Operaisti o populisti di sinistra?

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La pubblicazione del libro di Carlo Formenti “la variante populista” ha avuto il merito di immettere nella discussione dell’area della sinistra radicale una serie di termini considerati precedentemente dei veri e propri tabu. All’improvviso, in questa area dove i discorsi tendevano sempre di più a ruotare intorno ai concetti di lavoratore cognitivo e alla conseguente difficoltà di ricomposizione di classe, ecco che un non detto, un sommessamente pensato ma mai apertamente dichiarato, fa la sua comparsa.

Un termine, anzi un corollario di termini, vengono esposti in modo critico nella pubblicazione di un autore che è sempre stato fecondo di contributi derivanti da riflessioni scaturite da percorsi anche inusuali, basti pensare ad altre sue pubblicazioni quali “Incantati dalla Rete” o “Cybersoviet”. Si tratta di pensare ad azioni e contenuti che si oppongano al neoliberismo globalizzato e finanziarizzato, che ripensino e mettano al centro della questione la possibilità di un recupero della sovranità nazionale che faccia riferimento ad un’idea “postnazionale” che rimanda ad una comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un determinato territorio. Ecco che dunque affiorano termini come comunità, popolo e nazione che evocano ogni tipo di populismo, declinati però questa volta verso una possibile variante: quella di un populismo di sinistra attraverso il quale non si possa scambiare il cosmopolitismo borghese con l’internazionalismo proletario.

La prima opposizione è propria questa, quella che ha visto sostituire le lotte per i diritti delle classi subordinate con quella per i diritti – questa volta individuali – delle classi medie. È un fatto acquisito che si sia costituita una lacerazione tra i bisogni delle classi più basse nelle quali è precipitata una fetta sempre più numerosa di popolazione, e i contenuti e le parole d’ordine delle sinistre anche di quelle non allineate e quindi non subordinate totalmente ai valori neoliberisti. Da una parte una massa sempre più impoverita (probabilmente carnivora e eterosessuale), dall’altra le doverose battaglie per le eguaglianze di genere, i diritti animali, spesso incartati in involucri che auspicano a una decrescita che – se servita male – può paventare dei restringimenti ai canali digestivi per alcuni già messi duramente alla prova da una crisi curata con i tagli. Questo non dovrebbe significare un ribaltamento di certi valori; certo si deve segnalare una scollatura che mal si concilia con il concetto originario di ricomposizione. Discorsi questi che forse è possibile fare perché qualcuno ha rotto il ghiaccio. Ha avuto il coraggio di pensare ad altre possibilità.

In questo ambito Formenti ha anche recuperato il concetto gramsciano di egemonia con una significazione che rimanda alla possibilità di ordinare l’opposizione di classe al di là di una omogeneità del sentire, dove – ad esempio – il precariato, lo stato di precario in sé, possa essere una delle funzioni aggreganti che possano restituire una compattezza che trascenda le lacerazioni segnalate sopra. Formenti mette cioè qui a disposizione una serie di strumenti atti a espandere la cassetta degli attrezzi con la quale tentiamo di interpretare la situazione della conflittualità tra classi subalterne e capitale. Ecco aprirsi la possibilità di un’analisi di questo tipo: se nel trentennio felice, quello che segue la fine della seconda guerra mondiale, l’egemonia operaia ha potuto mettere in campo dei rapporti di forza tali e per i quali costrinse il capitale a concedere grossa parte di quel welfare che ha avvicinato l’Italia ai paesi del nord Europa, oggi il dispositivo del debito, con mutati rapporti di forza, ha permesso al capitale di rimangiarsi tutto il concesso e di mettere in campo un progetto predatorio che sostituisce i profitti di una industria ridimensionata da una crisi da sovrapproduzione alimentata dalla globalizzazione.

I tratti polemici del testo di Formenti abitano principalmente la critica di un generico pensiero post-operaista che secondo l’autore tende a coincidere con le tesi di Antonio Negri che fanno leva sul presupposto che il lavoro cognitivo esprima doti di autonomia rispetto al modo di produzione. Autonomia intorno alla quale sarebbe possibile costruire la base antagonista. Insomma una visione ottimistica che tende a sfociare in un’attesa quasi messianica del superamento del capitalismo anche nella sua veste neoliberista.

Il merito comunque del libro di Formenti è quello di aver suscitato un serie di reazioni (del resto, per niente unanimi) tanto che Alfabeta2 ha proposto uno speciale con contributi spalmati su ben tre numeri.

Paolo Gerbaudo, ad esempio, riconosce al pensiero operaista (o post-operaista che dir si voglia) una grande capacità di analisi che tende a rispondere appunto ad interrogativi di tipo analitico del tipo: “che cosa avviene?” Ma che è sempre più incapace di rispondere al classico quesito leninista: “che fare?” Questa sarebbe dunque la risposta che ci aspettiamo da un campo meno analitico e più strategico, un campo forse che dovrebbe avere i caratteri di un populismo di sinistra atto a dare identità unificante, ad alleare cioè lavoratori cognitivi, autonomi, precari, lavoratori della logistica, “operai disillusi” e disoccupati. Ma, su questo terreno, il pensiero post-operaista trova tutta una serie di ostacoli la cui provenienza – tutta ideologica – apparterrebbe ai tratti genealogici dell’operaismo stesso: “L’odio verso lo stato nazione, prima ancora che verso il mercato, ed il rifiuto del potere, che lo accomuna con altre correnti del pensiero anti-autoritario post-68, rendono impossibile la costruzione di una strategia credibile”.

Un atteggiamento più critico rispetto a quanto detto sinora vede che le istanze attuali non ci restituiscono soggetti completamente esclusi dal rapporto con il capitale (cioè con il modo di produzione), quindi relegati totalmente ai margini della produzione. Un soggetto che tramite la sua mancanza di autonomia si identifica tramite concetti quali quelli di Comunità e Popolo, che, come dice Giso Amendola, sono “sempre bisognose d’essere incorporate in soggetti collettivi trascendenti”. Il difetto della comunità che si condensa nei suoi tratti più problematici quali la ridotta espansività e una certa incapacità inclusiva e tendenza alla difesa dagli attacchi esterni, ma completamente afasica nei confronti delle trasformazioni del quadro sociale.

L’idea di una contrapposizione tra nazione e globalizzazione ha radici nell’incapacità del corpo sociale di interagire con l’apparato del capitale finanziarizzato, dice invece Bifo e affonda: questa “impotenza non si cura con l’impazienza né con il viagra dell’identità nazionale e popolare”. Qui di nuovo l’identità è in qualche modo escludente. Il populismo manca di quelle capacità solidali che aggregano anche per diversità. Per di più, certe considerazioni, sembrano ignorare la vera faccia del capitale contemporaneo che si esprime attraverso un algoritmo tecno linguistico che bypassa il concetto stesso della sovranità, indispensabile alla costruzione di ogni tipo di populismo. Una dichiarazione di impotenza. Un’impotenza però non miope di una possibilità, di una società che si liberi dal ricatto del salario mettendo in rete in termini solidali tutte le sue capacità cognitive. Ma l’attuale frazionamento dei soggetti del lavoro precario e cognitivo ci fanno essere pessimisti su questa possibilità senza però che essa tramonti dal nostro orizzonte.

Andrebbero trovati altri modi di aggregazione, federazioni tra diversi, coalizione delle differenze, niente a che vedere con un soggetto omogeneo e centralizzato, come nell’esempio dato oggi dal femminismo, dice ancora Giso Amendola, qualcosa che sappia conciliare differenze e singolarità, “risonanza”, più che articolazione verticale; maree, non popoli o comunità.

*Gilberto Pierazzuoli

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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