Narcos, non la solita serie tv sul crimine

I narcotrafficanti sono stati raccontati al cinema e in tv molte volte, soprattutto a partire dalla fine degli anni 70 quando la cocaina invase, letteralmente, gli Stati Uniti. Tutti ricordiamo Scarface di De Palma e Traffic di Soderbergh, grandi film per grandi registi con stili molto diversi che hanno contribuito a costruire l’immaginario sui narcos, ma con una caratteristica inevitabilmente comune: il punto di vista stelle e strisce.

Uno degli ultimi prodotti sul tema è Narcos, serie tv targata Netflix, prodotta e diretta, in parte, da José Padilha, regista brasiliano, nato come documentarista e poi affermatosi con il cinema di finzione.

Narcos ci catapulta nella Colombia degli anni 70/80 seguendo le gesta di Pablo Escobar e del famigerato Cartello di Medellin, che riuniva i più potenti e spietati narcotrafficanti colombiani: Escobar appunto, i fratelli Ochoa, Carlos Ledehr e Jose Rodriguez Gacha. La prima stagione ripercorre la scalata al potere di Escobar, la nascita del cartello, le violenze inaudite commesse dai sicari di Escobar fino alla cattura del capo dei capi e all’evasione dalla prigione di lusso La Catedral.

Sono molti gli elementi che rendono Narcos un prodotto interessante, uno di questi è senza dubbio il cambio di prospettiva grazie a una produzione tutta latina e con la Colombia scelta come teatro unico degli avvenimenti.

Per chi ha visto film come il già citato Scarface o Blow, biopic sul trafficante americano George Jung legato al cartello di Medellin, l’immagine della Colombia che esce da Narcos è qualcosa di inaspettato: niente giardini tropicali lussureggianti, niente ville in stile ispanico-moresco con i loro lussuosi cortili e niente trafficanti abbronzati ed eleganti. La Colombia di Narcos è fatta di fangose cocinerie in mezzo alle foreste andine, delle strade sporche di Medellin e di trafficanti tanto ricchi quanto anonimi. I ritratti dei celebri criminali nella serie fanno tornare alla mente le parole di Mickey Monday, trafficante di Miami, che nel documentario Cocaine Cowboys di Billy Corben racconta il suo stupore nel conoscere Pablo Escobar e i membri del Cartello di Medellin, “Erano solo dei disperati, un gruppo di criminali di strada molto fortunati.” E il suo socio, Jon Roberts, aggiunge, prendendo un abbaglio, che i veri capi erano i fratelli Ochoa: questi infatti erano gli unici ad avvicinarsi all’immaginario occidentale del trafficante colombiano con le loro camicie di seta e il ranch con annesso maneggio pieno di cavalli purosangue.

La fotografia di Lula Carvalho sottolinea l’asprezza della terra colombiana, i cieli cupi delle periferie e i colori acidi delle foreste senza concedere niente al Sud America da cartolina. Altro elemento interessante è l’utilizzo della doppia lingua: nella versione originale le parti parlate in spagnolo non sono doppiate in inglese ma semplicemente sottotitolate, un buon compromesso per andare incontro al pubblico dei latinos sempre più numerosi negli Stati Uniti.

Ma a questo punto Narcos spiazza di nuovo perché la voce narrante che ci guida lungo le strade colombiane è quella di Steve Murphy (interpretato da Boyd Holbrook), agente della DEA, ed è una voce completamente yankee per il timbro, per il punto di vista e per il tono della narrazione quasi da film western. Ma nella Colombia violenta e corrotta del narcotraffico non c’è spazio per buoni e cattivi, ovvero ce n’è nelle intenzioni, ma poi la violenza insensata e la morte ad ogni angolo di strada corrompono gli animi e fanno sprofondare negli abissi anche i più ligi uomini di legge.

Eccola qua un’altra profonda differenza con i film già citati, i trafficanti non sono raccontati con le loro stesse parole e non sono eroi tragici, ma uomini normali, violenti, ridicoli e schiavi delle proprie debolezze che finiranno per annientarli. Ed in un momento storico in cui l’ammirazione per i personaggi della malavita spopola, questo non è un pregio da poco. Basti pensare al dilagare della narcocultura con tutto l’immaginario di armi, tatuaggi e corridos che infiamma i giovani messicani sia in patria che nelle comunità latine negli Stati Uniti, perfettamente testimoniata dal documentario Narcocultura di Shaul Shwartz del 2013.

Un immaginario che troviamo anche in Italia nelle sottoculture legate alla malavita organizzata: chi ha visto le foto di Mario Spada a corredo del reportage di Fittipaldi sull’Espresso, dedicato ai giovanissimi camorristi a Napoli, con il loro corredo di pistole, passamontagna, tatuaggi e abiti sportivi, farà fatica a distinguerli dai sicarios adolescenti cresciuti nelle periferie di Città del Messico, Lima, Bogotà.
(Per chi volesse approfondire su Vice è assolutamente da vedere la video inchiesta sull’eredità di Escobar e sulla violenza dei ragazzi di strada di Lima assoldati come killer dal narcotraffico.)

La voce narrante è comunque ironica anche nei confronti della politica, sia verso la debole e corrotta politica colombiana che, e soprattutto, verso l’ossessione anticomunista di Reagan che gli fa sottovalutare, in nome della lotta alle Farc e all’Eln, sopra a tutti, la forza devastante dei narcotrafficanti. Anzi a dirla tutta, i gruppi paramilitari di estrema destra finanziati all’inizio anche da Rodriguez Gacha e addestrati dall’israeliano Yair Klein, furono utili per gli Stati Uniti nel torturare, uccidere e incarcerare responsabili sindacali, leader di movimenti contadini e difensori dei diritti umani.

La serie fa un uso importante di immagini di repertorio, avvicinandosi ad uno stile quasi documentaristico, per offrire al pubblico una ricostruzione storica accurata. Realtà e finzione si alternano, come spesso accade nei lavori di Padilha, la cui doppia natura di documentarista e regista di finzione va a costituire uno degli elementi stilistici centrali della serie.

Colpisce anche che sia narrata la forte ingerenza degli Stati Uniti in America Latina, ma, nonostante la produzione sia quasi completamente sudamericana, non ne viene messa in dubbio l’opportunità in nessuna occasione. Guardando Narcos non ci si chiede perché mai la polizia statunitense si muovesse in Colombia come a casa propria, collaborando, ma più spesso, dando ordini a quella colombiana.

Oggi a quasi 25 anni da questi avvenimenti la Colombia è l’alleato più fidato degli Stati Uniti in America Latina, tanto da ospitare ben 7 basi militari americane, un risultato ben strano per quella che doveva essere una guerra alla droga condotta prima da Bush sr, poi da Clinton e infine da Obama.

Con il Plan Colombia avviato nel 2000 dai presidenti Clinton e Uribe, arrivarono in Colombia elicotteri militari e l’esercito fu addestrato dagli americani per combattere contro i narcotrafficanti. Ciò che effettivamente accadde furono le fumigazioni (con il glifosato della Monsanto) per bruciare le coltivazioni di coca, i cui danni ambientali a fiumi e foreste sono tutt’ora gravissimi; le violenze dei paramilitari, in collaborazione con l’esercito regolare, per costringere la gente ad abbandonare le proprie terre per consegnarle alle élite colombiane o alle multinazionale statunitensi e il fallimento delle trattative di pace tra governo e Farc che certo non volevano essere sterminate, una volta deposte le armi, come era accaduto a M19 e Union Patriotica.

E mentre Farc e governo colombiano stanno di nuovo trattando una difficile pace a L’Havana, Obama e il presidente Santos annunciano un nuovo Plan Colombia: il Paz Colombia, un nome nuovo per la stessa ingerenza.

Comunque, nonostante l’apporto americano, il narcotraffico ha continuato a prosperare indisturbato, cambiando le rotte, alternando i cartelli dominanti e i loro capi, sempre più sanguinari e lo stesso hanno fatto i paramilitari continuando a sterminare contadini, sindacalisti e attivisti.

Sarà interessante vedere cosa ci riserverà, a questo proposito, la seconda stagione di Narcos che verrà messa in onda il prossimo agosto e come gli autori ci racconteranno i 15 mesi che trascorsero tra l’evasione da La Catedral fino alla morte di Escobar il 2 dicembre 1993 per mano della polizia colombiana e della DEA. In quei mesi furono molte le ingerenze e molti gli intrecci poco chiari tra paramilitari, esercito colombiano e polizia statunitense.

Sarebbe un’occasione persa se regista e autori sudamericani non cogliessero l’occasione per mostrare agli spettatori le responsabilità, non solo della politica colombiana che sono ben delineate, ma anche quelle degli Stati Uniti, abdicando ad una lettura politica e storica degli eventi stereotipata.

* Francesca Conti, perUnaltracittà