Istruzioni per la rivoluzione ecologica, il potere l’otteniamo facendo

  • Tempo di lettura:6minuti
image_pdfimage_print

C’è una grande tradizione politica che da sempre ci ha messo in guardia da coloro che ingenuamente credono che un buon comportamento individuale e collettivo sia sufficiente per cambiare il mondo o crearne addirittura un altro (Un altro mondo è possibile) attraverso una miriade di azioni positive tutte nella stessa direzione.

Questa tradizione politica non si è limitata solamente a denigrare o stigmatizzare questi comportamenti che in genere si definiscono “buone pratiche”, ma come è successo recentemente in Sudamerica, ha portato ad uno scontro violentissimo tra queste due visioni del mondo. Da una parte coloro che provengono dalle comunità indie, dopo centinaia di anni di persecuzioni hanno prodotto alcune delle migliori costituzioni nel mondo, quella ecuadoriana e quella boliviana, a prezzo di enormi sacrifici, anche di vite umane. Sono state scritte nero su bianco parole importanti: che lo stato deve rispettare i principi del “buen vivir”, del rispetto della biodiversità, della salvaguardia del territorio, della Pachamama (la Grande Madre Terra da cui si origina tutto), della fratellanza degli uomini con tutti gli esseri viventi, risorse comprese, come espressione di un equilibrio essenziale per la sopravvivenza del genere umano su questo pianeta. Dall’altra, un altro modo di vedere le cose, una visione anch’essa figlia di tremendi e sanguinosi sforzi per l’emancipazione delle classi più povere dei paesi emarginati, come ancora si definiscono, e che vedono nella conquista del potere un mezzo di liberazione e di sviluppo dalla fame, dalla povertà, dallo sfruttamento.

Perché queste due visioni de

l potere si sono scontrate così ferocemente? Il motivo dirompente è l’uso delle risorse naturali. Da un lato ci sono coloro che consapevoli che il pianeta abbia i giorni contati se non riequilibriamo velocemente il rapporto con l’ambiente, dall’altro ci sono coloro che pensano che solo lo sfruttamento delle risorse minerarie e petrolifere e la ridistribuzione della ricchezza potranno promuovere benessere e una buona vita per tutti. Da una parte gli indios, e non solo, convinti che le risorse debbano essere conservate e al massimo possono essere prelevate in minima parte sempre con una trattativa con le popolazioni locali, le comunità indie, le uniche che si ritengono portatrici di valori ancestrali di equilibrio con la terra e conservazione della foresta. Dall’altra gli eredi di una grande tradizione politica, figlia di una idea di sviluppo permanente e liberatore delle forze produttive.

Questo scontro non è inedito nella storia dei movimenti di emancipazione, ma oggi l’opzione finora dominante nei movimenti sudamericani e ispiratrice del conosciuto socialismo del ventunesimo secolo, sta mostrando il fiato corto. Equador, Venezuela, Brasile hanno costruito le proprie fortune degli ultimi anni sul petrolio a discapito di una visione più allargata dei problemi. Concentrandosi sulla distribuzione della ricchezza hanno perso le basi per un ulteriore passo in avanti, entrando in crisi, non solo economicamente, ma proprio come prospettiva per i prossimi anni.

L’errore fondamentale è stata la mancanza di una pianificazione collettiva.

Il ragionamento riguardava chi decide cosa. In una visione solamente quantitativa gli abitanti di un territorio sono solo dei capitati per caso su una superficie. Secondo una visione invece qualitativa chi abita un territorio ha una visione del mondo e del proprio ambiente tale da di vedere al di là dello sfruttamento immediato delle risorse naturali. Se fosse stato messo in campo, come chiedevano gli indios, un processo partecipato dalla popolazione locale sul destino di un territorio, difficilmente avremmo assistito alla definitiva condanna del proprio paese ad una foresta di pozzi petroliferi, alle voragini eterne delle mega-miniere di rame da 60mila tonnellate al giorno1, alla deforestazione della foresta pluviale.

Su questi temi che si sta consumando la tragedia della sinistra sudamericana e non solo. Eppure la pianificazione appartiene al linguaggio della sinistra.

La parola pianificazione ricorda periodi della storia passata come i piani quinquennali dello stato sovietico. In realtà quella non era esattamente la pianificazione collettiva. C’era un piano, ma era deciso essenzialmente dall’alto, senza ascoltare minimamente le esigenze o le peculiarità locali, ma anche le sue potenzialità. L’economia pianificata aveva enormi lacune dovute sostanzialmente a un movimento dall’alto verso il basso. La pianificazione collettiva invece è qualcosa che i toscani conoscono bene poiché c’è un esempio che può essere verificato positivamente. Si tratta del Piano di Indirizzo Territoriale del 2012. Nel breve periodo nel quale l’assessora Marson, della prima giunta Rossi, guidò l’assessorato all’ambiente ci fu un salto in avanti di programmazione pubblica. Tutti i soggetti di un territorio, ma anche tutte le conoscenze sociologiche, storiche, culturali, geologiche, imprenditoriali e sociali, istituzioni, singoli cittadini e associazioni, parteciparono alla stesura del Piano di Indirizzo Territoriale. Fu un grande passo in avanti nella gestione del territorio e nonostante i tentativi successivi di annullarne alcuni effetti per favorire la rapina del territorio, il PIT finora ha retto l’assalto.

Sappiamo bene che le sfide che ci troviamo di fronte, quelle ecologiche, ma anche quelle sociali ed economiche, l’integrazione che saremo costretti a fare tra queste grandi aree, avranno bisogno dell’apporto di tutti. Una valutazione esclusivamente quantitativa dei problemi e che prediligono soluzioni che prescindono dagli uomini e dalle donne di questo pianeta, ma ragionano come se il sistema industriale ed economico rimanga per sempre pressoché inalterato, è una soluzione monca, dal fiato corto. E la sinistra non può trovarsi divisa sulle grandi sfide della nostra epoca e una delle sfide maggiori che ci troviamo di fronte è la transizione ecologica.

Nessuna transizione ecologica, ma neanche nessuna trasformazione radicale dei sistemi metabolici ovvero di produzione di energia, di trasporto, di alimentazione, di


comunicazione, in passato sono rimasti indenni da trasformazioni sociali di altrettanto spessore. Non ci sono soluzioni calate dall’alto o piani europei in grado di trovare soluzioni valide e durature per tutti, ma è la creatività, l’autogestione, la condivisione e la solidarietà che sono la base vera dei cambiamenti.

Le soluzioni centrate su grandi impianti, su grandi realizzazioni, su grandi progetti non dovrebbero mai far parte di una sinistra ecologica, eppure non tutti sono convinti della pericolosità che sta dietro nomi altisonanti, visioni fantascientifiche, governi di salvezza nazionale.

I sistemi centralizzati sono ad alto consumo di capitali, quindi assorbono grandi quantità di fondi pubblici (di tutti noi) attraverso incentivi e trasferimenti diretti, allo stesso tempo, per questa fame di capitali di cui tutti i grandi sistemi centralizzati hanno bisogno, impediscono lo sviluppo di una transizione democratica, dal basso, partecipata, resiliente davvero, l’unica in grado di coniugare, territorio, risorse, impianti e popolazione di utenti, l’unica capace di rispondere alla domanda di energia riducendo al massimo gli impatti. Questa è la strada, solo fermando i grandi progetti, si possono promuovere i piccoli progetti sotto controllo popolare. Questa è pianificazione collettiva. Eppure non basta solo fermare i grandi progetti per aprire spazi per i progetti dal basso, ma dobbiamo aprire spazi facendo. Possiamo mettere in campo una pianificazione collettiva, possiamo tentarla, invitando tutti i soggetti interessati, promuovendo ricerche, forme di finanziamento orizzontali, forme di gestione cooperativistiche, interventi di alto valore sociale, in un progetto, in un piano, in una serie di obiettivi coordinati, con le sue priorità, con la dislocazione delle forze.

La transizione ecologica va governata dal basso e uno degli strumenti è la pianificazione collettiva. Oggi la pianificazione non verrà promossa da nessun governo, per ovvie ragioni, realizziamola noi, dal basso, facendola. Non c’è più tempo per conquistare il potere, il potere lo acquisteremo facendo.

  1. https://www.lastampa.it/blogs/2012/03/10/news/ecuador-mega-miniera-in-arrivo-investimenti-utili-o-solo-problemi-1.37253098/amp/ finora l’estrazione dei metalli in equador era su scala artigianale, lo scorso 5 marzo il governo ecuadoriano ha firmato un accordo con l’azienda cinese Ecua corriente filiale della Tongling-Crcc per l’estrazione di oro, argento e rame. Il governo riceverà 4miliardi e mezzo di dollari per la durata del contratto , ovvero per 25 anni. Ma è solo il primo di una serie di contratti miliardari di estrazione mineraria. Il sito è Tundayme nella Cordigliera del Condor nell’Amazzonia ecuadoriana. Altre fonti https://www.avvenire.it/mondo/pagine/amazzonia-1-tundayme-ecuador https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2019/07/09/ecuador-offensiva-le-miniere-illegali/
The following two tabs change content below.

Maurizio Rovini

Maurizio Rovini si è sempre battuto fin da ragazzo per aumentare la consapevolezza del popolo e della sua forza, della sua capacità di autogoverno, della produzione e dell'equa ridistribuzione, convinto che il modello capitalistico basato sul profitto sia una grave deviazione dall'equilibrio tra l'uomo e la natura. Il dominio dell'uomo sull'uomo si rispecchia nel dominio dell'uomo sulla natura e va combattuto senza violenza con la forza della ragione e della giustizia sociale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Captcha *