The People vs OJ Simpson

#BlackLivesMatter. Quante volte abbiamo letto queste parole sulla stampa e sui social media, uno slogan e un movimento tra i più popolari ed efficaci degli ultimi anni, che sta influenzando pesantemente anche le primarie statunitensi soprattutto in campo democratico.

Sembra strano doverlo ribadire dopo otto anni alla Casa Bianca del primo presidente afroamericano, ma, a giudicare dal numero di neri in carcere e dal numero di quelli uccisi dalla brutalità della polizia, potremmo dire che la battaglia per i diritti civili è più viva che mai e ha ancora una lunga strada da percorrere.

Proprio alla luce di tutto questo, un’operazione che poteva sembrare retrò appare perfettamente in linea con i tempi, The People vs Oj Simpson l’ultima serie tv di Ryan Murphy, ci catapulta indietro di 20 anni, ma è quanto di più attuale si potrebbe desiderare. Gli spettatori si trovano nel pieno dei riot di Los Angeles nella primavera del ’92 e del processo mediatico del secolo alla ex-star del football americano Simpson accusato di duplice omicidio.

Ryan Murphy, regista, sceneggiatore e produttore statunitense, ha realizzato film e serie tv furbe e ben girate come Glee e American Horror Story, ma tanto attente a strizzare l’occhio alla cultura pop e a raggiungere una forma visivamente perfetta da concedersi spesso e volentieri sfilacciamenti nelle sceneggiature.

In quest’ultima serie tutto è perfetto, la sceneggiatura, la strepitosa colonna sonora, la struttura antologica che si sofferma ad ogni puntata su uno dei personaggi e l’intreccio tra la vicenda e le problematiche personali e sociali di cui ogni protagonista si fa portatore. Il cast funziona alla perfezione, con l’imbarazzante eccezione di John Travolta, che interpretando l’avvocato dei VIP Robert Shapiro, ce ne restituisce un’inutile caricatura più che un ritratto.

tumblr_nnkx9bWubJ1s5h4bpo5_1280Ma ciò che caratterizza la serie è il forte legame sia con la cronaca dell’epoca che con l’attualità, tanto che la prima puntata si apre con le immagini originali del pestaggio del tassista afroamericano Rodney King. Ma proviamo a ripercorrere tutte le tappe della vicenda: Rodney King, mentre stava tornando a casa con degli amici a tarda sera nel marzo del ’91, non rispettò l’alt della polizia (pare avesse bevuto e non volesse perdere la licenza per il taxi), ne seguì un inseguimento ed un pestaggio tanto gratuito quanto violentissimo, un uomo però riprese tutto dalla finestra della propria abitazione e quelle immagini fecero il giro del mondo. (A questo link un documentario della CNN sulla vicenda King). La rabbia a lungo repressa nei ghetti neri di Los Angeles esplose però solo un anno dopo, quando i poliziotti colpevoli del pestaggio furono assolti; per 5 giorni la città fu messa a ferro e fuoco, arrivarono l’esercito, i Marine e la Guardia Nazionale e, quando la rivolta finì, il bilancio fu di 55 morti. Esattamente due anni dopo nel giugno 1994 Nicole Brown, ex moglie di OJ Simpson, e un amico furono trovati massacrati, tutte le prove puntavano a Simpson ossessivamente geloso e violento, ma OJ era un atleta e un uomo di successo afroamericano, la comunità nera si schierò subito al suo fianco.

Da quel momento cominciò un processo in cui la televisione giocò un ruolo centrale, gli americani furono inchiodati allo schermo televisivo senza distinzioni di sesso, età, classe sociale e comunità di appartenenza, il verdetto fu atteso in diretta per le strade e negli show più popolari. Il paese si spaccò durante il processo tra bianchi e neri, tra colpevolisti e innocentisti, per la comunità nera era l’ennesimo atto di prevaricazione delle istituzioni su un uomo di colore, non importava quanto fosse famoso.

Ciò che non sapevano era che Simpson non sentiva minimamente l’appartenenza a quella comunità, era scappato dal sobborgo in cui era nato per non tornarvi mai più. “I’m not black, I’m Oj” dirà in prigione all’avvocato Shapiro che gli propone come unica salvezza di giocare la carta della razza. L’unica a capire chi era davvero OJ fu la sua più grande accusatrice Marcia Clark, il pubblico ministero, che quando il processo fu spostato dai quartieri alti alla downtown di LA ebbe a dire: “E perchè mai, forse Simpson non merita una giuria di suoi pari? Uomini ricchi, bianchi e di mezza età?”

Ma, nonostante le iniziali resistenze, sarà proprio grazie all’ingresso nel collegio di difesa di Johnnie Cochran, noto avvocato difensore dei diritti civili a far vincere ad OJ un processo per due omicidi dei quali era senza dubbio colpevole. Il verdetto di innocenza evitò ulteriori tumulti che le autorità temevano moltissimo, i pubblici ministeri scrissero libri sul processo, OJ fu di nuovo arrestato per rapina a mano armata (stavolta fu condannato ed è tutt’ora in carcere) e gli amici della coppia Simpson-Brown divennero star dei reality: dalla famiglia Kardashian a Faye Resnick.

Rileggere questi fatti oggi da una prospettiva sociale e politica è molto interessante, colpisce molto la mobilitazione della comunità afroamericana per un uomo ricco e famoso che si poteva permettere un team di avvocati di grido e colpisce l’intreccio di lotta di classe, diritti civili, femminicidio e sessismo che innervarono il caso e che sono ancora oggi più che vivi nella società americana e non solo. Ma da allora è davvero cambiato qualcosa? Il processo Simpson è stata davvero una pietra miliare per i diritti degli afro-americani? La domanda è chiaramente retorica a giudicare dalla situazione attuale, ma da quei riot e dal loro fallimento la comunità nera ha forse imparato qualcosa.

Facciamo un salto avanti di 20 anni: è il febbraio del 2012 e il diciasettenne nero Trevyon Martin viene ucciso da un vigilante di quartiere, la sua unica colpa è di essere blacklivesmatternero e quindi il fatto di passeggiare di notte lo rende di per sé sospetto.
Un anno dopo George Zimmermann, il suo assassino, viene assolto e Patricia Garza, attivista per i diritti civili, sconfortata scrive un tweet “Our lives matter”, un’altra attivista Patrisse Cullors le risponde che le vite dei neri contano e ci mette un hashtag davanti #BlackLivesMatter: è la nascita di un movimento.

Da quel momento in poi la morte di ogni cittadino afroamericano conta, anche perchè spesso viene ripresa dai passanti e diffusa sui social network: le ultime parole di Eric Garner, soffocato dalla polizia durante l’arresto, “I can’t breath” diventeranno un mantra alle manifestazioni insieme a “Hands up”, ovvero la posizione di resa in cui si trovava Mike Brown di Ferguson, Missouri, quando venne crivellato dai colpi di pistola di un agente.
Proprio la morte di Brown gettò Ferguson nello scompiglio di rivolte, simili a quelle del ’92, accompagnate però anche da molte proteste pacifiche.
Per capire la situazione di disagio, di estrema povertà in cui viveva e vive tutt’ora la comunità afroamericana e le ragioni della rivolta di Ferguson vale la pena di vedere il lungo reportage di RT.

Da lì il movimento #BlackLivesMatter si è diffuso a macchia d’olio diventando famoso in tutto il mondo, le tre fondatrici Patricia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi sono apparse ovunque e il movimento ha dovuto affrontare momenti difficili e dei forti contraccolpi sui media, quando si è tentato di criminalizzarlo dipingendolo come un hate group.

Perchè questa è anche una storia di media vecchi e nuovi, di come sono stati fondamentali per diffondere le immagini dei pestaggi, del processo Simpson e le ragioni di #BlackLivesMatter, ma ci insegna anche il loro forte potere manipolatorio. Oggi questo movimento continua ad usare i social e segnalare sul proprio sito ogni sopruso della polizia sui cittadini di colore (e anche latini) ma ha optato per un forte radicamento sul territorio, un network con tante diramazioni. Stay woke, rimaniamo svegli, si intitola il documentario uscito a fine maggio su #BlackLivesMatter.

Ma è anche una storia di diritti civili, di povertà, di lotte, e questa volta gli afroamericani l’hanno capito, anche di lotta di classe e ad un cineasta attento alla cultura pop e alla società come Ryan Murphy tutto questo non poteva sfuggire.

*Francesca Conti