Processo TAV Firenze: scattano le prime prescrizioni ma il vero problema è politico

Sono passati molti anni dalle inchieste della Magistratura fiorentina sui lavori del sottoattraversamento alta velocità di Firenze, e per questo sono scattate le prescrizioni per i reati di truffa, reati che comunque tanto minori non sono; basta ricordare che si trattò del tentativo di fornire conci per la realizzazione dei tunnel che non sarebbero stati in grado di sopportare un eventuale incendio. Un evento del genere avrebbe provocato il collasso della galleria e una voragine in superficie, là dove c’è una città.

Restano in piedi i reati quali corruzione e traffico di rifiuti; il filone dell’inchiesta che vede tra gli altri l’ex presidente della Regione Umbria Maria Rita Lorenzetti è stato trasferito a Roma; speriamo che questo non sia l’ingresso in un porto delle nebbie.

È bene ricordare che le inchieste su questi aspetti partirono da un esposto del 2010 dell’allora consigliera comunale Ornella De Zordo, elaborato dagli studi e analisi dei tecnici del comitato che denunciava, già dal 2006, le anomalie del progetto da vari punti di vista, compreso lo smaltimento delle terre di scavo. Un segno che le denunce di cittadini e di serie opposizioni hanno spesso fondamenta solide. A questo proposito, è di questi giorni la notizia che la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di primo grado con la quale il tribunale di Firenze aveva assolto tutti e 17 gli imputati nel processo relativo a presunte irregolarità nello smaltimento delle terre di scavo prodotte dai cantieri per la terza corsia dell’autostrada A1 tra Firenze e Bologna. Una delle accuse principali riguarda proprio l’uso del materiale di scavo, usato per realizzare opere di supporto, come raccordi o svincoli, invece che essere trattato come rifiuto.

In generale, quello che più interessa è il quadro che le inchieste hanno fatto della vicenda TAV fiorentina. Eventuali condanne certamente sanzionerebbero comportamenti illeciti – e questi sono inoppugnabili – ma sarebbero una magra soddisfazione nel vedere qualche responsabile dietro le sbarre.

Il grande merito delle due inchieste è quello di aver rivelato lo “stile” con cui vengono realizzate le grandi opere italiane, soprattutto se il modello contrattuale usato è il general contractor: restano indelebili nella memoria di chi non ha smesso di denunciare l’assurdità del progetto lo sberleffo, il disprezzo, l’arroganza da parte dei costruttori e dei politici che emergono dalle intercettazioni fatte dai carabinieri nei confronti dei cittadini preoccupati e di chi denunciava le anomalie; nessuna condanna potrebbe ripagare il vulnus alla città e alla collettività.

Le inchieste del 2013 chiedono, più che condanne, soluzioni politiche; sono il ritratto impietoso di un “sistema” che saccheggia le risorse pubbliche, danneggia l’ambiente e non risolve i problemi del trasporto. I fatti emersi dalle pagine degli atti, adesso al vaglio del tribunale, raccontano un sistema corruttivo di porte girevoli tra politica e imprenditoria predatoria attente soprattutto ai loro interessi personali e di bottega. Come non ricordare le parole della presidente di Italferr dal 2010 al 2013 Lorenzetti che si vantava di “essere una squadra” composta di politici di tutti i colori, funzionari pubblici infedeli, avidi parenti, per favorire aggiustamenti delle norme e degli atti in cambio di commesse, promozioni, carriere? Non a caso la seconda inchiesta – che, tra l’altro, portò alle dimissioni del Capo della Struttura tecnica di missione del Ministero dei Trasporti, Ercole Incalza – si chiamava “sistema” perché faceva un quadro avvilente e vergognoso di cosa accadeva dentro il Ministero dell’Ambiente e soprattutto nel Ministero dei Trasporti; nei decenni precedenti vi si erano alternati ministri di tutte le correnti politiche, ma dove il vero sovrano era il già menzionato Ercole Incalza; questi decideva le infrastrutture da costruire e a chi affidarne la realizzazione con un sistema clientelare che distribuiva gli appalti plurimiliardari e in cui si infiltravano tutte le mafie possibili (a Firenze la faceva e la fa da padrone la camorra). La regia di questo “sistema” era istituzionale e imprenditoriale, aveva – ed ha – il suo cuore nelle istituzioni.

Nessuno allora ne voleva parlare e oggi nessuno vuol ricordare quei fatti; le risposte politiche alla denuncia dei coraggiosi pubblici ministeri Gianni Tei e Giulio Monferini non ci sono mai state, nessuno ha mai messo in discussione le norme criminogene (parole di Raffaele Cantone, già presidente dell’Autorità Nazionale Anti Corruzione) alla base della realizzazione delle grandi opere quasi sempre inutili, cioè il general contractor e il project financing.

Al contrario, ancora oggi questi perfidi meccanismi sono ancora considerati strumenti innovativi e praticamente gli unici cui possono ricorrere istituzioni locali e nazionali; il disastro dei cantieri incompiuti, inutilizzati, gli impatti, i debiti, i fallimenti sono lì a denunciare l’inefficienza di un sistema senza un progetto complessivo in cui l’unica cosa che conta è “fare”, anche se si fanno cose sbagliate e dannose.

Oggi le persone sono assordate da decenni di annunci di “lavori strategici”, di “fare presto e bene”, di “rilanci del paese” che non avvengono mai. Ormai l’opinione pubblica è assuefatta alla retorica del “fare” e sono in pochi, purtroppo, quelli che si chiedono se le cose da fare hanno un senso. La distanza abissale tra il mondo politico-economico e la società reale ha creato una bolla mediatica in cui anche la democrazia è una parola vuota che ricorda solo come, ogni tanto, si deve mettere una croce per decidere chi gestirà il disastro in cui stiamo sprofondando da tempo.

Al tempo stesso la miriade di resistenze sui territori, la nascita di movimenti consci del precipizio su cui ci affacciamo, dimostra che l’antidoto al penoso spettacolo dato da questa politica esiste, ha le idee e le proposte per creare l’alternativa di cui c’è urgente necessità.

*Tiziano Cardosi