Il posto degli alberi in città: domani

Dopo l’articolo del 13 aprile 2015, che si interrogava sul posto che hanno avuto gli alberi a Firenze ieri e oggi, proviamo a interrogarci su quale posto avranno domani.

Si rende necessaria una premessa filosofica e antropologica, perché la selvicoltura, anche urbana, è una scienza applicata, come la medicina, dunque deve anteporre ad aridi protocolli standardizzati asetticamente scientifici (di solito autodifensivi) l’interrogazione su come si intende posizionarsi in una visione generale, quali obiettivi si intendono raggiungere (in medicina la ragionevole convivenza col male, la riduzione del danno o la massima prestazione a tutti i costi) e quali mezzi si è disposti ad accettare.

La mia visione del mondo è biocentrica e antiromantica; l’estetica formale non mi appartiene, Benedetto Croce lo lascio negli scaffali delle biblioteche. Il mio auspicio è che l’umanità superi in questo secolo la sua fase adolescente, nella quale ogni “creativo” voleva lasciare il suo segno alla posterità, per approdare a un’umanità che abita il pianeta in punta di piedi, rispettosa degli altri esseri viventi, che adotta l’understatement come stile e cerca il minimo impatto visivo e ambientale delle sue opere.

Con questa premessa non ha senso domandarsi come ci piacerebbe che fosse il verde pubblico in città, mentre lo ha chiedersi come mettere a proprio agio gli esseri viventi che lo costituiscono e come conservare, collegare e incrementare i lacerti di habitat naturali relitti o di neoformazione.

Poiché il verde pubblico elementare, raggiungibile a piedi in dieci minuti dalla popolazione destinataria e degno di tale definizione coerentemente con gli standard europei, si misura in ettari (dunque l’unità minima registrabile è 0,5 ettari), si rimane delusi nel constatare quanto poche siano le aree verdi in senso stretto a Firenze; nel popoloso rione San Jacopino-Leopolda-Puccini, per esempio, il solo giardino di via Maragliano può essere contabilizzato ed è doveroso ricordare che esso esiste per effetto della vittoriosa lotta dei cittadini contro la speculazione edilizia. In quello stesso rione le aree di reperimento suscettibili di diventare verde pubblico in senso stretto sono il lotto rimasto inedificato nel quartiere Leopolda e quello ottenibile con la demolizione degli edifici di minor pregio architettonico dell’ex Manifattura Tabacchi, quest’ultimo previsto invece dalla proprietà come luogo dove realizzare nuovi imponenti edifici. Incerta sorte ha il corridoio ecologico, peraltro assai stretto e infrastrutturato, che si prevede lungo il Fosso Macinante.

Nel Quartiere 5 le principali aree di reperimento sono i terreni ex agricoli di proprietà Nucci alle estremità Nord e Ovest di Novoli, in corso di rinaturalizzazione spontanea, e l’albereta nata a seguito dell’abbandono dei terreni postindustriali compresi tra il parco San Donato e il Palazzo di Giustizia, tutti edificabili. Un’Amministrazione davvero amante della natura e lungimirante nell’assegnazione delle destinazioni d’uso, allo scadere del Regolamento Urbanistico farebbe ogni sforzo possibile per non riconfermare l’edificabilità e per acquisire a patrimonio pubblico ogni area rimasta inedificata, destinandola a verde con carattere naturalistico.

Più difficile è consegnare alle generazioni future spazio per gli alberi all’interno del centro e delle periferie storiche, dato che questo è già stato destinato a funzioni diverse entro la prima metà del XX secolo. Come in altre città, parchi e giardini erano a corredo di palazzi e ville privati; nel secolo scorso quelli più importanti sono stati acquisiti a patrimonio pubblico, Stato nel caso delle ville il Ventaglio e Bardini, Regione nel caso di Villa Fabbricotti, Comune nei casi delle ville Strozzi, Favard, Vogel e di Rusciano. Il giardino del palazzo Vivarelli-Colonna, piccolo ma preziosissimo per localizzazione, architettura e flora, è già stato privatizzato e altri beni suscettibili di incrementare il verde pubblico sono in vendita.

La mia visione antiromantica mi spinge a rifuggire da soluzioni otto-noventesche per le piazze e gli spazi residuali nel centro storico, dove più convenientemente si potrebbero riproporre le pergole di vite, gli orti e i frutteti che caratterizzavano la città murata, limitando le specie arboree a quelle storicamente documentate, come il gelso (molto diffuso dopo l’embargo della seta), l’acero campestre e l’olmo, tradizionali tutori della vite (con queste specie sono piantate le piazze del Carmine e San Marco); per evitare il saccheggio, pomacee e drupacee possono scegliersi tra le cultivar dal frutto poco appetibile; gli ortaggi possono essere richiamati da loro cultivar ornamentali e da aiuole fiorite. L’arancio amaro con sottopiantagione di mirto è una raffinata citazione della Primavera del Botticelli.

Il tipo di verde sul quale si focalizza maggiormente l’opinione pubblica negli ultimi tempi sono le alberature stradali, oggi inospitali per la ricreazione, il gioco dei bimbi, la pratica sportiva e il passeggio a causa dell’eccesso di auto in moto e in sosta, ma utili per la mitigazione degli eccessi climatici e per la depurazione dell’aria. La demolizione delle mura medievali offrì l’occasione per un’imitazione dei boulevard d’oltralpe, tanto come concetto quanto come specie arboree prescelte, raramente riprese dagli habitat naturali locali, molto degradati, poco conosciuti e non amati nel XIX secolo. La Parigi del secondo impero, quella del voir et se faire voir borghese conformista fu il modello principale per Giuseppe Poggi, che fece piantare ippocastani, tigli e platani, essenze non proprie della piana fiorentina, oltre agli olmi che invece vi si trovavano ma che furono poi aggrediti dalla grafiosi e sostituiti con bagolari. Il Poggi concepì i viali come passeggi pubblici con quadruplice filare arboreo e poco spazio per il traffico veicolare, ma la sua idea non fu mai realizzata ed egli dovette presto prendere atto di come la giacitura stradale provocasse sofferenza e anticipasse la senescenza degli esemplari piantati.

Ma il peggio doveva ancora venire: la motorizzazione privata accelerata, registrata dopo la soppressione della tramvia circolare n.19 e delle altre nel 1958, indusse gli amministratori comunali ad asfaltare quanto più possibile per non frustrare la domanda di circolazione e sosta dei veicoli privati.

Più presto di quanto si potesse immaginare nell’800, si cominciò a sostituire le piante che via via per motivi diversi incontravano la senescenza anticipata; solamente a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso si attuano modalità rispettose delle giovani piante, messe a dimora in spaziose aiuole dotate di suolo organico, inerbite e rialzate di qualche cm rispetto al piano stradale, in modo da prevenire l’eccessiva compattazione del suolo, evitare la percolazione di oli minerali accidentalmente sversati e delle schiumose acque di prima pioggia, nonché evitare l’urto accidentale dei tronchi; un esempio ben riuscito è in viale Spartaco Lavagnini, tratto compreso tra via Duca d’Aosta e piazza della Libertà; questa sistemazione comporta la soppressione di numerosi stalli di sosta dei veicoli, ed è l’unica che assicuri la perpetuazione del patrimonio arboreo stradale complessivo, intesa non come conservazione dei singoli individui e delle specie originali, ma del popolamento vegetale nella sua dinamica evolutiva, tenendo conto delle eventuali patologie (es. cancro colorato del platano) e del cambiamento climatico.

Poche specie arboree impiegate nelle alberature stradali tollerano l’ombra degli esemplari adulti, perciò i tentativi di sostituire singolarmente le fallanze si sono rivelati una tortura per quelli giovani, che subiscono una forte competizione per la luce e per l’acqua, soffrendo la fame e la sete (un esempio in Viale della Giovane Italia).


Infine è importante mantenere una distanza appropriata tra le piante e gli edifici, evitando piantagioni troppo a ridosso, che costringono a drastiche potature di contenimento delle chiome, che si sviluppano sbilanciate anticipando la senescenza degli esemplari, ovvero all’impiego di cultivar fastigiate, che non offrono le stesse prestazioni ambientali delle chiome espanse, proiettando ombre molto piccole nelle ore meridiane estive.

*Paolo Degli Antoni