Kafka No Tav

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Che ogni “Grande Opera” (infrastrutturale), al di là di una sua utilità per il bene comune, abbia una componente paradossale si potrebbe dare come scontato. Una forma di paradosso nel quale, oltre al fatto che non si intravede soluzione pratica o psicologica, si ha un turbamento e una sensazione di angoscia: quella che appunto ormai possiamo chiamare una situazione kafkiana. E Kafka stesso ne è testimone attraverso il racconto del ’17: Durante la costruzione della muraglia cinese.

Abbiamo fatto un esperimento, abbiamo copiato il racconto cambiando i riferimenti alla “Grande Muraglia” cinese con quelli ad una possibile opera pubblica che si basi per esempio sulla costruzione di una linea ferroviaria con grande tunnel annesso. Il riferimento alle opere connesse alla TAV è ovviamente voluto. Il risultato è un racconto che mantiene un’ambientazione in un tempo passato ma indefinito ed a un paese di sapore orientale: così è l’originale; ma gli artifizi messi in campo per giustificare l’opera e il modo della sua costruzione diventano adesso utilizzabili anche per una critica e un’analisi di ogni Grande Opera Pubblica così tanto spesso inutile che l’ultimo aggettivo ci viene da essere richiamato automaticamente, diventando così “la Grande Opera Inutile” il titolo di un faldone nel quale raccogliere le ultime nefandezze del Bel Paese. Il fattore K è un sospetto. Partendo della sua originaria significazione, che avrebbe impedito un regolare alternarsi di destra e sinistra al governo del paese, ma con una sinistra alla quale si permetteva comunque di infiltrarsi sempre più profondamente nella rete dei poteri locali ed economici con risultati che potrebbero infine spiegare il paradosso attuale delle Grandi Opere (Inutili). Il clientelismo spartito equamente, non crea opposizione, ma spesso spiegazioni paradossali e modi di SONY DSCgestire egualmente paradossali un po’ tutte le cose pubbliche. Le Grandi Opere diventano allora il paradigma di un paese che può anche somigliare ad un lento ed ipertrofico paese orientale se non ad una repubblica delle banane.

Punto e virgola.

Il punto e virgola indica la fine del concetto espresso nella frase al cui termine si trova il segno di interpunzione in questione; tale concetto si ricollega alla più grande idea di cui tratta l’intero periodo. Il punto e virgola non indica perciò né la fine dell’idea generale (come farebbe il punto), né la continuazione del concetto minore (che costituisce il ruolo della virgola), ma qualcosa di intermedio tra queste due funzioni. (da Wikipedia)

In questo citazione tratta dal racconto in questione si ha come un abuso del punto e virgola:

«Questi si mise subito in viaggio; era un uomo robusto e instancabile; sporgendo ora un braccio, ora l’altro si fa strada attraverso la folla; se incontra resistenza mostra il petto dove porta il simbolo del sole; e procede veloce come nessun altro. Ma la folla è così vasta! Delle sue abitazioni non si vede la fine. Se avesse libero il campo, volerebbe e subito udiresti il chiaro stamburare dei suoi pugni alla tua porta. Invece si affanna per nulla; ancora si sforza di attraversare le stanze più interne del palazzo; non le potrà superare mai; e se vi riuscisse, non sarebbe niente di guadagnato; dovrebbe lavorare di gomiti per scendere le scale; e se anche potesse farlo, non avrebbe alcun vantaggio; dovrebbe attraversare i cortili; e dopo i cortili il secondo palazzo che li racchiude; e ancora scale e ancora cortili; e un altro palazzo; e così via nei millenni; e se infine uscisse di corsa dal portone estremo – ma non potrà avvenire mai, mai – si troverebbe davanti la capitale, l’ombelico del mondo, piena colma della sua feccia.»

Come se la fine del periodo sancita dal punto fermo non potesse avvenire; come se rimanesse sempre qualcosa in sospeso, o come se, lo svolgersi dei quadri, non portasse a nessuna significativa svolta. Il punto e virgola è qui, probabilmente, uno stato perenne dell’amministrazione delle cose per mantenere il consenso o per non fare esplodere il dissenso.

In appendice il testo con evidenziate in giallo le sostituzioni con i riferimenti alla Grande Muraglia.

Buona lettura.


Kafka5jahre«Il tratto più a ovest del tunnel della linea ferroviaria dovrebbe terminare per primo. La costruzione sarà eseguita da sud-est e sud-ovest e congiunta in questo punto. Questo sistema di costruzioni parziali fu adottato anche in piccolo entro i due grandi eserciti di lavoratori, quell’oriente e quello di occidente. Si procedeva così: si formavano gruppi di circa venti operai che dovevano erigere una parte dei lavori sulla linea lunga circa cinquecento metri, mentre un gruppo vicino costruiva incontro a loro un tratto di eguale lunghezza. Ma una volta raggiunto l’incontro, la costruzione non veniva continuata ai capi di questi mille metri; i gruppi di operai venivano invece spostati per la costruzione di un nuovo tratto in tutt’altri spezzoni anche molto lontani. Naturalmente in questo modo si formavano molte grandi lacune che vennero riempite lentamente a poco a poco, talune persino quando la costruzione era data per compiuta. Anzi, ci sarebbero ancora vuoti che non sarebbero mai colmati, ma può darsi che questa affermazione faccia parte delle numerose leggende intorno alla costruzione che il singolo, data l’estensione del lavoro, non può controllare coi propri occhi e con la propria misura.

Ora si dovrebbe presupporre che in ogni riguardo sarebbe stato più vantaggioso costruire di seguito o almeno di seguito entro i due tratti principali. Tanto è vero che, come corre voce e come è noto, la linea doveva servire per unire i popoli ai suoi estremi. Ma come può ben unire una linea che non sia costruita senza interruzioni? Anzi, una linea così non solo non può unire, ma la costruzione stessa è in continuo pericolo. Le parti di linea abbandonate in regioni poco frequentate possono sempre essere demolite con facilità dagli abitanti delle valli interne, tanto più che allora, quest’ultimi, espropriati dalla costruzione di questa grande opera, essi mutavano sede come cavallette con inconcepibile rapidità, e perciò avevano forse una migliore visione dei progressi del lavoro di quanto non l’avessimo noi costruttori. Ciò nonostante la costruzione non poteva probabilmente essere eseguita altro che così. Per rendersene conto bisogna considerare quanto segue: la linea doveva rispondere a requisiti molto elevati; il lavoro presupponeva pertanto assolutamente una costruzione accuratissima, lo sfruttamento delle esperienze architettoniche di tutti i tempi e di tutti i popoli conosciuti, il senso costante della personale responsabilità dei costruttori. Ai lavori più umili si potevano bensì adibire operai ignoranti presi dal popolo, uomini, donne, fanciulli, chiunque si offrisse contro un buon salario; ma già a dirigere quattro operai occorreva un uomo intelligente, esperto del mestiere, un uomo che fosse capace di sentire fino in fondo al cuore di che cosa si trattava. E quanto più elevato il lavoro, tanto maggiori le pretese, naturalmente. Uomini così ce n’erano effettivamente a disposizione, anche se non tanti quanti questa costruzione ne potesse utilizzare, sempre però in buon numero. L’opera non era stata intrapresa con leggerezza. Anni prima di cominciarla si era dichiarato, in tutto il paese, che doveva essere fatta, che l’architettura e in particolare il mestiere del carpentiere erano le scienze più importanti e che tutto il resto era ammesso solo in quanto era in rapporto con quelle. Ricordo ancora benissimo che da bambini, appena saldi sulle gambe, eravamo nel giardino del nostro maestro e dovevamo costruire una specie di tunnel e che il maestro reggendo i lembi della veste corse contro il nostro lavoro, facendo crollare naturalmente tutto e ci rimproverò per la debolezza della costruzione, così aspramente che scappammo piangendo di qua e di là, cercando rifugio presso i genitori. Episodio minimo, ma significativo per lo spirito di quel tempo.

Io fui fortunato perché la costruzione della linea ebbe inizio esattamente quando a vent’anni ebbi dato l’ultimo esame della scuola di base. Dico fortunato perché molti altri, avendo raggiunto prima il gradino supremo dell’istruzione a loro accessibile, stettero per anni senza saper che fare della loro scienza e pur avendo in testa i più grandiosi progetti edilizi vissero inutilmente e in grande numero andarono in perdizione. Quelli invece che finalmente presero parte alla costruzione, sia pure con assistenti di infimo grado, ne erano veramente degni. Erano carpentieri che avevano riflettuto a lungo sulla costruzione e non cessavano di pensarci e si sentivano, per così dire, legati alla prima pietra che segnava l’inizio dei lavori. Naturalmente, però, quei lavoratori erano spinti, oltre che dal desiderio di fare un lavoro accuratissimo, anche dall’impazienza di vedere sorgere finalmente la costruzione perfetta. L’operaio a giornata non conosce questa impazienza, è stimolato soltanto dal salario; i capi superiori e persino quelli medi vedono abbastanza il crescere della molteplice fabbrica perché ne possano trarre vigore e coraggio. Ma per gli inferiori, uomini che per intelligenza stanno molto al di sopra dei loro compiti esteriormente piccoli, bisognava provvedere diversamente. Non si poteva pretendere, per esempio, che in una regione di montagna disabitata, a centinaia di miglia dalla loro residenza, stessero per mesi o magari anni a collocare pietra su pietra; la desolazione di un siffatto lavoro assiduo, ma lontano dalla meta persino per il tempo di una generazione, li avrebbe resi disperati e soprattutto meno validi alla fatica. Perciò fu scelto il sistema delle costruzioni parziali. Cinquecento metri si potevano portare a termine in circa cinque anni, dopo di che, è vero, i capi erano di solito esauriti e avevano perduto ogni fiducia in sé, nella costruzione, nel mondo. Perciò venivano spediti lontano, mentre erano ancora negli entusiasmi per le feste del raccordo dei mille metri; e così vedevano durante il viaggio sorgere qua e là tratti di linea compiuti, passavano davanti a quartieri di capi superiori che donavano loro qualche onorificenza, udivano l’esultanza di nuove masse di lavoratori che accorrevano dall’interno dei paesi, vedevano abbattere boscaglie destinate alle armature per i tunnel, udivano nei luoghi sacri i canti dei devoti che pregavano per il compimento dell’opera. Tutto ciò calmava la loro impazienza. La vita tranquilla del loro paese dove trascorrevano qualche tempo dava loro novello vigore, l’autorità di cui godevano tutti gli addetti alla costruzione, la fiduciosa umiltà con cui erano ascoltate le loro notizie, la fiducia che il cittadino semplice e tranquillo riponeva nel futuro compimento della linea, tutto ciò contribuiva a tenere tese le corde dell’anima. Come fanciulli animati da perpetua speranza prendevano poi commiato dal luogo natale, la smania di riprendere il lavoro all’opera del popolo diventava incoercibile. Partivano da casa prima che fosse necessario, metà del villaggio li accompagnava per lunghi tratti. Per tutte le strade crocchi, vessilli, bandiere: non avevano mai visto quanto fosse grande e ricco e bello e amabile il loro paese. Ogni contadino era un fratello per il quale si costruiva l’opera e per tutta la vita egli era grato con tutto ciò che era e possedeva. Unione, unione! Spalla a spalla, una danza di popolo, il sangue non più imprigionato nel meschino circolo delle membra, ma scorrente con dolcezza e con perpetuo ricorso attraverso il paese tutto.

Così dunque diventa comprensibile il sistema delle costruzioni parziali; ma probabilmente c’erano anche altre ragioni. E non è una stranezza se mi soffermo così a lungo su questo problema: è un problema fondamentale della costruzione dell’opera, per quanto a prima vista sembri poco importante. Volendo comunicare e rendere comprensibile il concetto e le esperienze di quel tempo, non potrò mai addentrarmi abbastanza proprio in questo quesito.

Anzitutto bisognerà rendersi conto che allora si compirono lavori di poco inferiori alla costruzione della Torre di Babele, mentre per devozione religiosa rappresentano, almeno secondo il criterio umano, esattamente il contrario di questa fabbrica. Ne parlo perché nei primi tempi del lavoro uno scienziato scrisse un libro nel quale tracciava con molta precisione questi paragoni. Egli cercava di dimostrare che la Torre di Babele non era arrivata a compimento non già per le ragioni che tutti adducono, o che, almeno, tra queste ragioni conosciute non ci sono le primissime. Le sue prove non consistevano soltanto in documenti scritti e tradizioni, ma egli pretendeva di aver fatto indagini sul posto e di aver trovato che la costruzione fallì e doveva fallire per la debolezza delle fondamenta. In questo punto bisogna dire che il nostro tempo era molto superiore a quell’epoca passata. Quasi ogni contemporaneo colto era muratore di mestiere e infallibile nei problemi delle fondamenta e delle strutture. Ma lo scienziato non mirava a questo, asseriva invece che soltanto questa grande opera avrebbe dato per la prima volta nella storia dell’umanità le fondamenta sicure per una nuova Torre di Babele. Prima dunque il grande tunnel e il resto della linea e poi la Torre, poi forse, ad esempio, un grande ponte. Il libro correva allora tra le mani di tutti, ma confesso che nemmeno oggi riesco a capire esattamente come egli si figurasse la costruzione di questa torre. Il muro che non formava neanche un cerchio, ma soltanto una specie di semicerchio o di quarto di cerchio doveva costituire le fondamenta di una torre? Ciò poteva essere inteso soltanto in senso figurato. A che scopo allora il lungo tunnel che pure era una cosa tangibile, il risultato della fatica e della vita di migliaia? E perché nel libro vi erano disegnati progetti, sia pure nebulosi, della torre e si erano fatte proposte particolareggiate sul modo di radunare le energie del popolo della nuova potente opera?

C’era allora – quel libro ne è soltanto un esempio – molta confusione nei cervelli, forse appunto perché tanta gente cercava di concentrarsi possibilmente su un unico fine. La creatura umana che ha un fondo di leggerezza ed è affine alla polvere che si solleva nell’aria, non tollera catene; quando lega se stessa comincerà dopo un poco a scuotere follemente i ceppi e smembrerà ai quattro venti il tunnel, le catene e se stessa.

Può darsi che queste considerazioni, magari contrarie alla costruzione del tunnel, non siano state trascurate dai dirigenti nel decidere le costruzioni parziali. Noi – qui parlo in nome di molti – abbiamo conosciuto noi stessi soltanto nel compitare le disposizioni della direzione suprema e abbiamo visto che senza la sua guida, né la nostra filosofia, né il nostro umano intelletto sarebbero stati sufficienti per l’umile ufficio che ci era affidato nell’insieme dell’opera. Nella sede della direzione – nessuno sa e nessuno di quelli che interrogai sapeva dove fosse e chi ospitasse – in quella sede penso che circolassero tutti i pensieri e desideri umani e in cerchi opposti tutte le mete e le soddisfazioni dell’uomo. Il riverbero dei mondi divini entrava però dalla finestra e illuminava le mani dei dirigenti che stavano disegnando progetti.

Perciò l’osservatore obbiettivo non riesce a capacitarsi come i dirigenti, se l’avessero voluto seriamente, non avrebbero potuto vincere anche le difficoltà che ostacolavano la costruzione unitaria del tunnel. Rimane dunque soltanto la conclusione che i dirigenti abbiano voluto loro le costruzioni parziali. Queste, però, erano soltanto un ripiego inadeguato allo scopo. E non ci resta che dedurre che la direzione abbia voluto qualcosa di inadeguato allo scopo. – Strana deduzione! Eppure da un altro lato è in qualche modo giustificata. Oggi se ne può forse parlare senza pericolo. Allora per molti, anzi per i migliori vigeva questo principio riservato: Cerca di comprendere con tutte le tue forze le disposizioni dei dirigenti, ma soltanto fino a un determinato limite e poi smetti di pensarci. Principio molto ragionevole che d’altro canto trovava un altro commento in una similitudine che più tardi fu spesso ripetuta: Cessa di pensarci, non perché te ne potrebbe derivare danno; non è neanche certo che ne avrai danno. In genere qui non si può discorrere di danno o non danno. Ti accadrà come al fiume in primavera. Esso aumenta, ingrossa, alimenta con maggiore energia le terre sulle sue lunghe rive, mantiene la propria natura dentro al mare ed è sempre più pari e benvenuto al mare. – Fin qui rifletti sulle disposizioni dei dirigenti. Dopo però il fiume straripa, perde forma e contorni, rallenta il corso in discesa, tenta di formare, contrariamente alla sua missione, piccoli mari nell’entroterra, danneggia i campi, eppure non può mantenersi sempre così largo, ma rientra nelle sponde, anzi nella successiva stagione calda si prosciuga miseramente. – Fin qui non riflettere sulle disposizioni dei dirigenti.

Ora questo paragone può essere stato molto calzante durante la costruzione della grande opera, ma per ciò che sto raccontando è, diciamo pure, soltanto parzialmente valido. Il mio studio è puramente storico; dalla nuvolaglia temporalesca squagliatasi da un pezzo non guizza più alcuna folgore e perciò posso cercare una spiegazione delle costruzioni parziali che vada oltre il punto del quale ci si accontentava allora. I limiti che la mia capacità di pensiero mi impone sono già abbastanza ristretti, mentre il territorio che ci sarebbe da attraversare è illimitato.

Quale doveva essere lo scopo della grande opera? Alcuni dicevano, ad esempio, a velocizzare i trasporti di uomini e cose in una parte strategica del continente. Ma si dà il fatto che il traffico su quella direttiva era già da anni prima dell’inizio dei lavori tendenzialmente in ribasso e che ogni ulteriore tentativo di giustificare l’occorrenza dell’opera si fosse fin dall’inizio dimostrato illogico se non contro producente.

Stando così le cose perché abbandoniamo i nostri luoghi, il fiume e i ponti, il padre e la madre, la moglie piangente, i figli bisognosi d’imparare e non ce ne andiamo a scuola nella città lontana e i nostri pensieri sono ancora più lontani presso il lato ovest della grande opera? Perché?  Domandalo ai dirigenti che ci conoscono. Essi che vivono sotto il peso di enormi preoccupazioni sono informati di noi, conoscono il nostro piccolo artigianato, ci vedono tutti raccolti nell’umile capanna e apprezzano o ripudiano la preghiera che il padre di famiglia recita la sera nella cerchia dei suoi. E se mi è lecito formulare questo pensiero sul conto dei dirigenti, devo dire che, secondo la mia opinione, la direzione esisteva già prima, e non si è raccolta come, poniamo, i grandi affaristi che spinti da un bel sogno mattutino, convocano una seduta in tutta fretta, in tutta fretta decidono e già in serata fanno uscir dal letto la popolazione perché eseguisca le deliberazioni, anche se si tratta soltanto di organizzare una luminaria in onore di un dio che il giorno prima si è mostrato favorevole a quei signori per bastonarli all’indomani, non appena siano spente le lanterne, in qualche angolo buio. La direzione deve esserci sempre stata e così pure la decisione di costruire il tunnel. Quale che siano le ragioni addotte all’utilità dell’opera e quelle di coloro che l’avevano approvata, noi addetti alla costruzione pensiamo diversamente e stiamo zitti.

Già allora durante la costruzione e, in seguito, fino ad oggi mi sono dedicato quasi esclusivamente alla storia comparata dei popoli – ci sono certi problemi che soltanto con questo mezzo si possono affrontare, per così dire, nel punto nevralgico – e ho scoperto che noi possediamo certe istituzioni popolari e statali di singolare chiarezza, altre invece di singolare oscurità. Io ho sempre avuto la smania, e l’ho ancora, di indagare le ragioni, specialmente di quest’ultimo fenomeno, e anche la costruzione del tunnel fa parte essenziale di questi problemi.

Ora, una delle nostre istituzioni più oscure è certamente lo stato. Si sa, nella capitale, soprattutto nella società più vicina al governo, regna una certa chiarezza, anche se questa è più apparente che reale. Anche i maestri di diritto civile e di storia nelle scuole superiori affermano di essere bene informati intorno a queste cose e di saper trasmettere queste nozioni agli studenti. Quanto più si scende verso le scuole inferiori, tanto più scompaiono, e si capisce, i dubbi intorno al proprio sapere, e la falsa cultura impera baldanzosa intorno a pochi teoremi radicati da secoli che non hanno perduto nulla della loro verità eterna, ma in questi vapori e in questa nebbia rimangono anche eternamente sconosciuti.

Abbiamo sempre avuto bisogno di una figura carismatica come un fondatore della patria, un padre della patria e ne abbiamo creati molti. Oltreché alle divinità rurali e al loro culto che vario e bello dura tutto l’anno, il nostro pensiero sarebbe così rivolto soltanto al padre della patria. Ma non a quello presente o, diciamo meglio, sarebbe rivolto a quello presente se l’avessimo conosciuto o sapessimo qualcosa di preciso sul suo conto. Abbiamo sempre cercato, è vero – unica nostra curiosità – di sapere qualcosa del genere, ma, per quanto sembri strano, è stato quasi impossibile apprendere qualcosa, sia dal pellegrino che attraversa vaste regioni, sia nei villaggi vicini o lontani, sia dai naviganti che pur non percorrono soltanto i nostri fiumiciattoli, ma anche i sacri corsi d’acqua. Si udirono molte cose, ma non se ne poté ricavare nulla.

Per quanto grande possa essere il nostro paese, non c’è fiaba che raggiunga la sua vastità. La capitale è soltanto un punto. Certo, il padre della patria come tale è grande su tutti i piani del mondo, ma il padre della patria vivente, uomo come noi, si corica suppergiù come noi su un divano che sarà di misure abbondanti, ma potrebbe essere tuttavia stretto e corto. Come noi, anche lui stende talvolta le membra, è molto stanco e sbadiglia con la bocca leggiadra. Ma noi che stiamo lontani come potremmo averne notizia? D’altro canto ogni notizia, ammesso che ci raggiunga, arriverebbe con grande ritardo e sarebbe antiquata da un pezzo. (…) La patria è immortale, ma i singoli rappresentanti di essa cadono e crollano continuamente. Di queste lotte e di questi dolori il popolo non saprà mai niente; come un gruppo di ritardatari o di forestieri esso si accalca allo sbocco delle vie traverse consumando tranquillamente le provviste portate con sé, mentre nella piazza centrale si sta giustiziando il suo sovrano.

C’è una leggenda che esprime molto bene questo rapporto. Il padre della patria, dice, ha mandato proprio a te, individuo, a te, misero suddito, ombra minuscola rifugiatasi dal sole del padre nella più remota lontananza, proprio a te il padre della patria ha mandato dal letto di morte un suo messaggio. Ha fatto inginocchiare il messaggero accanto al letto e gli ha sussurrato il messaggio; tanto ci teneva che se lo fece ripetere in un orecchio. Con un cenno del capo confermò l’esattezza delle parole. E davanti a tutti i presenti alla sua morte – si abbattono tutte le pareti che sono di ostacolo e i grandi del regno stanno in cerchio sugli scaloni esterni che salgono alti ad arco – davanti a tutti licenziò il messo. Questi si mise subito in viaggio; era un uomo robusto e instancabile; sporgendo ora un braccio, ora l’altro si fa strada attraverso la folla; se incontra resistenza mostra il petto dove porta il simbolo del sole; e procede veloce come nessun altro. Ma la folla è così vasta! Delle sue abitazioni non si vede la fine. Se avesse libero il campo, volerebbe e subito udiresti il chiaro stamburare dei suoi pugni alla tua porta. Invece si affanna per nulla; ancora si sforza di attraversare le stanze più interne del palazzo; non le potrà superare mai; e se vi riuscisse, non sarebbe niente di guadagnato; dovrebbe lavorare di gomiti per scendere le scale; e se anche potesse farlo, non avrebbe alcun vantaggio; dovrebbe attraversare i cortili; e dopo i cortili il secondo palazzo che li racchiude; e ancora scale e ancora cortili; e un altro palazzo; e così via nei millenni; e se infine uscisse di corsa dal portone estremo – ma non potrà avvenire mai, mai – si troverebbe davanti la capitale, l’ombelico del mondo, piena colma della sua feccia. Qui nessuno può passare, men che meno col messaggio di un morto. – Tu invece, seduto davanti alla finestra, te lo sogni quando scende la sera.

Esattamente così, senza speranze e pieno di speranze, il nostro popolo vede il padre della patria. Non sa quale di tutti i possibili padri della patria sia in carica in quel momento. A scuola si imparano molte di queste cose in fila, ma l’incertezza universale è così grande che anche il miglior alunno ne è assorbito. Padri della patria defunti da molto tempo vengono insediati nei nostri villaggi e quello che vive soltanto nelle canzoni ha diramato poco fa una comunicazione che il sacerdote legge davanti all’altare. Battaglie della nostra storia antica sono combattute soltanto ora e il vicino tutto acceso in volto te ne reca la notizia. Le concubine delle corti dei padri della patria, impinguate tra cuscini di seta, allontanate dai nobili costumi per opera di cortigiani astuti, gonfie della loro smania di dominio, eccitate dal desiderio, affondate nella lussuria, continuano a commettere i loro misfatti. Quanto più passa il tempo, tanto più paurosi brillano i colori, e tra alte strida di dolore un giorno il villaggio viene a sapere che anni prima la compagna di un padre della patria ha bevuto a lunghi sorsi il sangue di suo marito.

Così dunque il popolo procede coi padri della patria passati e mescola i presenti coi morti. Se una volta, una volta sola nel giro di una generazione, un funzionario governativo viaggiando nella provincia arriva per caso nel nostro villaggio, avanza qualche pretesa da parte dei governanti, controlla la lista dei contribuenti, assiste alle lezioni scolastiche, interroga il prete intorno alla nostra attività e prima di rimontare nel palanchino riassume ogni cosa in ampie raccomandazioni alla popolazione radunata per forza, allora tutti i visi s’illuminano di un sorriso e i presenti si scambiano sguardi furtivi e si chinano verso i bambini per non farsi scorgere dal funzionario. Come? Pensano, parla di un morto come fosse vivo, questo padre della patria è morto da un pezzo, il signor funzionario ci prende in giro, ma per non mortificarlo facciamo finta di non accorgerci. Soltanto al padre della patria presente obbediremo sul serio, poiché ogni altra cosa sarebbe peccato. E dietro al palanchino del funzionario che si allontana uno che è uscito dall’urna ormai decomposta si alza arbitrariamente e pestando i piedi si dichiara padrone del villaggio.

Similmente i nostri sono per solito colpiti poco da rivoluzioni politiche, da guerre contemporanee. Rammento un fatto accaduto nella mia giovinezza. In una provincia vicina, ma sempre notevolmente lontana era scoppiata una rivolta. Non ne ricordo più le cause, ma qui non hanno importanza. Motivi di rivolta si presentano là ogni mattina, il popolo è irrequieto. Un giorno arrivò in casa di mio padre un accattone che aveva attraversato la provincia e recò un manifesto dei ribelli. Era un giorno di festa, la nostra casa era piena di ospiti e il sacerdote seduto in mezzo a loro si mise a scorrere il foglio. A un tratto tutti scoppiarono a ridere, nella confusione il foglio venne stracciato, il mendicante che aveva già ricevuto doni abbondanti fu cacciato fuori a spintoni, tutti si dispersero per godersi la bella giornata. Come mai? Ecco, il dialetto della provincia vicina è assai diverso dal nostro, e ciò si esprime anche in certe forme della lingua scritta che per noi hanno un carattere antiquato. Non appena il sacerdote ebbe letto due di quelle pagine, tutti avevano ormai giudicato: roba vecchia, sentita da un pezzo, superata ormai. E quantunque – così mi par di ricordare – una vita orribile parlasse per bocca del mendico un linguaggio inconfutabile, tutti scossero la testa ridendo e non vollero sentire altro. Così siamo disposti a cancellare il presente

Se da questi fenomeni si volesse argomentare che in fondo non abbiamo nessun padre della patria, non si sarebbe molto lontani dal vero. Continuamente devo ripetere: non esiste, penso, alcun popolo così fedele al padre della patria come il nostro mezzogiorno, ma questa fedeltà non è a vantaggio del padre della patria. (…) Può forse esistere un villaggio con le case addossate che coprono i campi, dove lo sguardo spazia più lontano che dai nostri colli, e tra quelle case ci sia di giorno e di notte una folla di persone assiepate? Più facile che immaginare una città di questo genere è per noi credere che la capitale e il padre della patria siano una cosa sola, per esempio una nuvola che con l’andar del tempo si trasforma lentamente sotto il sole.

La conseguenza di queste opinioni è una vita, diremo così, libera e senza padroni. Non già immorale, poiché nei miei viaggi posso dire di non avere mai trovato una purezza di costumi come nel mio luogo natio. Una vita però, che non sottostà ad alcuna legge presente e obbedisce soltanto agli ordini ed ai moniti che ci vengono dai tempi antichi.

Io mi guardo dal generalizzare e non sostengo che sia così in tutti i villaggi della nostra provincia. Ma in base alle opere che ho lette su quest’argomento e alle mie osservazioni personali – specialmente nella costruzione della grande opera il materiale umano offriva all’osservatore intelligente l’occasione di addentrarsi nell’anima di quasi tutte le province – in base a tutto ciò potrò dire che il concetto che si ha del padre della patria rivela sempre e dappertutto un certo tratto comune al concetto che se ne ha nel mio paese natio. Io non voglio però far passare questo concetto per una virtù, tutt’altro. È vero che la colpa ne va attribuita anzitutto al governo che nel più antico regno della terra non è stato capace fino ad oggi o, sviato da altre cose, ha trascurato di sviluppare l’istituzione dello stato a tale chiarezza da renderla efficace direttamente e senza posa fino alle più lontane frontiere dello stato. D’altro canto però vi si manifesta anche una debolezza dell’immaginativa o della fede del popolo il quale non arriva a trarre la patria dall’ombra della capitale e a stringerla in tutta la sua vivacità e presenza al proprio petto che in fondo non chiede di meglio che di sentire una volta questo contatto e di perdervisi.

Dunque, questo concetto non è certo una virtù. Tanto più va rilevato che proprio questa debolezza è uno dei mezzi più importanti per tenere unito il nostro popolo; anzi, se si può arrischiarsi a usare quest’espressione, è addirittura il terreno sul quale viviamo. Motivare ampiamente a questo punto un rimprovero significa scrollare non la nostra coscienza, ma, cosa molto peggiore, le nostre fondamenta. Perciò, almeno per ora, non voglio proseguire nello studio di questo problema.»

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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