Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido

Divenire invertebrato è un libro-antologia in cui si alternano testi di rigore scientifico e di speculazione selvaggia, di fantascienza di serie B, di radicale critica sociale. Un patchwork di corpi concettuali eterogenei e non unificabili, programmaticamente queer, che invitano ad una lettura diffrattiva.

La ‘pratica della diffrazione’, che proviene dalla fisica quantistica, consiste nel leggere/legare insieme testi ‘metodologicamente viscidi’, cioè che sfuggono alla forma vertebrata della buona letteratura. Testi quindi ‘invertebrati’, senza confini disciplinari, scivolosi, non appiattiti in una unica categoria, caratterizzati da flessibilità metamorfica e tra(n)sformativa, che si possono leggere l’uno attraverso l’altro, alieni ad ogni lavoro di ri/taglio, che possono aprire a nuovi possibili. Il mondo non è solo vertebrocentrico, il divenire invertebrato, che non vuol dire ‘essere senza spina dorsale’, incrina l’egemonia della vertebra, destabilizza.

Molti in questi tempi si stanno occupando a vario titolo del mondo animale, alla ricerca di possibilità e modalità di esistenza totalmente altre, di modi differenti di immaginare. La non-umanità invita ad oltrepassare se stessi, per lavorare alla realizzazione di un mondo comune, fra compagni non per specie.

Il libro di cui parliamo è critico nei confronti dell’animalismo contemporaneo, ritenuto in parte moralistico e perbenista. Come direbbe Haraway, le posizioni che dominano il dibattito antispecista sono impensabili, nel senso che bloccano il pensiero, lo fanno girare a vuoto, sottraendogli la capacità di inserirsi produttivamente nei rizomi delle alleanze multispecie (pag 16). All’animalismo contemporaneo va il pregio di aver tolto dall’invisibilità le oscene sofferenze degli animali non umani, lo stermino di massa di questi ‘dannati della terra’, perpetrato dall’industria della carne o nei laboratori (scimponauti, animali brevettati, oncotopi, enviropigs, scrofe CG32 etc).

Atti contro natura

“Mentre specifici atti sessuali vengono criminalizzati e considerati immorali, lo sterminio degli animali, oltre ad essere normalizzato, naturalizzato, invisibilizzato e spacciato come costo ineludibile della produzione alimentare, sprofonda nel silenzio generale e non viene considerato un crimine” (pag 73).

“Il discorso su cui poggia l’accusa di crimine contro Natura ha sempre dato per scontato che la Natura sia una cristiana devota o, quantomeno, che operi in virtù di quella purezza da cui l’uomo è stato escluso a seguito dalla cacciata dall’Eden [‘il resort all-inclusive noto come Giardino dell’Eden’]…. E se invece la Natura fosse una zecca rossa, una perversa o una queer?! ( pg 70).

Il salto di specie e l’antispecismo viscido

Viviamo in un mondo informe, viscido e comune. E abbiamo bisogno di un antispecismo in grado di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone. A partire dall’abbattere le strutture arrugginite e tossiche delle classificazioni antropocentriche: i confini tra una specie e l’altra non sono così chiari e definiti come pensavamo. !Il salto di specie compiuto da SARS-CoV-2 mette in dubbio, se ancora ce ne fosse bisogno, l’impermeabilità delle classificazioni tassonomiche e, soprattutto, l’esistenza di una separazione abissale tra l’umano e il resto delle/dei viventi mortali e dell’inanimato” (pag 27). Di contro a questo homo sapiens che seguendo algoritmi automatici separa e categorizza, emerge l’antispecismo viscido, una visione ancora in fieri, che trae ispirazione da alcune correnti del pensiero critico contemporaneo, che esonda dai vari Animal Studies, dal Nature Writing.

L’antispecismo viscido cui si riferiscono Massimo Filippi e Enrico Monacelli, i due curatori di Divenire invertebrato, è intensamente politico: rifiuta la scissione fra umano e non umano ed il delirante ‘eccezionalismo umano’ , che soffoca ogni possibile ecologia della differenza. Non siamo il punto finale della progressione evolutiva della vita, non c’è un progetto divino. Possiamo ipotizzare che la natura non sia il prodotto finito di un autore esterno, ma il prodotto infinito di un attività interna. Homo sapiens non è l’apice della creazione, in cima alla catena alimentare e alla aristotelica scala naturae, il mondo non gli è asservito né costruito a sua immagine e somiglianza e neppure ordinato, razionale e immutabile. La Terra può continuare a vivere/morire senza di noi; è già accaduto e certamente accadrà in futuro. “Dovremmo sapere, infatti, che quello che, con poco acume e tanta arroganza, chiamiamo ‘la nostra specie’ altro non è che una fra le tante contrazioni aggroviglianti e vischiose della materia, una delle molteplici ‘forme – di- vita/morte’ tra le miriadi che l’hanno preceduta, che la seguiranno e che la circondano. L’idea, tanto diffusa quanto impensabile, che l’umanità sia eccezionale è un funesto ed esiziale delirio allucinatorio da cui intendiamo prendere congedo-presto e risolutamente.”( pag 20).

Da qui anche la messa in discussione  dei termini Antropocene e Capitalocene, “non per sminuire la responsabilità umana e capitalista nei confronti di un pianeta che versa in condizioni terminali”( pag.21), ma per infliggere una ferita al costato del nostro orgoglio di specie. Il capitalismo non è un sistema sociale eterno e insuperabile, può crollare, così come stanno crollando le cattedrali. Tornano a vivere quei mostri medievali, ‘guardiani’, scolpiti all’esterno, sopra i portali, lungo i doccioni delle chiese. I mostri non esistono se non come prodotti della grande macchina classificatoria che chiamiamo ‘Occidente’, scrive nella prefazione Alessandro Dal Lago.

I saggi contenuti in questo libro fanno emergere l’umido viscidume del vivente, ‘l’infero informe’, l’abbietto, il mostruoso, il corporeo e il terrestre, l’humus e il compost, a dispetto dell’iperuranio delle forme celesti. Protagonisti diventano i rettili, i mostri partoriti dalla nostra testa, gli insetti, le zanne ricoperte di bava, le squame rilucenti, creature viscide come stelle marine, polpi, meduse, kraken (creatura proveniente da incubi abissali), una fitta moltitudine di genitali ectopici. Non per emettere sentenze o per esibirne sensazionalmente la queerness, ma per farne sopravvivere la potenze sovversiva e aprire possibilità di fuga verso ‘terrein vagues’ che si aprono tra binarismi e dicotomie.

La pervasiva queerness della natura

La natura e le sue creature sono entità queer, scrive Karen Barad nel capitolo intitolato ‘La performatività queer della natura’, perché la loro comprensione resiste a qualunque significato fisso. La queerness produce termini privi di referenze stabili, “molteplicità in selvaggia differenziazione”, dinanzi alle quali non esiste alcuna distinzione fondamentale o inamovibile. Laddove lo specismo erige enclosures e compartimentalizza gli enti in un deleterio ciclo di separazioni ed etichettamenti, la macchinazione queer della natura produce “connessioni e responsabilità”, modalità di pensiero in cui la causalità, l’agency e la relazionalità riflettono in un avvolgente movimento continuo l’immanenza della materia a se stessa.

Quello che Bruce Bagemihil sostiene, cioè che “comportamenti omosessuali sono stati osservati in più di 450 specie diverse di animali in tutte le principali regioni geografiche del pianeta” (B. Bagemihil, Biological Esuberance Animal Homosexuality, Stonewall Inn, New York,2000), non descrive che una minuscola porzione di universo, dal momento che ci sono un’immensità di creature queer, che non rientrano in quella lista, come per esempio tutte le forme di vita non animale (amebe, piante, virus) e la moltitudine di forme di esistenza che consideriamo inanimate ( pag 70).

C’è da imparare dalle amebe sociali

Le cosiddette ‘muffe melmose’ sono formate anche da miliardi di amebe, ed hanno la caratteristica di spostarsi in modo efficace. In Texas ne hanno trovata una di circa 12 metri di diametro. “Vorrei ringraziare le amebe – scrive Barad nel concludere l’introduzione del suo saggio – compagne eccezionali rimaste al mio fianco per diverso tempo e per lunghi tratti di strada, per avermi assistito nel tentativo di denunciare le culture moraleggianti che diffondono il virus dell’odio genocida e che distruggono la diversità ecologica necessaria per l’esistenza stessa”. Le amebe sono esempio di un comportamento queer/sociale: gli zoologi le classificano come animali, i botanici come piante, i micologi come funghi, le amebe confondono la natura dell’identità e i binarismi propri di una prospettiva antropocentrica e specista; sono chiamate amebe sociali perché quando hanno disponibilità di cibo si comportano come amebe individuali, se invece le risorse di cibo scarseggiano, si aggregano formando assemblaggi multicellulari, di consistenza gelatinosa, simile a quella delle lumache ( da F.Timeto, Bestiario Haraway, Mimesis/Eterotopie, 2020).

Ameba che coltiva batteri

Il dinoflagellato queer

Queer non è un termine ad effetto, laddove eccentrico o strano sarebbero stati ugualmente adeguati, né vuole semplicemente alludere a pratiche sessuali queer, col rischio di essere irrispettoso per la comunità LGBTQI. Comportarsi in modo queer, sta a sottolineare, la fluidità di creature, che sfuggono ad ogni classificazione, che non hanno un’identità circoscritta, né una forma fissa, che sono connettive e simpoietiche. Dove simpoiesi sta per il divenire in comune del mondo.

Il dinoflagellato Pfiesteria piscicida è un esempio della performatività queer della natura, della indeterminazione ontologica, è un protista dal comportamento mixotropico: in presenza di pesci diventa un killer e li uccide, anche a milioni, essendo all’origine delle cosiddette ‘maree rosse’; in assenza di pesci diventa alga. Un animale che vive in un feedback continuo con il contesto in cui vive, cui si aggiusta. Vive sul fondo del mare incapsulandosi in una sorta di cisti protettiva in cui può resistere per anni senza cibo, ed è risvegliat* solo dalle feci dei banchi di pesci che si depositano sul fondo; nuotando per mezzo dei suoi flagelli aderisce ai pesci, paralizzandone il sistema nervoso centrale tramite una neurotossina, e si nutre dei loro globuli rossi; una volta nutrit* si reincapsula nella sua cisti sul fondo del mare ( da F.Timeto, Bestiario Haraway).

Ontologia quantistica

Karen Barad nelle conclusioni del suo saggio, scrive: “ho proposto un’ontologia del realismo agenziale, che si potrebbe anche definire ‘ontologia quantistica’, fondata sull’esistenza di fenomeni anziché di soggetti indipendenti”, una sfida all’ontologia classica-quella visione del mondo che postula l’esistenza di entità discrete che interagirebbero tra loro secondo una casualità localmente determinata, in cui il mutamento sarebbe il risultato di un evento (la causa) che provoca un altro (l’effetto) e in cui le cause effettuerebbero il moto delle entità attraverso lo spazio e lungo il flusso lineare del tempo. Questa prospettiva dell’ontologia classica è stata messa in dubbio dalla performatività queer della natura.

“Siamo compost, non siamo mai stati umani: nulla ci sottrae al vivere con, nel suo retrocedere e incedere senza sosta” (F.Timeto).

Massimo Filippi e Enrico Monacelli, Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, ombre corte, Verona 2020, pp. 160, € 15.00.

*Gian Luca Garetti