Stop allo sfruttamento dei migranti come lavoratori agricoli in Italia

L’appello-denuncia è firmato da un gruppo di medici italiani dell’organizzazione non governativa Medici con l’Africa Cuamm e pubblicato sulle pagine del British Medical Journal.

Il contributo parla di Marcus che è morto per il freddo e di Paola che non ha invece resistito al caldo e alla fatica. Parla di Sacko ucciso mentre cercava materiale per costruire un rifugio e di Becky rimasta intrappolata dalle fiamme in un incendio. Parla di tanti altri lavoratori senza un nome che sono stati uccisi da condizioni di lavoro estenuanti sotto il controllo di caporali senza scrupoli: 1.500 braccianti negli ultimi 6 anni. Lavoravano tutti per poco più di un euro l’ora nelle campagne del Belpaese, appezzamenti agricoli dove si rischia di morire come in campi di battaglia. Morti invisibili che sfuggono alle statistiche e agli onori della cronaca. Fanno notizia solo i casi più eclatanti, come l’incidente stradale dello scorso agosto in Puglia che ha provocato 12 vittime tra i lavoratori agricoli. Erano stipati in un camioncino, stremati alla fine di una giornata di lavoro.

«La dignità umana dei lavoratori e dei cittadini deve essere preservata e devono essere garantiti i servizi essenziali. Non stiamo forse perseguendo la copertura sanitaria universale?», scrivono i medici italiani sul Bmj.

Claudia Marotta,​ di Medici con l’Africa Cuamm e i colleghi firmatari dell’articolo, hanno scelto di far conoscere alla comunità internazionale il lato oscuro del nostro Paese, celebre in tutto il mondo anche per i frutti saporiti della sua terra. Ma a che prezzo vengono coltivati i pomodori italiani venduti sul mercato globale da Londra a Shangai? Qual è il costo umano di quei prodotti? Il conto è facile a farsi: i lavoratori sono generalmente pagati in base alla quantità di verdure raccolte e non per le ore di lavoro. Quando viene scelta questa seconda forma di pagamento, il bracciante arriva a intascare a fine giornata non più di 12 euro.

Non esiste un censimento ufficiale di questa nuova forma di schiavitù, ma Marotta e i colleghi stimano che esistano in Italia 50-70 ghetti dove sono relegati in tutto circa 100mila lavoratori. Gli alloggi sono strutture fatiscenti, senza acqua e servizi igienici di base, lontani dai centri abitati e dagli ospedali.

«Nel corso degli anni – scrivono i medici – la presenza dello Stato, della chiesa, delle organizzazioni non governative e dei volontari si è fatta sentire, ma non è stata sufficiente per apportare cambiamenti significativi. Se dobbiamo affrontare il fenomeno dell’”agromafia”, la struttura dello sfruttamento e il sistema criminale alla base di questo sfruttamento, e ottenere orari di lavoro e retribuzioni equi per i lavoratori a basso salario, allora sono necessari forti cambiamenti culturali e azioni collettive».

Dal 2015 i dottori di Medici con l’Africa Cuamm in collaborazione con istituzioni locali forniscono assistenza sanitaria ai lavoratori dei campi. Ogni domenica un ambulatorio mobile viene posizionato nei paraggi di tre ghetti pugliesi. In quattro anni sono stati visitati 4.800 pazienti. I principali problemi di salute sono la fatica (46%), mal di denti (19%), difficoltà respiratorie (10%), disturbi dermatologici (8%). Seguono problemi ginecologici cardiovascolari, traumi e disturbi psichiatrici.

Non è facile indirizzare i pazienti più bisognosi a percorsi terapeutici efficaci, dicono i medici. E le difficoltà sono destinate ad aumentare. «È difficile immaginare – scrivono i firmatari dell’appello – che la situazione possa migliorare data la tendenza politica attuale in Italia, il decreto sicurezza e il fatto che il problema venga considerato solamente come una questione di sicurezza nazionale». Qui il problema, insistono Marotta e colleghi, non è di sicurezza, ma socio-sanitario. E le domande da farsi sono principalmente due: come possiamo affrontare le cause profonde di queste morti e malattie evitabili? Come possiamo porre fine allo sfruttamento di questi lavoratori?. L’appello si conclude con una chiamata all’azione di tutti e soprattutto dei medici.

«Ognuno di noi è coinvolto non solo perché siamo medici, cittadini, scienziati, consumatori o economisti. Continuiamo a lavorare nel nostro campo, guidati dai principi di “salute per tutti”, copertura sanitaria universale e “non lasciare indietro nessuno”, sanciti nell’agenda mondiale per lo sviluppo 2030. Tuttavia il nostro lavoro è opera di volontari che desiderano una società “civilizzata” e non solo civile. È il lavoro dei medici che continuano a credere che siamo destinati a combattere le malattie e non le persone e che tutti debbano alzarsi in piedi e combattere lo sfruttamento, la discriminazione, il razzismo e l’egoismo, sotto ogni forma in cui vengono camuffati», concludono i dottori di Medici con l’Africa.

*L’articolo è stato pubblicato su Healthdesk del 29 marzo