Fuorimercato: dai valori di scambio allo scambio dei valori

Nell’ambito delle reti dei movimenti, si è recentemente aperto un dibattito che ha per oggetto la pensabilità e la praticabilità di un’organizzazione sociale altra e parallela rispetto a quella vigente. Il punto di partenza di tale ricerca è stata la constatazione piuttosto frustrante riguardo la scarsa rappresentatività generale di un progetto di organizzazione-altra della convivenza umana, per la verità talvolta abbastanza confuso per gli stessi promotori. In effetti questo progetto né si è imposto all’ordine del giorno del dibattito sociale, né è riuscito a definirsi in chiari termini teorici, né ha trovato il modo di tradursi in forme concrete. Forse oggi siamo in condizione di andare oltre questi limiti.

Partiamo dalla base. Un’organizzazione sociale può essere descritta in vari modi, ad esempio come insieme coordinato di un certo numero di processi sociali che sviluppano la loro dinamica secondo modalità ispirate alle concezioni dominanti. Se prendiamo in considerazione il processo economico nell’attuale periodo storico, schematizzando molto si può affermare che esso si sviluppa in ogni fase (produzione, circolazione, ecc.) applicando pratiche e dispositivi orientati all’ottenimento dell’utile individuale e configurando come merci sia i prodotti (materiali o immateriali) che i servizi. Anche il processo culturale, a prescindere dall’ambito che investe (ricerca scientifica, espressione artistica, elaborazione teorica, ecc.), tende comunque a seguire lo stesso tracciato di svolgimento. In altri processi si applicano invece procedure specifiche come quella della democrazia rappresentativa e delegata per il processo politico, ecc. Ma ciò che è comune a tutti i processi è la riconoscibile coerenza di senso degli istituti e delle modalità nelle quali si articola il loro flusso.

fuorimercatoDa questo punto di vista, una concezione radicalmente alternativa non riesce a definire e a valorizzare un modello-altro se non sostituisce istituti e dispositivi di quello dominante con altri in evidente relazione con il proprio diverso orientamento. Si tratta di una considerazione addirittura banale. Rimanendo nella sfera economica, è ben per questo motivo che viene giustamente sottolineata la carica innovativa dell’agricoltura contadina attuata nel rispetto della biodiversità, dell’equilibrio ecologico del territorio, della sua salvaguardia, ecc. Non c’è dubbio che tali pratiche, ove non inserite in una strategia di green business, rappresentino una critica quanto mai concreta del modello dominante e dei suoi fondamenti. Inoltre, esperienze come quella di Mondeggi che dichiarano il territorio Bene Comune e costruiscono una relazione conseguente con l’ambiente naturale e sociale, intraprendono percorsi reali in contraddizione assoluta con quelli capitalistici egemoni. Connotati di alterità, seppure a livelli diversi, si possono reperire anche nella produzione e nella (auto)gestione in molte esperienze anche differenti dalla tipologia mondeggina, come nel caso delle Comuni, degli eco-villaggi, delle occupazioni urbane (immobili sfitti, centri sociali, ecc.). Si tratta di un panorama variegato che opera concretamente in termini spesso radicalmente differenti da quelli imposti dall’ideologia dominante, seguendo percorsi di oggettiva de-valorizzazione del modello capitalistico.

E tuttavia, se tali percorsi non ricostruiscono sulle nuove basi la traiettoria completa dei processi sociali (o almeno di alcuni di essi), l’obiettivo generale della critica pratica alle forme egemoni della struttura sociale viene completamente mancato. Sempre considerando il processo economico, se si caratterizza la sua fase produttiva con tecniche, motivazioni e rapporti dal significato fortemente anti-capitalistico, quindi suscettibili di instaurare relazioni equilibrate con l’ambiente naturale e mutuali con l’ambiente sociale; ma poi si fa confluire la produzione così de-mercificata sul mercato capitalistico delle merci scambiandola con moneta-debito, è evidente che si riattiva la valorizzazione del modello dominante di quel processo. Il fatto che nel mercato venga ostentatamente occupato uno spazio “polemico”, una nicchia dichiarata “alternativa”, non inibisce l’operatività (tanto fattuale che simbolica) dei dispositivi imperanti, nella fattispecie quelli basilari della mercificazione e della monetarizzazione del prodotto. La percezione comune, anche quella più avvertita, si formerà allora l’idea – abbastanza corretta, dati gli elementi di analisi a disposizione – che il processo economico capitalistico, magari dovrebbe essere regolamentato per renderlo più compatibile con l’ambiente e gli interessi collettivi, ma fondamentalmente non presenta alternative strutturali possibili se perfino chi lo contesta con forza ne riproduce lo schema costitutivo. La critica serrata al modello egemonico, operata nella fase produttiva e gestionale del processo, si risolve alla fine in un suo oggettivo ritorno in valore, in un rafforzamento della sua legittimazione e dunque della sua preminenza, una volta entrati nella fase della circolazione.

Non si intende qui negare il valore delle scelte e dei comportamenti che negli ultimi decenni hanno avuto l’indiscutibile merito di allargare a dismisura l’orizzonte della riflessione collettiva e la complessità dei suoi riferimenti. Un esempio emblematico è fornito dalla protesta ecologista che ha innalzato di molto il livello della consapevolezza generale. Nondimeno l’idea francamente ingenua che il problema non sia lo sviluppo capitalistico in sé ma l’assenza di un controllo che ne garantisca la sostenibilità, continua a godere di notevoli consensi. Anche quest’ultima osservazione ci porta in definitiva a ribadire il concetto espresso: una ristrutturazione dei processi sociali che non ne coinvolga l’intero arco di sviluppo, cioè che limiti la realizzazione delle proprie istanze innovative ad alcune fasi del processo, non incide in termini significativi (neanche in prospettiva) sugli assetti consolidati anzi, paradossalmente, finisce per valorizzarli promuovendone una forma più sostenibile e quindi più adatta alla loro riproduzione. Un’alterità segmentale di questo tipo che investe solo alcuni momenti di quei processi, è forse in grado di alludere a un progetto di socialità-altra ma non di prefigurarlo, né di costituire una soluzione eleggibile per il disagio sociale pur così ampiamente diffuso. Va infatti evidenziato che la ristrutturazione solo parziale del processo economico non riesce a rispondere a tale disagio né per l’aspetto materiale, perché normalmente implica un aggravio dei costi per il consumatore e ancor più per il produttore; né per quello etico-culturale perché, come abbiamo notato, non si traduce in una mutazione decisiva del modello dato e dei suoi fondamenti, quindi non riesce a liberare una diversa prospettiva e il ricco potenziale di relazioni sociali non utilitaristiche che vi è connesso.

Nasce da qui la necessità di un’iniziativa dei movimenti che punti alla costituzione di uno spazio sociale nel quale reti locali e sovra-locali possano connettersi costruendo processi economici, politici, culturali i cui percorsi di sviluppo siano interamente distaccati dagli istituti e dai dispositivi capitalistici. Reti nelle quali la configurazione dei processi e di ogni loro fase sia conseguente con il sistema di significati e l’orizzonte di senso di cui i movimenti di contestazione radicale sono promotori. Per quanto concerne il processo che abbiamo sinora seguito più attentamente, ovvero quello economico, si tratta di estendere la contestazione pratica al modello dominante dimettendone le pratiche di scambio basate sulla libera espressione della dialettica domanda-offerta e abolendo lo strumento monetario ufficiale. Ovvero di costruire uno spazio autogestito, strutturalmente distinto e parallelo rispetto a quello ufficiale, nel quale sviluppare processi sociali tendenzialmente autonomi rispetto all’esistente per tutta la traiettoria del loro sviluppo. Uno spazio nel quale lo scambio diretto e differito sia realizzabile utilizzando uno strumento monetario che non rappresenti né debito né deposito di valore, ma soltanto il mezzo per commisurare i termini di un’interazione umana e per registrarla. Un simile scenario richiama infatti l’esigenza di una ridefinizione della strumentazione legata allo scambio economico, ovvero un progetto di “de-monetarizzazione” dello scambio sul quale si sta da qualche tempo lavorando. Appare infatti evidente l’assoluto anacronismo della moneta ufficiale in un circuito strutturalmente altro che necessita di uno strumento rispondente alle esigenze non di controllo/comando sociale e di incremento della rendita consentita al suo possesso eccessivo, bensì di regolazione delle relazioni di scambio comunitario tra co-attori non più individualisti e utilitaristi.

Nei sistemi locali, i cosiddetti LETS (local exchange trading system), tale funzione è stata ed è svolta dalle monete complementari ma anche dal tempo. Tali sistemi vantano ormai una certa tradizione tanto in Italia che altrove, ma in genere presentano tutti dei limiti che hanno a che fare con lo scarso numero e una certa uniformità sociologica dei soggetti coinvolti, con la marginalità economica delle competenze e degli oggetti scambiati, con l’assenza di una prospettiva esplicitamente innovativa. Se poi si considera che, soprattutto nel nostro Paese, questi spazi di interazione socio-economica spesso sono stati allestiti per rispondere a bisogni relazionali o riguardanti la cosiddetta “economia del quotidiano” che il mercato non può né trova conveniente soddisfare, si capisce come sovente ci si muova in una prospettiva di sussidiarietà, insomma che si tenda (soprattutto in caso di gestione istituzionale del circuito) a tamponare le falle interstiziali del sistema esistente più che a costruirne uno alternativo. Da questo punto di vista, rifarsi a esperienze precedenti potrebbe dimostrarsi di non molto aiuto.

All’inizio dicevamo del dibattito apertosi all’interno delle reti della contestazione sociale. Nell’ultimo incontro nazionale di Genuino Clandestino (una rete di movimenti legati alla terra) tenutosi recentemente a Vicenza, un tavolo tematico ha proposto l’organizzazione di nodi distributivi, cioè di centri logistici in grado di facilitare la circolazione dei prodotti della coltivazione biologico-contadina e di alcune loro trasformazioni artigianali. Uno di detti nodi è in realtà da tempo operativo nella zona a sud-ovest di Milano ed è frutto della collaborazione tra realtà diverse come la fabbrica recuperata e autogestita RiMaflow e la cooperativa calabrese SOS Rosarno che riunisce solidarmente coltivatori e migranti. L’incontro attivamente ricercato tra questa esperienza, alcuni GAS milanesi e GC, ha appunto prodotto Spazio Fuorimercato che si propone come piattaforma logistica autogestita per la costruzione di percorsi distributivi alternativi a quelli della Grande Distribuzione Organizzata. L’idea è quella di puntare all’insediamento di una o più reti comunitarie locali e sovra-locali nelle quali i produttori insieme ai consumatori autogestiscano i bisogni di entrambi e le modalità della loro soddisfazione, costruendo filiere ove possibile totalmente indipendenti dai circuiti tradizionali. Lo si è già accennato, ma conviene sottolineare come tali filiere non riguardino solo il settore agricolo. Nell’assise vicentina sono stati esplicitamente citati casi di filiere industriali complete già in condizione di essere inserite in circuiti autonomi e paralleli rispetto al mercato ufficiale e lo stesso si potrebbe dire delle filiere di servizi come le cucine popolari o le scuole autogestite che vantano ormai una certa tradizione extra-istituzionale.

In termini più espliciti e generali significa che la produzione contadina rispondente a criteri anti-capitalistici ben definiti – come la piccola scala, la coltivazione biologica, l’assenza di sfruttamento della manodopera, ecc. – si può scambiare con altri prodotti o servizi rispondenti a criteri consimili, indipendentemente dai circuiti e dagli strumenti (tipicamente quelli monetari) ufficiali e dalla loro modalità di attribuzione del valore. In questa dimensione, lo spazio sociale dello scambio (non solo economico) non costituisce il terreno di manifestazione della dialettica competitiva tra i valori di scambio delle merci, ma l’area nella quale si intreccia lo scambio mutuale dei valori d’uso prodotti da coloro che la definiscono e la auto-gestiscono.

Come segnalato dai promotori dell’iniziativa, questa prospettiva implica un riassetto non solo economico, ma anche culturale dell’impianto sociale che si intende sperimentare. Insomma una “sovversione cognitiva” (prendendo a prestito una locuzione di Latouche) che investa i codici linguistici, le motivazioni individuali, gli obiettivi sociali, gli orizzonti di senso, ecc. Una sorta di mutazione socio-culturale che appare sempre più matura e talvolta realizzata in spezzoni di iniziative che occorre mettere in relazione sistemica consapevole, per liberarne la capacità di valorizzare un modello-altro di aggregazione umana. Non si tratta di redigere il libro dei sogni o di rilanciare ideologicamente la posta politica: la proposta costruita dalla confluenza di una pluralità di apporti manifestatisi negli ultimi mesi e che ha occupato il dibattito del tavolo vicentino, è certamente molto avanzata ma tutta interna alle domande provenienti da settori di movimento radicati nei territori e alle risposte che si stanno (talvolta da tempo) cominciando a formulare concretamente.

*Francesco Valente, Mondeggi Bene Comune