25 gennaio. A dieci anni da piazza Tahrir, lo spettro della rivoluzione si aggira ancora per l’Egitto

Il decennio appena trascorso ha visto un numero straordinario di proteste di massa. Nel solo 2019, l’ultimo anno prima che il diffondersi della pandemia mondiale frenasse le mobilitazioni di piazza, un’ondata di grandi sollevazioni popolari ha attraversato il pianeta: dal Cile a Hong Kong, dal Sudan a Porto Rico.

In questo quadro di grande fermento delle masse, un posto speciale spetta certamente al Medio Oriente e Nord Africa. La regione ha vissuto dieci anni di intenso fervore rivoluzionario, che per ragioni di semplicità possono essere raggruppati in due principali ondate. La prima si è sviluppata tra il 2011 ed 2013, la seconda ha invece riguardato il 2018–19. Il riferimento al Medio Oriente e Nord Africa è però esemplificativo anche di un altro trend che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni: l’incapacità dei movimenti rivoluzionari di trasformare profondamente la società. Per quanto infatti, sotto la spinta dell’azione delle masse, vari dittatori siano stati costretti a lasciare le redini del potere dopo decenni, in nessun caso abbiamo assistito ad una profonda trasformazione delle strutture di dominio e dei rapporti tra le classi. Il caso egiziano è emblematico al riguardo.

Non sembra esagerato considerare gli eventi intercorsi tra il 25 gennaio 2011 e il 3 luglio 2013 in Egitto come il più importante processo rivoluzionario della storia recente. In seguito ad un decennio di graduale accumulazione di energie rivoluzionarie a partire dalle proteste per la seconda Intifada palestinese, la dinamica degli eventi viene messa in moto dall’autonomo irrompere delle masse sulla scena politica proprio il 25 gennaio di dieci anni fa. La radicalità e forza delle proteste popolari determina il rapido disarticolarsi dei meccanismi formali e informali attraverso i quali il potere veniva gestito in Egitto, costringendo i militari a sacrificare Mubarak sull’altare della contro-rivoluzione. L’uscita di scena dell’anziano dittatore non ferma però, come sperato dall’esercito, la dinamica rivoluzionaria, che dalle piazze del paese si trasferisce ai luoghi di lavoro, aprendo una stagione intensissima di scioperi e proteste. Per svariati mesi, un vero e proprio “carnevale degli oppressi” attraversa le strade e le piazze egiziane, articolandosi in un fiorire di produzioni artistiche, poesie, canzoni e profondo disprezzo per gerarchie che solamente poche settimane prima sembravano eterne.

Niente è però più pericoloso di una “rivoluzione a metà”. Questa infatti apre spesso le porte alla più spietata violenza delle forze della contro-rivoluzione. Il colpo di stato militare guidato da al-Sisi il 3 luglio 2013 rientra in questa dinamica. Vi sono numerose ragioni che devono essere menzionate per comprendere l’assunzione di potere da parte delle forze armate. Alcune sono di natura istituzionale e concernono il ruolo di grande rilevanza politica storicamente giocato dai militari in Egitto. Altre riguardano invece la graduale trasformazione delle forze armate egiziane in una frazione della classe capitalista a partire dagli anni Settanta e il conseguente desiderio di queste di proteggere i propri interessi economici.

Eppure, quanto più discutiamo questi aspetti, tanto più ci allontaniamo dal cuore del problema. Le rivoluzioni sono processi, non eventi. Hanno quindi una durata nel tempo, ma non per questo sono eterne. Come spiegava Rosa Luxemburg, la loro logica è nei fatti abbastanza elementare. Il compito delle rivoluzioni è trasformare l’ordine in caos e il caos in un nuovo ordine qualitativamente diverso dal precedente. La rivoluzione egiziana ha fallito in questo secondo passaggio. Non è stato in grado cioè di proporre strutture alternative di potere che potessero gettare le basi per una completa e profonda ri-articolazione della società. Il tributo che oggi molti egiziani pagano per questo sono violenze arbitrarie, arresti sommari, torture, processi di massa e completa assenza delle più elementari libertà politiche e civili. Per non parlare poi del fronte sociale: disoccupazione di massa, povertà diffusa e massicce diseguaglianze.

Per quanto la rivoluzione egiziana sia stata sconfitta, questo non deve portarci a ritenere che niente sia accaduto. Le coscienze di milioni di uomini e donne sono state toccate nel profondo dallo spirito emancipatrice della rivoluzione. La cappa repressiva del regime dittatoriale di al-Sisi ne soffoca oggi l’espressione, ma non può cancellare per decreto le aspirazioni create dal movimento rivoluzionario. Queste rimangono vive sotto una fitta coltre dittatoriale. Pronte a riemergere, come sembra suggerire l’ondata di scioperi e proteste operaie che nelle ultime settimane ha investito il paese – dalla fabbrica di fertilizzanti chimici nel delta del Nilo alla grande acciaieria di Helwan, fino al mastodontico complesso tessile di Kafr al Dawwar.

A dieci anni dalla straordinaria insurrezione con epicentro in piazza Tahrir, la talpa rivoluzionaria continua a scavare in Egitto. E la speranza è che possa trovare il modo per spuntare fuori nuovamente.

*Gianni Del Panta