Lavori del cavolo

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Lavoro e salario, in epoca moderna, sono le due facce della medesima medaglia; o almeno dovrebbero esserlo. Sono il frutto di uno scambio le cui articolazioni sono oggetto di un contratto, tanto da risultare più o meno vantaggiose per i due attori in funzione dei rapporti di forza espressi al momento della contrattazione. Il rapporto tra questi due termini è così intrecciato da poterli pensare come sinonimi.

Cercare lavoro significa cercare un modo per poter accedere a un reddito e viceversa: la loro esistenza è totalmente reciproca. Ma nel modo di produzione tardo capitalista, le cose si stanno ingarbugliando, meglio le cose vengono ingarbugliate in maniera tale che i due termini si è iniziato a usarli l’uno indipendentemente dall’altro.

Questa è un’operazione per creare un sottile dispositivo di disciplinamento. Il meccanismo è questo, fuori del buon senso si attribuisce al lavoro una valenza etica; il lavoro dà dignità, si dice. La frase potrebbe avere anche un senso se pensiamo il lavoro come lavoro salariato, perché la verità è che è il salario a veicolare la dignità, non certo il lavoro. E per secoli è stato così. Chi aveva bisogno di lavorare per poter accedere alla possibilità di soddisfare i propri bisogni non era certo il modello al quale riferirsi, visto che il suo opposto dominava la scala sociale. Nel momento in cui ai due termini è stata concessa un’esistenza autonoma, ecco che si moltiplicano le iniziative che vanno a cercare un lavoro per tutti, anche un lavoro senza salario, perché poltrire non è dignitoso, ma lavorare gratis lo sarebbe. Questa perversione che permette al capitale di fare un bottino di forza lavoro gratuita o malpagata, è un capolavoro di prestidigitazione che, non si sa come, rompe l’unità tra lavoro e salario facendo scomparire proprio quest’ultimo.

fotogramma – poveri –

Questa potrebbe essere una fantasia di un osservatore malato? Ci si domanda. Infatti, se così fosse, le persone di buon senso si sarebbero perlomeno allarmate. Non è così, il dispositivo è ben congegnato. C’è un’alta disoccupazione giovanile? La risposta, partendo dalla constatazione di una scollatura tra la scuola e il mondo del lavoro, ha tentato una ricucitura che si è concretizzata nella “Alternanza Scuola Lavoro” che, tramite il sistema degli stage, ha fatto proprio quello che dicevamo prima: ha offerto mano d’opera gratuita a una miriade di aziende. Lavoro mascherato da formazione che, come sappiamo, è invece quasi sempre assente nei rapporti reali che si sono concretizzati sino adesso.

Lavoro e salario sono ora disgiunti, allora perché non richiedere invece che un lavoro per tutti un salario per tutti? L’attuale governo ha messo in piedi una proposta in tal senso riuscendo a mettere in campo un’operazione incredibile. È riuscito a rivoltare la frittata in maniera tale che facendo una legge sul “reddito di cittadinanza”, tira fuori dal cappello un semplice “sussidio di povertà” che, è questa la genialata, istituisce l’obbligo di svolgere otto ore di lavoro non pagato alla settimana, ma obbliga anche a dover accettare (potrà fare soltanto due rifiuti alle proposte di lavoro ricevute) un qualsiasi lavoro, quale che sia l’impegno richiesto e quale che sia la paga corrispondente. Doppia operazione “dispotica”. In nome di un salario per tutti, si distribuiscono palate di lavoro gratuito e si rompe il patto contrattuale tra il lavoratore e il capitale impedendo al primo di contrattare la messa a disposizione della propria forza lavoro. Chapeau!

Nel 1930 J.M. Keynes prevedeva che prima dello scadere del millennio, lo sviluppo della tecnologia avrebbe portato nei paesi più avanzati ad avere settimane lavorative di quindici ore. David Graeber dice che tutto questo non è avvenuto perché proprio la tecnologia ha creato un’infinita di lavori tali da farci quasi lavorare di più. Si sono cioè moltiplicate le mansioni e le problematiche che richiedono altre tipologie di lavoro e altri addetti. Che cosa è accaduto?

Nell’ultimo secolo il numero delle persone impiegate in lavori domestici, nell’industria e nella coltivazione della terra ha subito un vero e proprio crollo. Sono però aumentati gli addetti a lavori dirigenziali, impiegatizi, dei servizi e del commercio. Questo perché, come previsto, gran parte dei lavori produttivi sono stati automatizzati, ma anche perché si sono inventate mansioni che precedentemente venivano svolte non da particolari addetti ma adoperando semplicemente il buon senso, tipo l’addetto alle risorse umane e quello alle relazioni pubbliche. Sono perciò proliferati tutta una serie di lavori inutili perché l’ideologia puritano-capitalista aveva messo in piedi un’etica del lavoro per la quale sarebbe appunto il lavoro a dare dignità agli uomini. In questo caso non c’è scissione tra lavoro e salario, anzi, forse per mascherare una realtà così poco “efficiente”, è facile che proprio i lavori inutili vengano pagati di più di quelli tradizionali.

Per il capitale una popolazione felice, che certo produce, ma ha tempo libero a disposizione, – proprio in vista del contratto tra forza lavoro e capitale del quale abbiamo parlato all’inizio di questo testo – non è certamente auspicabile. È allora «straordinariamente vantaggiosa l’idea che il lavoro sia un valore etico in sé, e che nulla spetti a chi non è disposto a sottostare per la maggior parte delle sue giornate alla severa disciplina che esso comporta» (Graeber p. 11). Si sarebbe perciò diventati una società basata sul lavoro, e non quello produttivo, ma come fine e significato in sé, che è molto lontano allo spirito sotteso dalla nostra costituzione quando dichiara che: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Il lavoro, le capacità umane di intervenire sulla natura, le capacità di forgiare attrezzi adatti a costruirne altri di più complessi, la condanna al “lavoro” che l’uomo ha ereditato di conseguenza al peccato di Adamo o alla negligenza “tutta femminile” di Pandora, segnano profondamente il pensiero occidentale; pensiero che ha il suo culmine ed una sua attuazione definitiva nel sistema di produzione capitalista basato sul libero mercato. Graeber ci ricorda che il lavoro è l’opposto del gioco, che a sua volta è definito come un’azione fine a se stessa fatta per il piacere che dà e comunque non in funzione di una qualche utilità; ne consegue la definizione che Alfred Marshal dava del lavoro già nel 1890: «Possiamo definire lavoro ogni sforzo fisico o mentale sostenuto in tutto o in parte, in vista di qualche bene che non sia il piacere direttamente derivante dal lavoro stesso» (citato da Graeber, p. 271) Si ha qui l’apoteosi di quel pensiero teleologico che nega la possibilità di un lavoro piacevole a farsi, che quindi scarta il suo opposto nell’ambito del negativo. Il lavoro è fatica, sudore e dolore testimoniati dal campo semantico del termine “travaglio” che in diverse lingue rimanda direttamente al lavoro, ma che è anche patimento interiore, così come anche il periodo che precede il parto caratterizzato dal dolore conseguente alle doglie.

Il pensiero occidentale si gioca, dunque, tutto intorno a un’aporia. Da una parte il lavoro è una punizione data in conseguenza di un peccato, dall’altra è lo strumento per ritrovare la dignità perduta sempre a causa dello stesso peccato. E qui, certamente, il capitale ha giocato le sue carte, volgendo a suo favore i rapporti di forza che sottostanno alla messa in atto di quel contratto che gli subordina la forza lavoro.

Ciliegina sulla torta è il modo di somministrazione del “sussidio di povertà”, esso potrà essere speso utilizzando un comune bancomat perché una carta apposita sarebbe “umiliante”, dichiara il vice premier che dà per scontato che chi è povero si deve sentire in colpa. Anche gli acquisti saranno controllati da un super visore (la guardia di finanza stornata dal compito di perseguire i grandi evasori con i quali si è convenuti a “una pace fiscale”), perché non potranno consistere in beni superflui, ma soltanto in quelli essenziali. Perché ai poveri non sia concesso di perseguire la propria felicità, ma soltanto la propria sopravvivenza, non condita da nessun piacere: così imparano!

*Gilberto Pierazzuoli

Cfr. David Graeber, Bull shit jobs, Le professioni sensa senso che rendono ricco e infelice chi le svolge e costituiscono il fondamento del nuovo capitalismo globale. In Italiano potrebbero definirsi lavori del cavolo, Garzanti, Milano 2018.

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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