Somalìade, ovvero essere profughi somali a Firenze

Tutto previsto. Effetto collaterale di una banale storia di indifferenza e cinismo istituzionale. E qualcosa di molto oltre il disagio nel sentire il cordoglio istituzionale del giorno dopo, quello di chi sta all’origine della tragedia. Senza nessuna autocritica.

Su tutto il territorio nazionale la questione dei rifugiati è affrontata con la stessa indifferenza da anni, e la tragedia di Sesto fa capire quanto non esista veramente un modello Toscano dell’accoglienza.

I rifugiati somali dell’ex Aiazzone non sono arrivati ieri, né tre mesi fa, né un anno fa. Sono dieci anni e più che molti di loro stanziano in città, costretti ad involontari e continui trasferimenti causa sgomberi, accoglienze a tempo determinato, progetti finiti nel vuoto, impossibilità di accedere ad un lavoro, o quanto meno ad una formazione degna di questo nome.

somali 1Per ottenere la residenza hanno dovuto lottare contro i muri istituzionali, nonostante per un rifugiato riconosciuto questo sia il primo passo per accedere a servizi e opportunità, per rendersi attivo, e molti di loro ancora non ce l’hanno fatta. Per disporre di un tetto sulla testa hanno dovuto occupare ed essere sgomberati più volte, le accoglienze sono sempre a numero chiuso e a tempo determinato, Cara e Sprar inclusi.
E nel 2009 alcuni di loro erano già sfuggiti ad un incendio in uno stabile occupato a Novoli.

Da quando, grazie ai disgraziati accordi di Dublino, nel 2004, molti somali, o comunque provenienti dal corno d’Africa, vennero rimpatriati in Italia da altri paesi europei dove avevano già stabilito residenza, è iniziata un’epopea, tutt’ora in corso, nella quale il fatto di essere rifugiato riconosciuto è stato ed è quasi un inutile orpello.

Nella primavera del 2004, stante la sola prospettiva di dormire all’aperto in piazza santa Maria Novella, alcuni gruppi di somali, eritrei, etiopi, si unirono a due occupazioni, una scuola dismessa a Novoli e uno stabile anch’esso dismesso in centro, di proprietà di un’immobiliare. Nel giro di cinque mesi furono sgomberate entrambe. Un primo intervento istituzionale sistemò, per poco tempo, una piccola parte dei rifugiati all’Albergo Popolare. Tutti gli altri in strada.

In quell’inverno 2004-2005 in settanta occuparono il “Villino Emma” in Viale Volta, una struttura fatiscente e abbandonata da anni. Riuscirono a starci quasi due anni, poi il Comune presentò due progetti, casa per alcuni, un centro di accoglienza per altri. Ma durarono pochi mesi, e le persone vennero via via allontanate. 

Nel frattempo i “rientranti” in Italia continuarono ad aumentare anche a Firenze. Un sottile flusso continuo.

A fine 2007 in 150 occuparono una struttura abbandonata ex Inpdap in zona Piazza Puccini, una condizione di precarietà quasi estrema, e l’anno dopo venne staccata l’erogazione dell’acqua potabile da parte del Comune. Poi, mesi dopo, un nuovo allontanamento.

E’ da questo sgombero, nel 2008, che nasce Kulanka (che in somalo significa assemblea, riunione) in via Luca Giordano, un luogo, tutt’oggi vivo anche se molto precario, dove rifugiati aiutano altri rifugiati, in una sorta di micro-welfare self-made, in assenza di un welfare propriamente detto. La mancanza di soldi per affrontare degnamente la questione è spesso un alibi.

Nel 2010 il ministero degli Interni, ministro Maroni, destinò 8 milioni di euro (otto!) per il progetto Paci del comune di Firenze, progetto triennale destinato ai rifugiati (molti somali), per accoglienza e formazione-lavoro. Il comune spese quei soldi affittando l’Hotel Real, vicino all’autostrada nord, e affidando la realizzazione del progetto alla cooperativa sociale Il Cenacolo per occuparsi della gestione giornaliera, dell’insegnamento della lingua italiana e dell’avviamento di borse-lavoro. “Madrina” del progetto Stefania Saccardi, all’epoca Assessore al Sociale e alla Casa del Comune, oggi vicepresidente della Regione e titolare dello stesso assessorato, ma regionale. Renziana di ferro.

In quell’anno realizzai un doc proprio sui profughi somali a Firenze, partendo dall’esperienza di Kulanka, e in quell’occasione, andando a visitare l’Hotel, intervistai il responsabile della cooperativa. C’era molta enfasi nelle sue parole, il progetto era vasto e impegnativo, e alla domanda su come procedessero le borse-lavoro mi rispose sicuro che “tutti avevano trovato lavoro”. Sempre che si voglia considerare una borsa-lavoro come lavoro, quando in realtà è un tirocinio e non un rapporto di lavoro.

Beh, molti di loro, disoccupati, l’altra sera stavano fuggendo dal rogo di Sesto e oggi stanno piangendo un loro amico. Forse non è proprio andato così bene quel progetto. Forse con otto milioni di euro a disposizione si sarebbe potuto impiantare qualcosa di più stabile e virtuoso nel tempo. Finiti i tre anni, finiti i soldi (molti), finite le prospettive (per molti).

Nel maggio 2011, in piazza Beslan, davanti alla Fortezza da Basso, nei giorni in cui si teneva la mostra-convegno internazionale “TerraFutura” (ironia delle coincidenze), decine di rifugiati somali ed eritrei si accamparono per quattro giorni chiedendo sì dignità e diritti, ma soprattutto attenzione. Scrissero una lettera alle istituzioni e particolarmente al sindaco Renzi. La risposta arrivò all’alba del quinto giorno, risoluta e muscolare, sotto forma di sgombero da parte dei vigili urbani.

Da lì, nasce l’occupazione di via Slataper, quella dalla cui diaspora molti sono poi finiti all’ex Aiazzone. In quei locali dismessi, senza elettricità, con solo un paio di rubinetti per l’acqua a disposizione, hanno vissuto in circa duecento per tre anni.  Un giorno di fine febbraio 2013, Mohammed Guled si suicidò gettandosi dal tetto. Anche altri ci avevano provato. Le storie di molti di coloro che sopravvivevano in quelle condizioni erano passate per i tanti “progetti” a numero chiuso e tempo determinato che lasciano il vuoto una volta conclusi. Qualche anno fa la Regione Toscana ha investito 480 mila euro per un progetto assegnato alla cooperativa Cat che ha lo scopo di prendere contatto con gli occupanti, stilare una casistica e avviare processi di soluzione.

Dunque, se in questa epopea (qui riassunta per sommi capi tralasciando le numerose micro-storie di resistenza e sopravvivenza dei rifugiati somali, ma anche etiopi ed eritrei) si riesce a leggere la mancanza di diritto, di principio, di legalità (non solo internazionale), non si potrà non provare fastidio nel sentire le dichiarazioni, già a soli tre giorni dal rogo, del sindaco Nardella, del prefetto Giuffrida, dell’assessore Funaro, improntate sul concetto-rimprovero di legalità prima di tutto, riferito ovviamente a chi preferisce occupare qualcosa anziché assiderare per strada, non avendo, altra offerta. Ma questo i su citati lo dovrebbero sapere bene.

E’ una parola, legalità, che per non risultare un po’ vuota e molto stucchevole, dovrebbe essere ridefinita e ampliata nel suo significato più completo e realistico.

In questa storia infinita, chi è che si sottrae dal fornire risposte significative a chi è portatore del diritto di protezione internazionale?

Cosa potrà mai significare il fatto che più volte, nel 2011 e nel 2012, alcuni tribunali tedeschi si sono rifiutati di rispedire in Italia dei rifugiati, anche somali, con la motivazione che nel nostro paese per un profugo “non sono sufficientemente garantite le condizioni di assistenza sanitaria e di accoglienza dignitosa”?

Chi è che sta distorcendo il senso della legalità?

Alì Mousse credo che, più che altro, cercasse giustizia.

*Alessandro De Angeli