Henri Lefebvre e la riappropriazione dello spazio rurale

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Il presente ragionamento trae origine dalla rilettura del libro di Henri Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, riedito da Ombre corte lo scorso anno[1]. Provo qui a indagare, per brevi cenni, le sovrapposizioni tra critica sociale di taglio marxista (su città, spazio, politica, vita quotidiana) e critica ecologista; e a sondare l’intensità delle possibili interferenze tra il Lefebvre del droit à la ville e lo spirito di chi tra anni ‘70 e ‘80 del Novecento “ritorna” alla terra[2].

Diritto alla città, un diritto situato

«È necessario che l’urbano si faccia minaccioso» (SP, p. 24). La semplice sostituzione di ‘urbano’ con ‘rurale’ – che muta l’affermazione in: «è necessario che il rurale si faccia minaccioso» – rende bene i fondamenti dell’esodo neoagricolo: facendosi minaccioso, il rurale può sovvertire la preminenza in termini capitalistici della città sulla campagna, limitarne l’estensione nello spazio e nella vita quotidiana[3]. Impedire l’«urbanizzazione globale» che Lefebvre prefigurava come ineludibile scenario mondiale.

Nell’età delle disillusioni collettive, dell’affermazione della «cultura del narcisismo»[4], della mutazione neocapitalista, il «diritto alla città» è annientato, travolto, assieme ai connotati stessi dell’ambiente urbano, verso la «banlieue totale»[5] . Per decenni, di diritto alla città se ne è praticato poco, se ne è parlato molto (ma, il più delle volte, svuotandolo di senso). «Mi plagiano senza citarmi», lamentava già il filosofo[6]. Solo recentemente il dibattito si è riappropriato dell’espressione riconducendola nel solco originario, e attualizzandola. Secondo la lezione di Lefebvre, droit à la ville significa intervenire direttamente nelle questioni dello spazio, impossessarsene, conformarlo o riconfigurarlo secondo i bisogni, le aspirazioni e i desideri delle classi popolari; occupare, riattivare le funzioni, mettere la città al servizio dei subalterni. È un diritto che coinvolge la vita quotidiana, che rimette al centro alcuni binomi dialettici, utili al nostro ragionamento: uso/scambio, valore d’uso/valore di scambio; città/campagna; centro/periferia (dove il centro – la «centralità» – è motore inarrestabile di rendita e di segregazione); produzione/riproduzione; Uomo/Natura (con le iniziali maiuscole). È un diritto che, assumendo come priorità la riappropriazione sociale degli spazi di vita, offre spiragli per la costruzione di utopie concrete, di utopie situate nel territorio. Il diritto alla città è un diritto situato. Relativo alla vita nel luogo.

Spazio ed ecologismo

In Spazio e politica Lefebvre si concentra sulla produzione dello spazio, sul suo carattere eminentemente politico e ideologico: poiché luogo della riproduzione dei rapporti di produzione e di dominio, lo spazio è politico. Conformare lo spazio è perciò un’azione sociale ed ha in ogni caso risvolti sociali. Lo spazio – egli scrive – è «non solo organizzato e istituito, ma è anche modellato, “appropriato” da questo o quel gruppo sociale, secondo le sue esigenze, la sua etica, la sua estetica, cioè la sua ideologia» (SP, p. 71). Qui ci avviciniamo alla nostra ipotesi, ovvero che le riflessioni lefebvriane si siano intrecciate a quelle ecologiste per quanto attiene all’appropriazione dell’habitat agricolo da parte dei neorurali; e in particolare le riflessioni in merito a:

– la produzione dello spazio come strumento di dominio da parte della tecnica e della politica;

– la necessità di affrancamento della vita quotidiana dal capitalismo per l’espressione e il perseguimento del diritto alla vita urbana o rurale.

Lefebvre non è ecologista. Tuttavia l’urgenza ecologica, mai centrale nella sua opera, è avvertita. Ad esempio laddove egli denuncia – ma con intensità assai diversa da Charbonneau o da Illich – che crescita economica e crescita sociale non coincidono: la crescita quantitativa «bisogna orientarla nel ridurla; bisogna orientarla verso lo sviluppo sociale», afferma (in odor di decrescita) il sociologo. «L’acqua, l’aria, la luce sono minacciati – si legge ancora in Spazio e politica –. Andiamo incontro a scadenze terrificanti. Bisogna prevedere il momento in cui sarà necessario riprodurre la natura. Produrre questi o quegli oggetti non sarà più sufficiente, bisognerà riprodurre quello che fu il presupposto elementare della produzione, cioè la natura. Con lo spazio. Nello spazio» (corsivi nostri).

Le urgenze ambientali sono in Lefebvre necessariamente connesse al sociale. Tuttavia, il nesso attivo tra istanze ecologiche e istanze sociali resta – ancora oggi, a dire il vero – da porre in piena luce: come può, egli scrive, la «lotta» ecologica rappresentare i bisogni e le aspirazione delle classi subalterne? In che cosa e perché la critica ecologista è di sinistra? «Non è una critica fatta in nome di un determinato gruppo, partito o associazione di sinistra – scrive il sociologo –. Non è una critica condotta in nome di un’ideologia più o meno classificabile di sinistra. […] Emergono però nuove scarsità, l’aria, l’acqua, la luce, lo spazio, intorno alle quali si lotta intensamente» (SP, p. 60). Proprio in funzione di questa lotta, egli rimarca, bisogna intendere in modo nuovo la gestione dello spazio urbano e territoriale: l’urbanistica e la pianificazione.

 Conflitto ecologico e questione di classe

Ciò che, per inquadrare il poliedrico fenomeno del ritorno alla terra negli anni ’70-’80, abbiamo definito «diritto alla campagna»[7] è – al pari di quello alla città – un diritto «che non si mendica, e non si rivendica», ma che deve imporsi grazie a un rapporto di forze. Un conflitto cioè che vede affrontati: su un versante il Capitale e le truppe dei suoi servitori volontari, sull’altro uno schieramento la cui composizione è multiforme e densa di contraddizioni. Quello dei neoagricoltori è infatti un insieme di individui, gruppi e realtà con percorsi e ascendenze sociali assai disomogenee: ricchi e poveri, operai e borghesi, cittadini e figli di contadini. Una nebulosa sociale che, pur non connotandosi come «forza produttiva inserita nella divisione del lavoro» (non si tratta di operai, non di camalli né minatori…), arriva ad autoriconoscersi erigendosi al rango di «soggetto politico». Classe per sé, dunque, potrebbe dirsi, quella dei neorurali. Non classe in sé.

 

La sintesi teorica tra analisi marxista e visione ecologista, tra lotta di classe e difesa dell’ambiente avverrà in autori della generazione successiva a Lefebvre, tra i quali basterà qui ricordare André Gorz. Nel suo processo di costruzione, il pensiero ecologista – teso alla riconduzione ad unum di Uomo, Società umana ed extra-umana, e Natura – si è avvalso delle intuizioni ed elaborazioni di autori non allineati col pensiero marxista. Solo per citare i più scomodi: Ivan Illich, Jacques Ellul, Lewis Mumford, Gandhi. Riprendo una frase già citata supra: «bisognerà riprodurre quello che fu il presupposto elementare della produzione, cioè la Natura». Affermazione che, marcando l’alterità dell’Uomo rispetto al Vivente, conferma la distanza di Lefebvre dall’avvenuta acquisizione di ciò che Vandana Shiva definisce la «maggiore conquista dell’ecologismo», ossia «la consapevolezza che non esiste separazione tra mente e corpo»[8] , tra Uomo e Natura. Come detto, il superamento del «dualismo cartesiano» si attiverà negli ultimi decenni, sia attraverso il riconoscimento della «natura come una matrice storica e non [come] oggetto su cui agire», da far agire; sia – impieghiamo qui gli strumenti lessicali dell’ecologia politica – attraverso «l’individuazione del capitalismo come ecologia-mondo, cioè di una formazione [globale] caratterizzata da una specifica combinazione di rapporti di classe, potere territoriale e natura»[9]. Eppure, nel ritorno alla terra, le convergenze con Lefebvre si stanno rivelando, malgrado tutto, numerose. Tentiamone l’enucleazione per temi.

 Contro il luogo del consumo, contro il consumo di luogo

Il ritorno alla terra/diritto alla campagna è vissuto nelle pratiche di controffensiva allo sfruttamento sfrenato delle risorse naturali, alla crescita quantitativa, all’iperproduzione. In termini insediativi, si tratta di una resistenza controprogettuale all’ipertrofia edilizia e all’agroindustria, le quali, scrive Lefebvre, producono «spazio di morte» (SP, p. 118): spazio senza vitalità, e dunque senza futuro, che si inserisce nella concatenazione consumo-spreco-rifiuto-distruzione[10] delle risorse territoriali. All’omogeneizzazione spaziale, ai «luoghi del consumo, [e al] consumo di luoghi»[11], i neoagricoltori oppongono alternative di vita che intrattengono con i luoghi rapporti di cura, rafforzandone le relazioni ecologiche e le capacità generative. Sono così sperimentate nuove “quotidianità” – frugali, conviviali, collettive – nel segno del sociale rurale. Sociale rurale che, al pari del «sociale urbano, è negato dall’economia industriale»[12] . E che è necessario rimettere in pratica. In accordo con l’idea di Lefebvre per cui «lo spazio intero diventa il luogo della riproduzione dei mezzi di produzione» (SP, p. 50), la controffensiva neorurale implica un rinnovato e virtuoso rapporto tra produzione di materie necessarie alla vita e riproduzione del vivente (fertilità dei suoli quali depositi di «esperienza e memoria»[13], liberazione di acqua, di terra, di semi, di aria, di luce), in nome di un «altro modo di produrre» (SP, p. 118) che è naturalmente alieno dai rapporti premoderni di conduzione della terra e da quelli della mano d’opera industriale.

Produzione di microterritorialità

Il nuovo «modo di produzione», anche rurale, «non può essere realizzato senza uno sconvolgimento dei rapporti, e di conseguenza dello spazio esistente», afferma Lefebvre (ibidem). La novellata campagna presenterà così una molteplicità di microambienti «diversi gli uni dagli altri e dalla loro matrice originale» (ibidem); lo spazio rurale è «appropriato», diviene luogo di vita – “bioregione” – differenziato e sottratto a quell’«omologia di tutti gli spazi» che è reputata come la più efficace delle ideologie «riduttrici»: ideologia «utile alla riproduzione dei rapporti sociali esistenti, trasferiti nello spazio e nella riproducibilità degli spazi!» (SP, p. 30).

L’unità spaziale nella quale agiscono i “ritornanti” è il podere (la casa sulla terra agricola, nelle sue varie accezioni regionali). Qui, come evidenzia il poeta bioregionalista Gary Snyder, è messa in atto una rappresentazione del cosmo in miniatura – con la sua wilderness residua[14] –, unità abitativo-produttivo-riproduttiva irripetibile, agli antipodi di quel «microcosmo illusorio»[15], standardizzato e riproducibile, rappresentato dall’abitazione monofamiliare che Lefebvre studia nelle periferie francesi. Ma c’è di più. L’esercizio del diritto alla campagna mira alla «produzione di ambiente», di un ambiente di vita quale processo co-prodotto: la campagna ri-diviene un insieme significante.

 

Valore d’uso e valore di scambio

Razionalità urbana e industrializzazione distruggono progressivamente l’«uso» dello spazio, inteso da Lefebvre come «il piacere, la bellezza, l’apprezzamento dei luoghi di incontro»[16] (16), e lo sostituiscono col denaro. Se affermare il «valore d’uso dello spazio diventa [atto] politico» (SP, p. 111), sono da intendersi propriamente “politiche” le resistenze neorurali basate su:

– il trapasso dall’economia di scambio all’autosussistenza «di tipo moderno»[17] (17);

– l’insistenza sulla policoltura (vs monocoltura industriale) e il ricorso alle tecniche del biologico;

– il rifiuto della catena di montaggio e l’adozione di modalità di lavoro “indiviso” che copre l’interezza delle fasi di lavorazione (gli ecologisti rigettano la «riproduzione dei rapporti di lavoro»: l’opera agricola/artigianale abbraccia l’interezza della vita).

Grazie all’applicazione di tali principi etico-politici, la campagna (in cui il valore d’uso intrinsecamente prevale sullo scambio monetario) torna ad essere «opera» mentre arretra, a “piccoli passi”, il suo essere «prodotto» (SP, p. 118) agroindustriale, speculativo.

 

Proprietà dei suoli e terre comuni

L’«altro modo di produrre», oltre alla trasformazione dei rapporti di produzione, comporta la trasformazione dei rapporti che determinano la proprietà dei suoli e l’accesso alla terra. La produzione di nuovo tipo – nel caso di specie, neoagricola – «non è definita soltanto dalla proprietà [collettiva] e dalla gestione collettiva dei mezzi di produzione, ma anche dalla gestione e dalla produzione “collettive” dello spazio stesso» (SP, p. 118). 

In questo passaggio di Spazio e politica viene solo sfiorato un tema caro al pensiero ecologista: quello della proprietà collettiva degli strumenti e dei terreni, che attiene agli usi civici e ai commons. Presso i nuovi contadini, la critica all’assetto proprietario di impronta romanistica trova infatti una risposta, con valore di paradigma, nell’arcaico sistema dei beni collettivi gestiti con usi civici (il discorso qui si amplia all’oggi). In tale assetto, nel quale proprietà e uso risultano intimamente legati, la virtù incrementale del bene è connaturata alle qualità di inusucapibilità, indivisibilità e inalienabilità che consentono la trasmissione del bene, integro e “migliorato”, alle generazioni future.

Utopia concreta

La proprietà privata del suolo rappresenta, sia per gli ecologisti che per Lefebvre, il principale ostacolo nella produzione di spazio quale opera, disegno, progetto di chi lo vive.

Lefebvre individua la soluzione nella “socializzazione”: «il che significa che il popolo intero, violando i rapporti di proprietà, occupa e si appropria dello spazio sociale» (SP, p. 131). Negli anni Ottanta, gli esempi di socializzazione delle terre – nel senso che alla socializzazione delle terre attribuisce il sociologo – non sono molti. Emerge ad esempio nel panorama centro-italiano, anche per la sua tenuta temporale, l’esperienza degli Elfi nella montagna pistoiese.

Qualunque ne sia l’esito, quanto ad effetti e durata, ogni realtà di socializzazione, creazione e appropriazione dello spazio, «sfuggendo alla proprietà, potrebbe costituire un’esperienza esemplare» (SP, p. 130). Germi di mondi possibili, spiragli di utopia oggi più che mai necessari, poiché «oggi più che mai non c’è pensiero senza utopia. Altrimenti ci si accontenta di rilevare, di ratificare ciò che si ha sotto gli occhi» (SP, p. 65).

*Ilaria Agostini

 

Note al testo

[1] Henri Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, prefazione di Francesco Biagi, Ombre corte, Verona, 2018 (ed. orig.: Le droit à la ville. Suivi de Espace et politique, Anthropos, Paris, 1974). In versione italiana il libro esce nel 1976 per Moizzi, nella collana “Spazio & Società” diretta da Riccardo Mariani, traduzione di Francesco Pardi. D’ora in avanti il testo (2018) è indicato con la sigla “SP”.

[2] Il presente commento è la trascrizione del mio contributo, in qualità di relatrice (a fianco di Giuseppe Allegri, Massimo Ilardi, Mario Pezzella, Enzo Scandurra), alla presentazione di Spazio e politica cit., tenutasi il 12 giugno 2018 nell’ambito delle attività del corso di dottorato in Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica, Università “La Sapienza” di Roma.

[3] La nozione di vita quotidiana fa parte integrante della teoria critica lefebvriana: cfr. Henri Lefebvre, La vita quotidiana nel mondo moderno (1968), a cura di Paolo Jedlowski e Amedeo Vigorelli, Il Saggiatore, Milano, 1978.

[4] Christopher Lasch, The culture of narcissism. American life in an age of diminishing expectations, Norton, New York, 1978 (trad. it. La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano, 1981). Su questi temi cfr. anche Cornelius Castoriadis, Cristopher Lasch, La cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo, a cura di Jean-Claude Michéa, elèuthera, Milano, 2014.

[5] Cfr. Bernard Charbonneau, Vers la banlieue totale par le pouvoir total, in Maurice Badet, Id., La fin du paysage, Anthropos, Paris, 1972 (oggi riedito col titolo: Vers la banlieue totale, Eterotopia, Paris, 2018, pp. 53-64).

[6] Ricorda il sociologo Jean-Pierre Garnier, in Claudio Pulgar Pinaud, Redonner son sens révolutionnaire au droit à la ville. Entretien avec Jean-Pierre Garnier, in Charlotte Mathivet (a cura di), De quoi le droit à la ville est-il le nom? Représentations, usages et instrumentalisation du droit à la ville, “Passerelle”, 2016, p. 22, <https://www.coredem.info/IMG/pdf/passerelle-droitville-fr-okimpr.pdf>.

[7] Così nel mio Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana, con premessa di Vandana Shiva e appendice di Laura Montanari, Ediesse, Roma, 2015. Crf. anche la recensione al libro ospitata su Città Bene Comune: Ubaldo Fadini, Per una nuova alleanza tra città e campagna, 14 ottobre 2016, <http://www.casadellacultura.it/472/per-una-nuova-alleanza-tra-citta-e-campagna>.

[8] Vandana Shiva, Premessa ad Agostini, Il diritto alla campagna cit., p. 11.

[9] Dalla recensione di Gennaro Avallone a Jason W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo (ombre corte, 2015): <http://effimera.org/la-prospettiva-dellecologia-mondo-e-la-crisi-del-capitalismo-di-gennaro-avallone/>.

[10] Tiziana Villani, Per una nuova polis, “Scienze del territorio”, 2015, n. 3 (num. monografico Ricostruire la città, a cura di Enzo Scandurra e Carlo Cellamare), p. 32.

[11] Henri Lefebvre, Il diritto alla città, Marsilio, Venezia, 1970, p. 31 (ed. orig. Le droit à la ville, Anthropos, Paris, 1968).

[12] Ivi, p. 41.

[13] Ivan Illich et al., Declaration on soil, 1990, ora in Ilaria Agostini, Daniele Vannetiello, La conversione dell’abitare, Lef, Firenze, 2015, pp. 84-87.

[14] Si veda la prefazione di Gary Snyder all’edizione italiana di Wendell Berry, Il corpo e la terra, Lef, Firenze, 1982 (ed. orig. The Body and the Earth, capitolo di Id., The Unsettling of America. Culture & Agriculture, Sierra Club Books, San Francisco, 1977).

[15] Henri Lefebvre, Introduzione allo studio dell’habitat della casa individuale suburbana, in Id., Dal rurale all’urbano, a cura di Paolo Sica, Guaraldi, Rimini, 1973, p. 191 (ed. orig. Du rural à l’urbain, Anthropos, Paris, 1970). Cfr. il capitolo De l’anarchitecture pavillonnaire à l’ordre babélien nel già citato Charbonneau, La fin du paysage, pp. 41-52, edito anch’esso da Anthropos, nei medesimi anni.

[16] Lefebvre, Il diritto alla città cit., p. 66.

[17] Cfr. Ivan Illich, La convivialità, Mondadori, Milano, 1974 (ed. orig. Tools for Conviviality, Calder & Boyars, London, 1973).

 

Il commento di Ilaria Agostini a Henri Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II (Ombre Corte 2017), è apparso sulla rubrica Città Bene Comune nel sito della Casa della Cultura di Milano.

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Ilaria Agostini

Ilaria Agostini, urbanista, insegna all'Università di Bologna. Fa parte del Gruppo urbanistica perUnaltracittà. Ha curato i libri collettivi Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014 e Firenze fabbrica del turismo.

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