L’ipocrisia sull’abolizione della pena di morte in Toscana: quando l’oppressore diventa mito

Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana dal 1765 al 1790,  abolisce la pena di morte nel 1786, ma la reintroduce nel 1790. Sostiene con forza ed impegno la reazione realista contro la rivoluzione francese in difesa del regno della sorella Maria Antonietta. Pietro Leopoldo è un uomo che nei momenti chiave ha scelto l’ancien régime e che appartiene al casato Asburgo Lorena, da sempre ben noto simbolo di reazione e oppressione.

È un uomo da festeggiare e ricordare come paladino della giustizia? I fatti dicono di no.

Dal 2001 la Regione Toscana ha istituito la festa commemorativa del 30 novembre, per ricordare il giorno in cui ricorre l’anniversario della riforma penale che prevedeva l’abolizione della pena di morte, promulgata nel 1786 da Pietro Leopoldo.

Tuttavia l’abolizione della pena di morte ebbe breve durata. Nell’aprile 1790, un mese dopo la partenza di Leopoldo per Vienna per diventare imperatore del Sacro Romano Impero con il nome di Leopoldo II, scoppiarono tumulti in tutto il Granducato, soprattutto a Firenze e Livorno.

Leopoldo II prima di insediare come suo successore il figlio Ferdinando III il 22 febbraio 1791, reagì con una dura repressione che portò al ripristino della pena di morte, che i suoi successori non avrebbero mai più abolito. Solo il 30 aprile 1859, dopo la fine del Granducato, venne abolita di nuovo la pena di morte rifacendosi alla legge di Pietro Leopoldo che tuttavia lui stesso aveva cancellato.

Fratello di Maria Antonietta, regina di Francia e di Maria Carolina regina di Napoli, Pietro Leopoldo si impegnò per evitare che la Rivoluzione francese uscisse dai confini francesi, invitò il governo francese con appelli a salvare le sorti del regno e si rivolse poi direttamente ai realisti sostenendo la presa delle armi contro i rivoluzionari. Fece una vera e propria crociata contro la Rivoluzione francese. Nel 1790 forzò centinaia di servi boemi liberati dal fratello Giuseppe II a tornare alla servitù dei loro vecchi padroni.

È questo un uomo da festeggiare e ricordare come un paladino della giustizia sociale? Decisamente no.

La distinzione fra oppressione e libertà non può comportare dubbi, né nel passato, né nel presente.

Altrimenti, cosa ci possiamo aspettare se non oppressione raccontata come libertà?

Marvi Maggio