Istituti professionali: una riforma di classe

La recente riforma degli Istituti Professionali prevede, per il triennio, il taglio di un’ora la settimana (da 4 a 3) dell’insegnamento della lingua italiana e sempre di un’ora dell’insegnamento o della storia o del diritto per le classi del biennio (scelta spettante al collegio docenti). In generale, siamo di fronte a una perdita di ore delle discipline non di indirizzo (italiano, matematica, diritto ecc.).

Quando le classi meno abbienti hanno lottato per il diritto allo studio, la conquista stessa del diritto allo studio non aveva come obiettivo l’apprendimento di una professione, aveva in mente un percorso formativo che permettesse a chiunque di poter accedere a quella che veniva definita un’istruzione.

Occorre allora ricordare che quando parliamo di biennio del professionale, parliamo comunque di un periodo legato alla “scuola dell’obbligo”, scuola pubblica, somministrata gratuitamente dallo stato nella quale si presuppone che si acquisiscano gli elementi base di una istruzione eguale per tutti. Eppure, in molti istituti i collegi docenti hanno scelto di portare le ore di storia da due a una la settimana e il decurtamento del venticinque per cento di quelle di Italiano. Questo significa che quell’unica ora di storia, fatto l’appello, controllate le giustificazioni e al netto delle ore sottratte da vari progetti e dall’Alternanza Scuola Lavoro, si rivelerà essere poca cosa.

Chi ha fatto questa nefasta scelta bisognerebbe che ri-leggesse Lettera a una professoressa storia indiretta della scuola di Barbiana dove figli di contadini volevano poter accedere a una forma di istruzione fatta di materie come la lingua, la storia, la matematica e le scienze. Per essere pari agli altri, ad essi non occorreva semplicemente imparare un mestiere. Avevano sete e fame – appunto – di storia, di lingua italiana, di matematica. Come, d’altra parte, nelle prime società di mutuo soccorso del secolo scorso, si organizzavano corsi gratuiti di lingua e di storia aperti a tutti, si faceva scuola, non di mestieri, ma scuola di saperi.

Si dice che un istituto professionale debba essere la strada più breve per poter accedere al lavoro, per questo qualcuno obietterà che quello che abbiamo detto sino adesso non dovrebbe riguardare una scuola come questa, perché si presuppone che un datore di lavoro si aspetti di trovare operai che quel lavoro lo sanno fare e sarà totalmente disinteressato al fatto di quante conoscenze della storia il nuovo assunto possa avere.

Ma la scuola che ha preparato quei nuovi assunti dovrebbe fare il loro interesse e non quello dei loro datori di lavoro e il punto di vista di quei ragazzi, il loro interesse è quello di non essere semplicemente degli esecutori obbedienti e non pensanti, ma – se di operai bisogna parlare – operai capaci di svolgere il proprio mestiere con senso critico; persone capaci anche di capire il proprio ruolo sociale, la propria dignità di uomini e donne e di non essere semplici fornitori di forza lavoro. Per fare questo, per essere cittadini attivi, pensanti e agenti nel sociale, occorre conoscere anche la storia, proprio quella che si dovrebbe insegnare nelle scuole, proprio quella che insegnanti volenterosi provano ad insegnare anche nelle scuole professionali, pur nelle difficoltà e nei tempi che tante cattive riforme hanno reso sempre più difficile fare.

Ci sono poi le trasformazioni sociali, avvenute ed in essere. Si dice che il lavoro sarà sempre più di tipo cognitivo e sempre meno manuale. L’amministratore di Google ha dichiarato che se si mettesse in atto tutta la tecnologia che le attuali conoscenze in AI (intelligenza artificiale), già sviluppate dalla sua azienda, si dimezzerebbe il fabbisogno di manodopera del mondo. I robot li sta producendo l’industria, la scuola deve fare altro che produrre uomini-robot (prestatori acefali di forza lavoro).

Dal film “La Classe” di Laurent Cantet

Così succede che il professionale, così come è diventato, così come è adesso (e ancor più come diventerà), raccolga esigenze di ragazzi che hanno ogni sorta di difficoltà, qualunque essa sia. Ad un professionale spesso non ci si va, ci si finisce, come fosse una punizione. Perché la famiglia è in difficoltà, perché il contesto sociale in cui si vive è compromesso o disastrato, perché si ha alle spalle una storia problematica, perché si ha una forma grave di dislessia o discalculia, perché si è caratteriali, perché si è non italofoni o di recente immigrazione. Come se tutte queste problematiche comportassero, automaticamente, interesse e abilità nelle materie professionalizzanti e inabilità e disinteresse nello studio libresco.

Spesso si dice che sono i nostri ragazzi e le loro famiglie che lo vogliono. Vorrebbero non confrontarsi con un impegno e un confronto intellettuale che non sentono proprio; che tra scuola e lavoro preferirebbero di certo quest’ultimo. Ma anche se così fosse, se così è, non possiamo costruire una scuola dove riunire chi la pensa in questo modo, perché allora bisognerebbe costruire una scuola dedicata a ogni diversità, handicap compresi. Alcuni preferiscono scegliere una scuola più vicina al lavoro, così appena possibile potranno accedere ad un pur minimo reddito che li possa rendere indipendenti dalla famiglia o che possa aiutare una famiglia in difficoltà. Ma questo è un problema sociale, non è del lavoro che hanno bisogno, ma di un reddito. E la scuola non si può costruire intorno a questa contraddizione. E questa contraddizione diviene ancora più evidente se osserviamo le trasformazioni (in negativo) avvenute nel mondo della scuola, ricordiamo ad esempio che dal “presalario” (forma di contributo per gli studenti universitari delle famiglie più bisognose erogato negli anni ‘70), si è passati al pre-lavoro (Alternanza scuola lavoro e tutta quella pretora di lavori a titolo gratuito che stanno proliferando oggi). Non si può fare una scuola di classe, una scuola ghetto che raccolga soltanto coloro che vivono queste contraddizioni o ingiustizie sociali.

Scuola e lavoro erano due ambiti diversi. Prima dell’obbligo scolastico, o si andava a scuola o si andava al lavoro, questo significa che si auspicava che la scuola trasmettesse conoscenze; la professione la si imparava a bottega dove si era remunerati. Adesso, all’interno delle trasformazioni per le quali i profitti si ricavano dall’ambito finanziario e non da quello manifatturiero, dove quest’ultimo subisce poi tutte le trasformazioni dovute a processi di automazione, digitalizzazione, se non di delocalizzazione, trasformazioni che hanno portato ha una caduta della domanda di impiego, a una contrazione dell’offerta di lavoro, si è costruito intorno a quest’ultimo un apparato che lo ha reso il feticcio più rappresentativo dell’immaginario collettivo.

Ecco il lavoro che, ormai distaccato dalla sua ragione fondante, l’accesso al salario, costituisce da sé solo l’obiettivo agognato. Ecco la diffusione di situazioni e comportamenti impensabili soltanto un decennio addietro, quali quelli del lavoro gratuito. Quando si lotta per il lavoro, si lotta per potere accedere ad un salario. È il salario che manca e non un lavoro da esso disgiunto. Abbondano, infatti, gli esempi di Alternanza Scuola Lavoro che si rivelano essere una forma di sfruttamento di mano d’opera a titolo gratuito, spesso con impieghi anche poco pertinenti il corso di studi stesso.

*Gilberto Pierazzuoli