La scuola e il divario sul divano

Immaginiamo che il Principe e il Povero si ritrovino nella stessa classe il primo giorno di scuola.

Chiamiamo qui scuola quella con i banchi e il quaderno, ma può avere anche cerchi di sedie o aule computer. Certo non è scuola il divano di casa con il tablet addosso, ma ne riparleremo.

L’eventualità che studino insieme è puramente ipotetica perché il Principe è stato portato dai genitori in un quartiere dove ci sono buone scuole, ma immaginiamo che accada. Comunque il rischio che il Povero contagi il Principe con stili di vita non desiderabili è minimo perché faranno molta didattica a distanza, il divano che si diceva. Un bel divano tutto per sé, al Principe, e un vecchio canapè affollato (e affossato) per il Povero.

Fin dai primi anni alterneranno lezioni in presenza e lezioni a distanza, anche senza preoccupazioni legate all’aria che si respira o ad altre calamità più o meno naturali.

Non siamo luddisti, anzi chi scrive è favorevole ad accostare i giovani a tutti gli aspetti della vita umana e l’elettronica ne è parte integrante (ma anche i conflitti sociali, l’indagine filosofica e molte altre dimensioni verso cui la task force che ha stilato questa proposta ha mostrato minore interesse, per non parlare dei fondamentali della condizione umana, indicati già da Morin come base di ogni avvio allo studio).
Il Principe e il Povero saranno invece incoraggiati a impegnarsi soprattutto nello studio delle STEM che (attenzione!) non sono le materie scientifiche ma un misto di scienza, educazione tecnica e informatica. Quindi non apertura al pensiero ipotetico e al dubbio, ma addestramento all’esecuzione di programmi, riparazione di guasti tecnici e scelta di applicazioni che lo stesso promotore del Piano produceva e vendeva.

Non staremo qui a parlare di conflitto di interessi, perché noi stessi scriviamo queste righe in scienza e coscienza, ma anche in palese conflitto di interessi perché è proprio nel campo che si vuole riformare che abbiamo maturato le competenze e le esperienze che ci mettono in condizione di giudicare quanto ci viene proposto; possiamo però indicare una “struttura” alle spalle di certe proposte educative che tenta di prodursi un’infanzia e un’adolescenza calibrata sulle proprie esigenze, esattamente come hanno fatto tutte le realtà economiche che l’hanno preceduta.

Al Principe, che a casa ha le apparecchiature più costose, le STEM piaceranno e le troverà facili, il Povero, come tutti i poveri del mondo, si toglierà qualche soddisfazione con la geometria e il calcolo, ma resterà indietro ogni volta che ci sarà bisogno di spendere o di farsi spiegare qualcosa dai genitori.

Anche gli insegnanti andranno a scuola di STEM e di hi-tech, al sabato, con i docenti i materiali e gli strumenti forniti dai privati a certe scuole (non a tutte) e dovranno impegnare se stessi e i ragazzi in gare di talenti su temi quali (in ordine, e l’ordine non è casuale): tecnologia, cultura, società.

Il tutto sottratto all’ “autonomia” degli insegnanti e gestito in modo molto centralizzato da un comitato di tecnici, burocrati e filantropi.

Se gli insegnanti cercavano di ridurre la competizione tra gli studenti e di applicare un approccio cooperativo, tutto sarà buttato all’aria dai nuovi Littoriali, oppure (peggio) declassato a “team building” con cui rendere la propria scuola più competitiva.

Quando il Povero arranca e il Principe ha una tempesta ormonale che gli fa perdere terreno, interverrà il coach proponendo alla scuola giochi di gruppo, attività di problem solving e tante altre ottime cose che rischiano però di ridurre a formulette motivazionali l’intera vita dello spirito.

Esageriamo? Facciamo una prova: il giorno della laurea fate leggere queste righe ai vostri figli, Principi o Poveri che siano, e chiedete loro cosa ne pensano. Se rispondono: “Le abbiamo capite e non ci è difficile rintracciarne le ascendenze in una certa teoria critica di sapore francofortese, che subiva il fascino ambiguo di certo pensiero decadente, ma sono tutte bischerate” complimenti a loro e tante scuse a Colao, se non le capiscono e perfino per leggerle devono sillabare le parole più inconsuete, punite voi stessi, non loro.

Si scrive laurea ma si dice attestato di qualifica: al termine del ciclo secondario il Principe andrà all’università ma i Poveri, che sono la maggioranza, se la loro squadra si sarà distinta nelle gare e avrà attirato l’interesse dei privati, avranno forse qualche possibilità di accedere a un corso di laurea professionalizzante, un percorso studiato apposta per loro e distinto da quello del Principe da muri che, per quanto siano burocratici e virtuali, saranno alti come quelli della Città Proibita.

Se il Povero fa quel che gli dicono potrà pagarsi gli studi e una parte delle spese con borse di studio emesse non più dalle Aziende Regionali ma da un unico ente centralizzato. Se arriva in fondo potrà fare un mestiere che piace a chi gli ha pagato gli studi nel settore della domotica o della crioconservazione. Naturalmente dovrà svolgerlo senza mai allontanarsi dalle Linee Guida e dalle parole d’ordine imperanti, pena la spendibilità ancora minore di un titolo di studio che nasce già come mera certificazione di competenze professionali.

Ora chi scrive non è inesperto della formazione professionale, ci lavora da circa venti anni e ha avuto modo di capire un po’ come funziona altrove e come non funziona in Italia.
E’ evidente che un meccanico tedesco, che all’esame deve dimostrare di essere in grado di costruirsi per intero un motore in officina, è avvantaggiato rispetto a chi ha scaldato la sedia in qualche corsetto per “ragazzi difficili”, ma è anche vero che una separazione netta tra didattica per Principi e formazione per Poveri, proprio in Italia non può che accrescere l’incomunicabilità e il divario tra chi teorizza e chi fa, o meglio tra chi comanda e chi esegue perché se chi comanda avrà la profondità e l’apertura mentale di chi ha stilato questo documento, poveri noi.

Per finire, qualche considerazione a proposito del linguaggio che sorregge i pensieri espressi nel Piano. Non sono le considerazioni di due quarantenni legati a un’idea di lingua e di scuola superati dagli eventi, ma quelli di una ragazza giovanissima che si bagna nello stesso mare in cui la task force si balocca con le sue barchette di carta.

Ascoltando la lettura del documento che stiamo commentando, ha detto “aria fritta”. Non capiva perché usare tanti paroloni anglofoni mentre sarebbe stato più comprensibile un linguaggio semplice e appropriato. Ha detto che quando si usa questo linguaggio significa che non abbiamo idea di cosa vogliamo esprimere.

*Chiara Rantini e Massimo De Micco