorta un’assemblea alla quale hanno aderito collettivi universitari da tutti i poli di Firenze uniti a svariate realtà autorganizzate e singoli che, in coordinamento con l’assemblea cittadina per Afrin, hanno costruito rapidamente e in maniera totalmente orizzontale questa iniziativa.

Si è scelto di occupare l’università non solo in segno di protesta ma anche come dimostrazione tangibile di cosa questa possa essere. Né fornitore di carne fresca per l’infernale mercato del lavoro neoliberista e nè polveroso sarcofago di una conoscenza dogmatica ma strumento aperto di creazione della cultura e di sviluppo della critica necessaria al superamento della crisi economica, sociale e politica che minaccia di trascinare il mondo intero verso una prospettata autodistruzione.

Facendo ciò abbiamo mostrato a tutti ed a noi stessi un diverso concetto di università, non solo sotto l’aspetto della costruzione del sapere ma anche sotto quello della pratica di una collaborazione autorganizzata e una convivenza partecipe e costruttiva.

A conclusione resta la soddisfazione di aver raggiunto migliaia di persone di ogni tipo, aver visto ragazzi e ragazze il sabato notte impegnati spontaneamente a leggere o a seguire la mostra. Essersi trovati durante i concerti davanti a una sala proiezioni piena che chiedeva di poter vedere altri racconti, di saperne di più. Abbiamo visto persone piangere di fronte ai racconti di speranza e di guerra degli ex combattenti, artisti mobilitarsi e continuare a dipingere per giorni, musicisti correre a portare il loro contributo. Abbiamo visto non solo la sete di sapere latente ma soprattutto un’energia e un’umanità che difficilmente potranno svanire.

Quello che resta non sono solo i fondi raccolti che verranno inviati in Rojava ed i progetti in cantiere, dalla cassa per gli ex combattenti agli spazi dove coltivare progetti, ma una rete di collettivi e soprattutto di persone in grado di superare le singole identità e autorganizzarsi in maniera rispettosa ed efficace. Una forza che non tarderà a dare i suoi frutti dentro e fuori dall’università.

Il silenzio tombale di media e istituzioni, che non azzardano nemmeno le tradizionali critiche, dimostra la consapevolezza di non poter avere successo in un confronto, seppur impari, e ci motiva nel proseguire la difesa dell’autogestione nella Siria del nord e con essa la difesa della proposta di democrazia radicale che è alla base delle nostre pratiche e delle nostre lotte.

Aspettando il ritorno di Lorenzo dal fronte di Afrin ringraziamo i compagni curdi per la lezione che ci hanno dato e invitiamo tutti a mobilitarsi ed a partecipare alla manifestazione di sabato 7 aprile a fianco della resistenza curda.

*Ol Mo

 

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Olmo

Laureando in architettura all'Università di Firenze, attivo nei collettivi universitari e negli spazi autogestiti di Firenze.

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