Problemi in Paradiso

Il titolo del libro di Slavoj Žižek, Problemi in Paradiso, fa riferimento da una parte all’omonimo film di Lubitsch, dall’altra al luogo che dovrebbe essere il mondo alla fine della storia predetta da Fukuyama. Dovrebbe, perché con l’ottica presa a prestito da Alain Badiou e che quest’ultimo chiama l’«ipotesi comunista», si possono trovare innumerevoli crepe nella struttura paradisiaca che la fine della storia ci avrebbe dovuto consegnare. La fine della storia – per Fukuyama – coincide con il fatto che il capitalismo liberal-democratico dovrebbe essere il migliore degli ordini sociali possibili. Giunti a quel punto gli uomini dovrebbero, salvo gli ultimi aggiustamenti, trovarsi in un meritato paradiso.

problemi-in-paradisoIl libro è diviso in 5 capitoli così strutturati: 1) diagnosi: nel quale si indagano le coordinate del sistema capitalistico; 2) cardiognosi: l’ideologia che lo fa apparire desiderabile; 3) prognosi: verifica delle aperture e vie di uscita, come anche uno sguardo al futuro che ci attende se le cose rimanessero nello stesso modo; 4) epignosi: qualcosa che ha da vedere con la consapevolezza e quindi una riflessione sui soggetti e sulle forme organizzative inerenti la lotta per l’emancipazione; 5) conclusione: quasi in appendice, che guarda all’impasse in cui questa lotta si può trovare.

Ora, la lettura critica (o diagnosi) dell’attuale fase capitalista non viene portata avanti in termini assoluti, ma con uno sguardo filtrato appunto dai rapporti di classe che l’attuale situazione determina. La disoccupazione che è consustanziale alla dinamica di accumulazione del capitale per la quale il raggiungimento di un’alta produttività, potrebbe portare a una diminuzione del lavoro vivo, ma che si manifesta invece con la messa in esubero di una massa sempre più grande di individui caratterizzati anche da un buon livello di scolarizzazione. Con l’idiozia che vorrebbe quest’ultima subordinata alle esigenze di mercato che invece, di fatto, la rende “obsoleta”. Situazione che marcherebbe un possibile vantaggio se per esempio il livello di istruzione incidesse – come è probabile – sulle aspettative che influiscono sulla capacità di ribellione delle persone: «La gente non si ribella quando le cose “vanno davvero male”, ma quando le sue aspettative vengono deluse» (p. 28). D’altra parte la dinamica stessa del capitale ha bisogno sia di lavoratori da impiegare così come di un esercito di riserva, che non sarebbe marginale alla circolazione del capitale, ma ne sarebbe il prodotto.

L’intento dell’autore – in questa fase del suo discorso – è quello dedicato a far emergere le criticità per le quali è assai difficile poter associare il paradiso a questa fase storica del capitalismo. Anzi, proprio adesso che sarebbe il solo modello sociale sopravvissuto, le sue contraddizioni e i suoi inadempimenti, suonano in maniera stridente con le aspettative della maggior parte delle popolazioni del mondo.

Non poteva così mancare una riflessione sul debito e sulla bolla ideologica e mediatica su di esso costruite e da essa amplificate nella significazione, là dove ilSlavoj_Zizek debito si rapporterebbe al denaro quale strumento di misura tra il prodotto e il consumato, quando il novanta per cento del denaro circolante sarebbe invece composto da crediti virtuali nati addirittura in una dimensione che non sarebbe da poter riferire con nessun tipo di realtà di produzione fatta su base locale. Anche per Zizek il debito viene usato come strumento governamentale che ha dato origine al “soggetto indebitato”, il soggetto cioè, che può riuscire a fare contemporaneamente il lavoro salariato e quel lavoro su di sé occorrente a dimostrare la propria capacità di ripagare i debiti, risultando così un soggetto consenziente guidato più dai sensi di colpa che da pulsioni naturali. «Quelli che in precedenza erano diritti (all’istruzione, all’assistenza sanitaria, alla casa) si traducono così in libere scelte di investimento» (p. 54). Mostrando, in questo modo, il vero volto del debito – divenuto dunque un dispositivo – che non si basa semplicemente sulla restituzione con profitto, quanto sul suo prolungamento infinito che tiene il debitore in uno stato di dipendenza e subordinazione. Con un accanimento: il perdono e la remissione dei debiti e dei peccati non li aboliscono, ma ci rendono eternamente debitori verso chi ci ha perdonato.

Il paradiso dovrà poi confrontarsi con l’era digitale caratterizzata, anche per Zizek, per la capacità di raccolta di dati che limitano le libertà individuali più che in ogni altra epoca tanto che i whistleblowers – gli spifferatori, i delatori interni – siano gli eroi attuali che rendono pubblica l’illibertà che è alla base di quel consesso che dovrebbe invece farci considerare liberi. L’imprenditore di sé sarebbe infatti una figura che esprime una propria libertà di azione ma una libertà ormai impegnata a procurarci quelle cose che invece una volta ci erano semplicemente dovute. Entra infatti in atto un altro dispositivo, quello fondante le leggi con le quali non è possibile rapportarsi se non tramite i suoi rappresentanti, i suoi custodi che alfine negano ogni contatto sulle ragioni originali della legge stessa. Rimane un lato proibito che deve rimanere nascosto perché rivelerebbe la violenza instauratrice (Benjamin parla di violenza mitica), quella «violenza che sostiene ininterrottamente il dominio della Legge» (p. 97).

Nel terzo capitolo ci pare interessante il confronto con il pensiero di Toni Negri, in particolare contro la coppia borghesia proletariato proiettate in quella del tutto nuova di impero e moltitudine. Operazione forse superflua, sostituibile con qualcosa dal sapore conosciuto, ma non esaurito. «E se, al contrario, fosse opportuno riaffermare la lotta di classe, estendendo però la categoria di proletariato ben oltre la tradizionale classe lavoratrice, fino ad includere tutti coloro che oggi sono in qualche modo sfruttati. I disoccupati e gli inoccupabili, il “precariato” il cognitariato”, gli immigrati clandestini, gli abitanti degli slum, gli “Stati canaglia” estromessi dal mondo civilizzato”?» (pp. 109-110).

Piccolo inciso. Nel terzo capitolo c’è una riflessione sulle “sconfitte” delle primavere arabe. Primavere interpretate in occidente come copie ed espressioni di una tensione “filo democratica” simile a quella manifestata a suo tempo nell’Europa dell’est. In realtà, in questi casi, i contenuti si erano fatti carichi di più componenti quali un aspettativa di tipo libertario condita però da un’equivalente tensione verso una domanda di giustizia sociale. Queste componenti richiedevano una alleanza tra la le forze liberali moderate e la sinistra radicale che, se estromessa, sarebbe stata sostituita da una accezione fondamentalista, riprendendo così l’intuizione di Benjamin per la quale “ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita” testimonia cioè un potenziale rivoluzionario, «un malcontento che la sinistra non è stata in grado di mobilitare» (p. 115). Con un corollario che si dimostra in parallelo a partire dalla semplice constatazione che il fondamentalismo religioso e la libertà di mercato non entravano in conflitto dando così adito alla conseguenza «che il matrimonio “per l’eternità” tra democrazia e capitalismo si sta ormai avviando verso il divorzio» (p. 122). Se il capitalismo può tranquillamente convivere con il fondamentalismo religioso, significa che l’unione tra democrazia e capitale non sia così indissolubile. Quello che è emerso in tutte le rivolte degli ultimi anni (compreso Occupy Wall Street) è un duplice disagio: uno più o meno radicalmente economico e uno politico ideologico. Questo determina però il fatto che per soddisfare entrambi si metta in discussione proprio il nesso tra democrazia e capitalismo nel senso di mettere in discussione cioè la democrazia stessa che chiede perciò, come minimo, di essere reinventata.

Il capitalismo attuale (globale) – quando non si disfa dei commons – tende a ridurli a res nullius. Quest’ultimo termine rimanda a proprietà senza proprietario, libere cioè di essere appropriate. Zizek fa quest’esempio: «nell’ideologia patriarcale, una donna non sposata è una specie di “proprietà senza proprietario” che attende di “diventare la proprietà” di un uomo» (p. 125).

Qualche problema c’è dunque anche in paradiso. In paradiso dovrebbe essere possibile realizzare un programma che per gli Stati Uniti dovrebbe essere questo: l’assistenza sanitaria universale; la redistribuzione della ricchezza in termini più equi; una ridefinizione del sistema fiscale che operi in questo senso; la limitazione al finanziamento delle campagne elettorali e il diritto di voto esteso a tutti, un accoglienza e un trattamento più equo dei lavoratori immigrati; una politica estera che integri il potere americano nella comunità internazionale. Ora – per Zizek – emerge però la domanda: e se queste particolari disfunzioni fossero strutturalmente necessarie? Se fossero consustanziali al capitalismo stesso? Se il risultato di una gradualità riformista in rapporto ad un rivolgimento più radicale portasse soltanto al fatto che «i poveri possano [semplicemente] vendersi “liberamente”?» (p. 129).

Problemi comunque anche allinferno. Si dà da pensare un compimento annunciato; un divenire obbligato; un punto di arrivo nel quale anche attraverso la mediazione che le trasformazioni del lavoro creano, dovrebbe essere alla portata. Negri e Hardt vedono la possibilità di una “democrazia assoluta” a partire dallo sviluppo del lavoro immateriale tipico del capitalismo cognitivo, perché l’oggetto del lavoro immateriale sarebbe costituito sempre di più da rapporti sociali. “La moltitudine – dicono Negri e Hardt – non produce soltanto beni e servizi, ma anche – e soprattutto – cooperazione, comunicazione, forme di vita e relazioni sociali”, tanto da rendere superflui i proprietari facendo anche sì che i produttori governino direttamente lo spazio sociale. Ma il problema è che da un’analisi simile, Bifo (tutti citati da Zizek) arriva a conclusioni opposte: «lungi da rendere trasparente la vita sociale, l’odierno “capitalismo cognitivo” fa sì che la stessa sia impenetrabile, poiché destituisce le condizioni soggettive entro le quali può trovare espressione la solidarietà collettiva del “cognitariato”» (p. 141). Qui l’opposizione è tra apocalittici e escatologici, a meno che l’escatologia porti semplicemente all’apocalisse. Problemi dunque anche all’inferno? Forse.

Excursus. L’economia del dono, un ritorno o un indirizzo, una possibilità, una maschera.

End. «C’è un meraviglioso verbo comune scozzese, tartle, che indica il momento imbarazzante in cui chi parla dimentica temporaneamente il nome di qualcuno (di solito quello del suo interlocutore in una conversazione): “Scusa, ho tartle-ggiato per un istante!” Negli ultimi decenni non abbiamo forse tutti tartle-ggiato, dimenticandoci il nome “comunismo” per indicare l’orizzonte ultimo delle nostre lotte di emancipazione? È arrivato il momento di richiamare alla memoria questa parola» (p. 238).

Slavoj Žižek, Problemi in Paradiso, Il comunismo dopo la fine della storia, Ponte alle Grazie Milano 2015. Pagine 263, 16.00