Il parco del Pollino: com’era, com’è e come potrebbe essere

Il Pollino, venticinque anni dopo la sua prima apparizione trasmessa anche agli altri oltre me stesso. E’ la data della mia prima venuta o andata, secondo la si voglia considerare essendo lì, magari con l’affetto e la memoria, o qui, ripensando a lì. Non si può dire in cinque volte non abbia tentato tutto (in senso comunque relativo, s’intende, perché il tutto in queste cose non esiste e se è completato, torna il desiderio di ripercorrere ciò che è risultato più caro o più ingrato per veder se lo è meno).

Come ne ho avuto sentore venticinque anni fa? Non ho memoria sufficiente per ripercorrere a ritroso, d’altronde chi va in montagna da sessant’anni e tanto ha percorso in Italia e fuori può ben confondere tempi e luoghi; probabilmente qualche consiglio di amico, poi approfondito, mi ha indirizzato in Basilicata che toccai per la prima volta e timidamente in viaggio di nozze che arrivò fino a Matera, rivista quest’anno con lo stesso amore destato da allora e non mutato nel tempo.
Ma ora al Pollino perché è su di lui che intendo indirizzarmi e non per descrivere salite e percorsi ma per andare su come lui è e si è mantenuto o peggiorato nel tempo.

Il parco più grande d’Italia, sito nel centro sud della Basilicata fino a inoltrarsi in Calabria, ricca di villaggi albanesi frutto di immigrazioni forzare per fuggire l’impero ottomano, oggi ridotti – e probabilmente altro non sarebbe possibile – ad un insieme in cui essere albanese al di fuori della propria terra è non essere od essere altro, prima un misto, poi sempre più un italiano in divenire con una cultura di origine che si perde stemperandosi. E’ il frutto della immigrazione forzata: non essere più per esser forzatamente altro e forzatamente dimenticare in oltre cinquecento anni da non esser lì ciò che si era lì.

La prima volta che arrivai al Pollino da Firenze lo feci in autobus dormendo a Lauria e andando il giorno dopo, chiedendo un passaggio, al rifugio De Gasperi, oggi e da vari anni, chiuso. Su consiglio, poi, del gestore del rifugio, mi mossi abbondantemente in zona e nei dintorni, a piedi o ricorrendo ad autostop compiacenti verso un barbuto già attempato ma non privo d’iniziativa e volontà. Il parco era in condizioni disastrose, indegne del titolo di parco che significa, o lo dovrebbe, zona protetta:
1) nessuna segnalazione sentieristica, se non irrisori (quando presenti) cartelli iniziali;
2) massima incertezza nel procedere per scegliere il sentiero giusto, spesso frammentato in rivoli diversi e ripetitivi;
3) pericolosità dei percorsi non indifferente, causa crolli e smottamenti del terreno sottostante;
4) non infrequente impossibilità di tornare al luogo di origine con una alternativa non ripetitiva;
5) non assenza di animali (vacche, vitelli e cavalli per lo più) sui percorsi o sentieri, presenza di cinghiali e serpenti;
6) rarità o assenza di punti di riferimento come rifugi;
7) assenza totale di personale come guide, guardie forestali ed altro;
    e quanto ancora si voglia aggiungere.

Il parco venticinque anni fa era completamente abbandonato a se stesso e chi lo frequentava lo faceva a suo rischio e pericolo. Nel corso del tempo (ripeto, ci sono stato per cinque volte in compagnia e non e chi era con me può testimoniarlo) non è cambiato nulla nella sostanza che è quella che conta, la sostanza è peggiorata e si vedrà come.

Un parco in senso lato, un parco come il Pollino che non è solo elevazioni che fan dire di lui essere un massiccio, ma d’intensa estensione anche a quote più basse e collinari che comprendono decine se non centinaia di ettari di terreni coltivabili e/o da destinare a pascolo variegato, appartiene prima di tutto a chi lo abita e vi risiede fino al momento in cui deve forzatamente emigrare in assenza di lavoro e di sostentamento e la Basilicata in tal senso è terra da abbandonare, non perché non abbia ma perché politicamente non si vuole che abbia. Cosa? Abitanti, residenti che ci vivano (meno di 600.000 in tutta la regione). L’interesse primario oggi è estrattivo, distruggere suolo e sottosuolo (marino compreso) per estrarre ciò che giova altrove, il resto se ne vada, non conta nulla. Se un parco come il Pollino appartiene in primo luogo a chi è lì, è sostanzialmente chi è lì che deve curarlo. Come?

1) Coltivando il territorio dove possibile, rispettando la natura del luogo. Non deve esistere terra abbandonata a men che non sia deserto non recuperabile, come non deve esistere casa abbandonata; ciò che è abbandonato significa che non ripaga e non dà, ma il dare e ripagare deve essere incoraggiato da adeguato sostegno. Poi la libertà di andare altrove resta, ma essa non va confusa con la costrizione. Questione primaria e di fondo;
2) creando e ripristinando una sentieristica visibile e opportuna e naturalmente sicura per chi i sentieri intende percorrere e che possono essere di varia difficoltà (il fruitore ne terrà conto, opportunamente informato);
3) segnando opportunamente i sentieri con le usuali segnaletiche in uso e con cartelli che indichino inizio e tempio/i di percorrenza con esattezza;
4) mettendo in sicurezza sentieri e/o percorsi naturalmente difficili;
5) spostando a valle e dove possibile il pascolo, non necessariamente al di fuori del parco ma non nel suo cuore che, pascolo, ormai non ha più – purtroppo – confini;
6) intensificando rifugi e/o punti sosta;
7) creando personale regolare e non gratuito che attentamente il parco osservi e chi lo frequenta pure, anche con il fornir notizie su luoghi e ambienti e vicinanze e tempi di percorrenza ulteriori;
Altro è possibile fare ed altro si può fare:
8) curando i boschi, nel senso di togliere piante secche cadute e/o rami, i più vistosi naturalmente, il resto è ben che giaccia in basso ad arricchire con le foglie il sottobosco; argomento assai delicato ma da non trascurare in una complessità come il Pollino;
9) proteggendo il tesoro del pino loricato, sola presenza in Italia di una pianta del genere di provenienza albanese; il pino è circondato fino a 2.000 metri di altezza dal faggio che giunge ad una quota che è il doppio della sua in condizioni normali e ciò si spiega con la latitudine; il pino va tagliato se è irrimediabilmente secco e pericoloso (la serra delle Ciavole e non solo è densa di pini morti) che poi “resuscita” con un nuovo rampollo, al faggio va impedito di andar troppo su a dar noia ad altro da lui.

Non è certamente finita, è finita la memoria di chi scrive che altro non rammenta. E’ ovvio che l’insieme degli interventi citati ha da essere continuo e non cessar mai; il parco vive e si trasforma e così gli interventi. Che, se specialistici, posson esser supportati ma non lasciati nelle mani degli specialisti. Il parco – ripeto – è di chi ci vive; chi aiuta, lo si retribuisce, ma aiuta e basta, non dispone e comanda. Si tenga conto che se chi abita il parco lo sente come suo e ne ricava i frutti, la maggior parte di quanto accennato sarebbe a costo zero od assai ridotto.

Com’è oggi il parco a distanza di venticinque anni? Dicevo più su che la sostanza è peggiorata. E’ ora di vederla quella sostanza. E per riandare a venticinque anni fa e prendendo a modello le mancanze elencate:
1) la sentieristica messa in piedi è puramente formale: non sempre facile a individuarsi, spesso sbagliata nei tempi di percorrenza, a volte iniziata e non completata (esempio clamoroso – ma è solo uno tra i tanti – la Coppola di Paola, non segnata dalla parte di piano Ruggio, iniziata e non portata a termine dalla parte del rifugio Fasanelli);
2) procedere per scegliere il sentiero giusto, a parte le salite più note, è spesso non facile e deviare può divenir costante; è come se i percorsi fossero ritagliati ad uso e consumo di chi – cacciatore, cercatore di funghi, pastore ed altro, locale – si muova nella zona e chi – “straniero” – debba arrangiarsi;
3) la pericolosità di certi percorsi (uno dei più noti e di molta attrattiva per la sua bellezza intrinseca, fosso Jannace, ma anche la salita al Pollino, forse a causa di un vasto smottamento che interessò tutta la zona prospiciente il piano Gaudolino e distrusse una facile via di discesa ora scomparsa) perdura e rimane costante; farsi male, uscire indenne dal Pollino può essere e non essere; è come se il parco fosse ritagliato per gite domenicali da fare in macchina, girellando a piedi sui piani più noti senza chieder altro;
4) presenza degli animali asfissiante: vacche con vitelli, cavalli, capre e pecore con cani annessi, se è il caso – e lo giudica il pastore quando c’è – sono ovunque, invadendo ogni zona, strade, boschi e sentieri compresi (piano Ruggio, piano Gaudolino, piano di Visitone con le fonti d’acqua ne son pieni, sono ormai degli animali che mangiano, brucano ovunque, inondando l’insieme di piscio e merda per i loro bisogni); anche la cima del Pollino ha le sue merde d’ordinanza; il parco è un pascolo totale e chi ci va ha da tenerne conto, non è scontato che gli animali – cani da guardia compresi – siano mansueti;
5) permane, costante, scarsità di rifugi, essi chiudono invece che aprirsi;
6) presente qualche guida, ma personale a sorveglianza e difesa del parco non esiste e per difesa e cura s’intende, come già affermato, cura dei boschi e dell’insieme.

Come venticinque anni fa e peggio di allora il parco è completamente abbandonato o, meglio, è altro dalla sua definizione: è un luogo dove andare a passare, aiutati dalla macchina, qualche piacevole ora di permanenza, facendo passeggiatine d’uso, mangiando qua e là pane e formaggio che, per esempio, a piano Ruggio si trovano su bancherelle, o portandosi cibo da casa e accomiatandosi magari con qualche oggettino ritagliato e da porre sul comò.

Il parco del Pollino non è un parco, non lo è mai stato, men che mai adesso. Quando si tentò di dargli fuoco e di dar fuoco in primis al pino loricato or son circa vent’anni, ero ancor lì in compagnia ed alloggiavamo al rifugio De Gasperi. Portammo, ricordo, una o due taniche vuote di petrolio o benzina al rifugio e le mostrammo al gestore: ne prese atto e tutto finì lì. Chi erano gli autori dell’evento? Non ne ho idea e non so se sia mai stato chiarito; gente del posto, naturalmente, o incaricati dalla gente del posto. Perché c’è anche gente così, che desidera apertamente altro da una zona in qualche modo “protetta” a suo modo di vedere, non dal mio e le presenti riflessioni lo affermano apertamente. Essi volevano arrivare apertamente ad un indirizzo speculativo, fatto di case, alberghi che allontanassero vincoli per loro inaccettabili, volevano una soluzione come al Gran Sasso con la costruzione di un albergo che poi crollò con decine di morti. Beh, non si può dire abbiano perso, han perso solo l’aspetto più visibile, la degenerazione del parco va avanti da sola. Distrussero in ogni modo la grande porta del Pollino o ne iniziarono la fine arrivata adesso.

Amare il Pollino com’è e si presenta è istintivo e naturale se si amano queste cose e l’insieme. Amare il Pollino per come dovrebbe essere è amare un’armonia che fonde bellezza con se stessa. E’ questo che bisogna trovare e che non c’è: sta principalmente a chi è lì trovarle.

*Roberto Renzoni