Sulla difficile rinascita della sinistra in Italia. E qualcosa sull’anti-razzismo.

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Ci troviamo – diciamolo francamente – in gravi difficoltà a sinistra. Il quadro generale è noto e condiviso da molti. Dopo tutto, dalla debolezza del movimento sindacale all’assenza di una compiuta e forte espressione politica di classe, dalla crescita dei partiti di destra al diffondersi di un pesante sentimento di aperto razzismo, le ragioni per una lettura pessimistica del presente sembrano non mancare affatto. Nonostante questo, in modo paradossale se volete, scontiamo un certo ritardo a fare i conti con una realtà probabilmente più ostile alle nostre istanze di quanto abbiamo il coraggio di raccontarci. Tre elementi, sommandosi tra di loro, sembrano rilevanti per comprendere il nostro ritardo ad adattarsi ad un ambiente che in pochi decenni è cambiato radicalmente a nostro sfavore.

Il primo riguarda una lettura sostanzialmente benevola dei recenti successi elettorali di Lega e Movimento 5 Stelle (M5S). In tale prospettiva, il gonfiarsi di questi partiti nelle urne sarebbe un’espressione embrionica, per quanto ovviamente spuria e contradditoria, di un profondo risentimento che cova nella società. In particolare, il distaccarsi di settori importanti delle classi subalterne dal Partito Democratico (PD) segnerebbe un elemento di aperta positività.

Un siffatto ragionamento muove da un elemento condivisibile, ma salta a conclusioni alquanto più dubbie. Rimane certamente vero che il PD rappresenti l’espressione politica più pura che la borghesia italiana abbia mai avuto nell’intero periodo repubblicano. La crescente difficoltà che il partito di governo par excellence incontra nell’attrarre in funzione esclusivamente passiva importanti fette delle classi lavoratrici è quindi un fattore rilevante perché si dia la possibilità di una rinascita di una sinistra politica. Al tempo stesso, la sottostante ed implicita assunzione che lo spostamento verso la Lega e il M5S oggi renda più probabile la crescita della sinistra domani tende a sovrastimare la carica anti-sistema delle due forze e a minimizzarne il carattere regressivo.

Il primo elemento è ben spiegato, quantomeno con riferimento al M5S, dal concetto di trasformismo elaborato da Antonio Gramsci. Come noto, con questo termine oggi facciamo riferimento in modo quasi esclusivo ai cambi di casacca in parlamento. Il pensatore comunista immaginava però il trasformismo come un fenomeno decisamente più sistemico, derivante dalla “scarsa aderenza delle classi alte al popolo”. Sarebbe tale scollamento che determinerebbe la nascita dei partiti italiani su posizioni estreme, con la successiva e graduale convergenza verso il campo moderato. Tali forze politiche fungerebbero così da catalizzatori di radicalità, garantendo però, in virtù del loro moto centripeto, stabilità e continuità al sistema. Una descrizione che sembra calzare a pennello per il M5S.

Il carattere regressivo del governo giallo-verde è forse però elemento ancor più problematico per chi voglia proporre una lettura sostanzialmente positiva della crescita delle due forze. Ponendo la discussione politica lungo linee individualistiche, securitarie e strettamente legalistiche, M5S e Lega si pongono in aperto contrasto ad un comune sentire di sinistra. Queste plasmano e modificano a propria immagine e somiglianza, soprattutto in una fase di ampio consenso come quella attuale, un numero rilevanti dei propri elettori rendendo più difficile un futuro recupero della sinistra. Questo ci conduce al secondo elemento.

Per diversi anni si è dibattuto se il M5S fosse o meno una forza di sinistra. Se di tale disputa non vi è più traccia la risposta è semplice. Nessuno, o quasi, si azzarderebbe oggi a far rientrare il partito grillino nell’alveo delle forze di sinistra. La discussione si è quindi spostata sull’elettorato dei cinque stelle e sulla presunta natura di sinistra di una fetta considerevole di questo. Nelle settimane post-4 marzo, un articolo comparso sul sito internet di la Repubblica ha rilanciato la controversia.

Avvalendosi di alcuni dati di sondaggio, il quotidiano mostrava come il 35 percento di chi aveva votato per il Partito Comunista Italiano (PCI) nel 1987 scegliesse oggi il M5S. Partendo dall’ovvio assunto che i sostenitori del PCI fossero di sinistra, si deduceva una presenza significativa di elettori di sinistra tra i cinque stelle. Per quanto il ragionamento risulti logico, la conclusione non è necessariamente corretta. Possedere valori ed idee di destra o di sinistra non è, di solito, soggetto a rapidi mutamenti, ma tende, al contrario, ad avere una stabilità nel tempo maggiore a quella del volatile comportamento elettorale. Al tempo stesso, essere di destra o di sinistra non è neanche eterno. Gli elettori non vivono in un vuoto cosmico. Sono anzi e soprattutto il prodotto dell’ambiente circostante. Al riguardo, un esempio può tornare utile. In molti hanno più volte predetto – e chi scrive è stato tra questi – come lo spostamento centripeto dei vari eredi del PCI aprisse ampie praterie a sinistra. Se questi spazi sono realmente esistiti, di certo nessuno è mai riuscito ad occuparli. Il non avverarsi della predizione si deve, tralasciando i vari fattori contingenti che possono essere addotti, ad un vizio di staticità nel ragionamento. Gli elettori, così come i partiti, sono mobili e soggetti ad un costante, per quanto spesso impercettibile, mutamento. Gli ex-PCI sono così cambiati assieme al mutare del partito, giungendo in alcuni decenni a posizioni, tanto per citarne una, di pieno supporto al libero mercato. Per tale ragione, quelli che venivano ipotizzati come aperti tradimenti dei valori fondanti della base del partito erano in realtà graduali correzioni di rotta che non hanno portato ad alcun tipo di rottura.

In modo analogo, si può ipotizzare come gli elettori che si auto-rappresentavano di sinistra e che sono passati armi e bagagli con i pentastellati abbiano visto gradualmente svanire i loro valori solidaristici e di giustizia sociale, trovandosi oggi su posizioni decisamente diverse. In altri termini, il fatto che tra gli elettori del M5S vi siano ex votanti di sinistra non equivale a dire che vi sia un altrettanto alto numero di persone di sinistra. Queste potrebbero non essere più tali. Oppure si potrebbero trovare su posizioni decisamente più arretrate.

Il combinarsi di questi due elementi non solo indica come la sinistra in Italia goda di un consenso risibile – cosa che recentemente è stata confermata in quasi ogni occasione – ma anche che la strada che dovrà percorrere per riemergere sarà più lunga di quanto immaginato. Questo si collega al terzo ed ultimo elemento problematico. Ovvero, la tentazione, soprattutto di fronte al dilagare di orrendi gesti di xenofobia, di dar vita ad iniziative e coordinamenti meramente anti-razzisti. La spiegazione di quel meramente dovrebbe aiutare ad esplicitare la contrarietà a tali, in linea logica sacrosante, manifestazioni.

Vi sono due posizioni sbagliate rispetto al problema – straordinariamente ingigantito ed utilizzato come potente arma di distrazione di massa – dell’immigrazione. La prima è quella di chi, partendo dalla contrarietà delle classi popolari verso i nuovi arrivati, chiede alla sinistra di adeguarsi e di porsi sullo stesso terreno della destra. Solo così, ci viene detto, la sinistra può tornare ad essere popolare. La seconda è invece un vuoto idealismo, che immagina di poter ricostruire la sinistra con un materiale umano fantastico e creato appositamente per noi. Se i “nostri” hanno posizioni sbagliate rispetto ad una tematica, non esiste alcun bisogno né di accodarsi ai loro pensieri né di esibire disprezzo per questi.

Il razzismo non si sconfigge solo, e tantomeno prevalentemente, con l’anti-razzismo. Si fiacca, al contrario, con una diversa contrapposizione che ri-articoli il noi (italiani) – loro (stranieri) proposto dalla destra, e non solo. Il conflitto di cui abbiamo bisogno, special modo in un periodo di diseguaglianze crescenti e intollerabili, è quello tra i molti che hanno poco ed i pochi che hanno moltissimo. Questo non significa, ovviamente, che il razzismo non meriti attenzione. Il fatto che la discriminazione razziale non sia una componente essenziale nel processo di accumulazione non equivale in alcun modo a dire che non sia uno strumento di cui il capitale si serva per imporre più rigidi ritmi di sfruttamento della manodopera, spingere al ribasso le condizioni generali di chi lavora, dividere e segmentare la classe lavoratrice.

Per tali ragioni, non esiste alcuna posizione di sinistra che non sia visceralmente anti-razzista. Eppure, se una posizione è solamente anti-razzista non è di sinistra. Finisce al contrario per essere il portato di una posizione liberale tipica dei ceti professionali e delle classi medie urbane. Quello di cui abbiamo bisogno è un anti-razzismo sociale. Per arrivare a questo si parte però dal sociale – ovvero, dalla parola d’ordine dalla ridistribuzione della ricchezza e dalla ricostruzione di una comunità tenuta assieme da elementi materiali e riferimenti ideali – per giungere poi all’anti-razzista. E non viceversa. Suona strano, ma cambiando l’ordine degli addendi cambia anche il risultato.

*Gianni Del Panta

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Gianni Del Panta

Gianni Dal Panta, studioso e attivista politico, è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione. Da piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).

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