Trump: An American Dream

Donald Trump è il 45° Presidente degli Stati Uniti, la sua vittoria inaspettata è arrivata nel novembre del 2016 dopo una campagna elettorale rumorosa, razzista e politicamente scorretta. Hillary Clinton era talmente sicura di vincere che l’ha guardato dall’alto in basso per tutta la durata del duello elettorale, salvo cadere nelle sue provocazioni quando ormai la vittoria cominciava, da sondaggi, a sfuggirle di mano.

L’immagine che il tycoon è riuscito a far abilmente passare è stata quella dell’outsider contro l’ élite politica, l’uomo che si è fatto da sé; qualcosa che noi italiani abbiamo già visto nel ‘94 con la “discesa in campo” di Berlusconi. Eppure Trump è un membro a tutti gli effetti di quelle élite tanto vituperate, molto più vicino ai Clinton che agli operai e ai disoccupati dell’America più profonda che l’hanno votato. Ma, al di là dell’immagine flamboyant, delle sue esagerazioni e delle sue mosse politiche spregiudicate, chi è davvero Donald Trump? Donald Trump, An American Dream è un documentario in quattro puntate che ci svela tutto o quasi sulla sua vita privata e sul personaggio pubblico; non ci sono scoop in queste 4 ore alla scoperta di “The Donald” ma il documentario realizzato dalla rete britannica Channel 4 ha il pregio di mettere in fila tutti gli eventi reali che hanno portato il figlio di un costruttore di origini tedesche del Queens a diventare Presidente degli Stati Uniti. (Qui il trailer sul sito Netflix)

Si comincia con le origini delle ricchezze di Trump e qui siamo davanti a un film già visto: l’uomo che si è fatto da solo, in realtà, ha avuto la strada spianata dal padre costruttore con forti legami politici nell’area di New York. Il padre costruiva a Brooklyn e nel Queens, Donald vuol costruire e lasciare il proprio segno a Manhattan, nel cuore dell’impero finanziario dove risiedono quelle élite culturali dalle quali vuole essere tanto accettato. Narcisismo e bisogno di accettazione, un uomo piccolo con un ego enorme: il perfetto identikit del politico oggi.

La storia della costruzione del Grand Hyatt Hotel prima e della Trump Tower poi è emblematica. Il Commodore Hotel era un hotel prestigioso decaduto che sorgeva accanto alla Grand Central Station, Trump lo trasformò nel Grand Hyatt, uno scintillante edificio in vetro e acciaio. Tutto questo fu possibile grazie a ingenti prestiti ottenuti dalle banche ma soprattutto grazie a una sospensione delle tasse per i successivi 40 anni che gli concesse il sindaco Abraham Beame, vicinissimo al padre, che quando parlava dei Trump diceva “Whatever my friends Fred and Donald want in this town, they have my complete backing”. Dopo questo colpo fortunatissimo Donald volle costruire un edificio che portasse il suo nome e allora mise le mani sul Bonwit Teller Building, edificio Art deco accanto a Tiffany sulla Fifth Avenue, è lì che sorgerà la Trump Tower. L’edificio storico dovrebbe essere preservato, Trump non lo fa, promette però al Metropolitan Museum i gargoyles e i bassorilievi liberty; inutile dire che non arriveranno mai al museo finendo misteriosamente dispersi. A questo punto vuole ottenere la medesima sospensione quarantennale delle tasse, ma il nuovo sindaco Ed Koch, che lo rimarrà fino al 1989, si oppone fermamente a questo regalo di soldi pubblici a Trump. Ma il giovane Donald è molto vicino ad un avvocato spregiudicato, Roy Cohn, i due fanno causa alla città di New York, vincono ed ecco altri 40 anni di sospensione delle tasse anche per la Trump Tower.

Roy Cohn è un personaggio da romanzo (nero) che ben spiega gli anni ’80 di Trump ma che parte da lontano. Anticomunista, assistente procuratore, fu l’accusatore dei coniugi Rosemberg e divenne poi il braccio destro di McCarthy; finita la caccia alle streghe tornò a New York dove fece il broker e soprattutto fu l’avvocato di molti padrini della mafia. Superfluo quindi sottolineare da dove venisse il cemento utilizzato per la Trump Tower. Cohn era inoltre un gay non dichiarato che morì di AIDS nel 1986 nonostante fosse uno dei pochi gay che in epoca reaganiana poterono accedere alle cure mediche mentre tutti gli altri ne erano rigorosamente esclusi. Ovviamente era amico personale di Nancy e Ronald Reagan. (Qui un approfondimento su Roy Cohn)

Torniamo però a Trump, all’uomo di successo che si è fatto da solo grazie ai soldi e agli agganci politici del padre, grazie ai soldi pubblici, grazie al cemento della mafia. La Trump Tower è il trionfo del cattivo gusto, dell’ostentazione di una ricchezza esagerata, tutta marmi, cascate e decorazioni dorate.

Timothy L. O’Bryan, autore di TrumpNation: The Art of Being the Donald, intervistato nel documentario definisce l’appartamento di Trump all’ultimo piano della Trump Tower come disegnato da Luigi XIV sotto acido. “Donald Trump rappresenta l’idea che il povero ha del ricco”, ed è probabilmente questo uno dei motivi del suo successo nel cuore della bistrattata ed impoverita working class americana, non più un nemico di classe ma un esempio da seguire, quello che ce l’ha fatta con le proprie forze. Una montagna di falsità come abbiamo appena visto. La classe lavoratrice invece di opporsi a Trump legge The Art of the Deal nel quale Trump nel 1987 spiega i segreti del suo successo, vuole essere come lui; disoccupati, arrampicatori, aspiranti miliardari faranno la file per i casting di The Apprentice per essere scelti da The Donald.

La storia di Trump prosegue inesorabile tra la costruzione di casinò ad Atlantic City, il crollo finanziario dopo la costruzione dell’ Hotel Casinò Taj Mahal caratterizzato dall’architettura ‘sobria’, il divorzio, le donne, la rinascita grazie a dei titoli azionari legati solo alla sua persona. Trump fa perdere il lavoro a migliaia di persone, lascia fallire i suoi debitori e rinasce. Nel 2004 va in onda su NBC la prima puntata di The Apprentice, un reality, in cui i concorrenti si fanno la guerra pur di ottenere un posto di lavoro in una delle aziende di Trump. Il programma sarà un grandissimo successo e andrà in onda fino al 2014.

Ma il desiderio di entrare in politica farà capolino spesso nel corso degli anni a partire dal ‘96 quando Ross Perot lo batterà sul tempo come candidato di un terzo partito, il Reform Party.
Ma quelle élite politiche sia democratiche che repubblicane che non disdegnano le sue generose donazioni non lo vogliono come candidato, quei democratici new yorkesi che sotto sotto amano lo scintillio delle ricchezze trumpiane pubblicamente lo snobbano. Hillary Clinton era in prima fila al matrimonio del tycoon con l’attuale moglie Melania, in fondo si sarà detta perché rinunciare ad un evento così mondano e pieno di vip? La Clinton Foundation prendeva anche i suoi soldi. E’ questo mondo politico bipartisan quello in cui Trump ha sempre sguazzato: democratici o repubblicani non importa, io ti do i miei soldi e tu mi fai fare affari. Ma nonostante questo resta un outsider, ecco le parole con cui nella propria autobiografia Hillary Clinton racconta la propria partecipazione al matrimonio “Era un personaggio fisso della scena newyorkese quando ero senatore, nel 2005 ci ha invitato al suo matrimonio con Melania, a Palm Beach, in Florida. Non eravamo amici, quindi presumo che volesse il maggior numero di star possibile. E’ successo che Bill doveva parlare in zona quel fine settimana, così abbiamo deciso di andare. Perché no? Ho pensato che sarebbe stato uno spettacolo divertente, sfarzoso, esagerato, e avevo ragione.” Una presenza del tutto ‘casuale’ quella della Clinton. I politici prendono i soldi da Trump, lo frequentano ma non lo vogliono ammettere, un po’ se ne vergognano.

Una scena del documentario mostra la piena consapevolezza di Trump. Lui e la moglie arrivano a Mar-a-Lago, la sfarzosa dimora in Florida, insieme ad un giornalista, prima cenano poi vanno a bere un drink a bordo piscina, Trump chiede al DJ di mettere della musica e gli dice di metterla alta ‘Qui tutti mi odiano, nessuno mi vuole come vicino. Devono sapere che ci sono’. Ed è proprio con questa mentalità che è diventato presidente, deve mostrare alle élite del paese che lui può arrivare dove vuole. Ma è proprio per il suo essere un outsider che piace alle classi subalterne che però non vedono o non vogliono vedere tutti i favori che sta facendo ai super ricchi, e alle multinazionali, dalla negazione del riscaldamento climatico alla possibilità di scavare oleodotti nei parchi nazionali, dal tentativo di cancellazione del timido Obamacare alla guerra agli immigrati, proprio lui il cui nonno venne dalla Germania ad aprire ristoranti e bordelli negli Stati Uniti.

Trump si lascia usare dal capitale per soddisfare le proprie ambizioni personali e per colmare le sue insicurezze, forse è il canto del cigno del neoliberismo o forse ne è la rinascita. Certo è che non saranno i Clinton e quelli come loro a poterlo combattere, ci vorranno i Sanders e la nuova generazione di socialisti dei centri urbani.

Trump: An American Dream ci mostra un uomo dall’ambizione sconfinata, ma attraverso lui una società allo sbando e l’arroganza del capitale. Una visione utile perché per combattere il nemico bisogna innanzitutto conoscerlo e comprendere l’immagine e i messaggi che proietta sulla working class.

*Francesca Conti