Quando l’Italia ha deciso di convivere con il virus

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L’ambiguità della frase “l’Italia ha deciso di convivere con il virus” è evidente. L’ambiguità di fondo che essa contiene viene poi amplificata nel momento in cui la narrazione dominante la eleva a vero e proprio mantra. Andando oltre la sua banalità in termini lessicali, la frase contiene ed esprime molto di più. In particolare, essa rispecchia un mondo. La semplice ripetizione del mantra riflette l’ordine delle cose della realtà che ci circonda.

Vanno però evidenziati alcuni aspetti. In primis l’Italia non ha mai preso una simile decisione (almeno non in termini plebiscitari). In secondo luogo, la decisione è intrinseca all’ordine del sistema e del modo di produzione che regola le nostre vite. E dunque si traduce nell’impossibilità, da parte dei vertici della nostra gerarchia sociale, di rinunciare alla produzione. E quindi nella deliberata volontà di perseguire l’accumulazione dei profitti anche alla luce di una pandemia globale.

Ed è da tali presupposti che si può ritenere legittima una tale “decisione”. Se si assume come naturale l’aprioristica predominanza del profitto sulla vita, la linea di coerenza fra l’affermazione in esame e qualsiasi dubbio a cui essa può dar vita risulta una questione che non merita poi tanta importanza. Da tale ottica, quindi, occorre soffermarsi su un altro tipo di decisione. Una decisione, cioè, non legata alle recenti modalità di gestione della pandemia. Occorre concentrarsi sul processo decisionale e storico che ha portato a ritenere legittimo il primato della produzione sull’esistenza di ognuno. Occorre poi interrogarsi sul fenomeno di mutamento della quotidianità individuale in rapporto ai processi decisionali assunti dal sistema economico politico che ci governa.

L’Italia si trova a convivere con il virus perché coloro che hanno assunto tale decisione non possono prescindere da concetti quali la produzione e il consumo.

Lo slogan 24/7, prodotto dal capitalismo del XXI secolo, alimenta sempre di più un concetto di massa che, mano a mano, sta entrando a far parte della nostra quotidianità. A ciò si ricollega la parallela distruzione del concetto di riposo. L’essere umano riceve così un invito. Il cui scopo è quello di far sì che la produttività e la capacità di consumare siano sempre e ovunque attive. Pertanto, per bloccare momentaneamente questo meccanismo, tutto ciò che rimane all’essere umano è il sonno.

La tecnologia odierna ha fatto di tale concetto la normalità, tramite l’automazione dei mezzi di produzione e portando l’uomo nei luoghi di lavoro anche di notte (una cosa del tutto impensabile prima dell’avvento dell’illuminazione elettrica quando il lavoro era strettamente legato al ciclo solare). Tutto questo per impedire che la produzione si interrompa. E questa è un’analogia con la “decisione” di cui stiamo parlando.

Il sonno, però, a discapito dei numerosi tentativi di rendere questo bisogno primario un bisogno secondario, rimane in ogni caso l’ultimo grande nemico della società dei consumi. Essendo questo l’unico ostacolo biologico, che si interpone per il raggiungimento dell’obbiettivo prefissato dal capitalismo odierno, ovvero il consumo e la produzione 24/7.

Sebbene quest’ultimo proposito sia stato parzialmente raggiunto grazie agli immani passi avanti della tecnologia, all’incessante produttività dei macchinari industriali e alla turnazione notte/giorno della manodopera, il sonno continua a rappresentare un handicap per la società dei consumi. Di fatti, un uomo che non adempie al naturale stimolo di riposo, presenterà sicuramente ripercussioni sulla sua salute1 non indifferenti. Ne consegue che egli non sarà completamente produttivo ed in grado di eseguire le sue mansioni lavorative. Allo stesso modo, non sarà in grado di consumare al massimo delle sue capacità e quindi di assolvere alle necessità che il libero mercato impone.

Gli effetti dell’automazione nella società dei consumi

L’automazione dei macchinari di produzione è un obbiettivo al giorno d’oggi parzialmente raggiunto. In mano alla dottrina liberista questo diviene fondamentale per l’ottenimento di una produzione senza sosta e senza tempo come quella descritta in precedenza.

Dalla rivoluzione industriale ad oggi, per merito di questa fondamentale innovazione in campo tecnico-industriale, si sono fatti grandissimi passi avanti tramite l’impiego massiccio di macchinari industriali automatizzati. Grazie a ciò si è riusciti a diminuire drasticamente la manodopera necessaria per la produzione. Diminuendo, in tal modo, sia i costi dei salari, sia lo sforzo fisico necessario per adoperare tali mezzi.

Una cosa impensabile agli inizi del processo industriale. Specie se si considera che fino all’avvento di tale innovazione si è sempre fatto grandissimo affidamento sulla manodopera operaia, in quanto il macchinario era solamente un ausilio dell’operatore. In tale ottica la forza fisica era indispensabile per compiere la maggior parte delle funzioni produttive.

Il paradigma subisce un ribaltamento con l’avvento dell’automazione. In questo contesto le sorti del lavoratore sono diverse, poichè grazie alla creazione di interfacce uomo-macchina e al generale automatismo dei macchinari, egli è in grado di adoperare alle sue mansioni produttive con un minimo sforzo.

L’automazione rivoluzionerebbe la società intera. La reificazione della forma di lavoro umana, portata alla perfezione spezzerebbe la forma reificata, tagliando la catena che lega l’individuo alla macchina, al meccanismo per mezzo del quale il suo stesso lavoro lo rende schiavo. L’automazione integrale nel regno della necessità farebbe del tempo libero la dimensione in cui primariamente si formerebbe l’esistenza privata e sociale dell’uomo. Si avrebbe così la trascendenza storica verso una nuova civiltà.”2

Tuttavia, nella nostra epoca di industrializzazione avanzata, è stata finora accantonata la prospettiva che vede la produzione automatizzata come un mezzo capace di rivoluzionare la condizione lavorativa dell’uomo. Secondo questa visione, infatti, è possibile costituire un mondo in cui si potrebbe lavorare molto meno, avendo in ogni caso accesso ad un maggiore benessere derivato dal tempo libero e dal riposo; tutto questo continuando a produrre quanto basta almeno per soddisfare appieno i bisogni dell’intera comunità3.

Piuttosto che seguire questo modello, si è preferito – in un mondo dove continua a persistere la logica finalizzata al raggiungimento del massimo profitto – portare avanti una produzione oramai divenuta perpetua, con ritmi lavorativi sempre più stancanti e con nuove dinamiche di sfruttamento: tutto questo per ottenere un profitto sempre maggiore4.

L’omologazione e la scomparsa di forme diverse di pensiero

Non è difficile affermare che la vera necessità della società consumistica sia quella di incrementare sempre di più un flusso ininterrotto di bisogni indotti dal consumo. Ponendo in tal modo quest’ultima in una condizione forzosa di dover essere consumatrice di ogni prodotto inserito nel mercato.

La massa diventa così oggetto di bombardamento mediatico5 a ogni ora della giornata.

L’uomo si trasforma nel fulcro dell‘era della iper-connessione.

Questo meccanismo è fin dalla nascita presente in ogni momento della giornata. Generando così le basi di una mutazione antropologica finalizzata alla creazione di un nuovo modello di individuo. Analogamente alla macchina per il consumo, il desiderio di acquistare compulsivamente è divenuto un bisogno intrinseco dei nostri comportamenti.

Prendendo come punto di partenza “i bisogni” dell’individuo, si arriva necessariamente al comunismo, come quell’organizzazione che permette il soddisfacimento di tutti quei bisogni nel modo più completo e più economico insieme.

Mentre che, partendo dalla produzione attuale e mirando solamente al guadagno o al plus-valore, senza però domandarsi se la produzione risponde al soddisfacimento dei bisogni, si arriva necessariamente al capitalismo.” 6

Non c’è motivo secondo la logica consumistica di riflettere sui propri comportamenti, essendo di fatto questi oramai diventati la normalità.

Secondo l’attuale fase capitalista, che tende a omologare gran parte della massa a un’unica e sola via, ovvero quella del neoliberismo, non c’è alcuna ragione di pensare ad un’altra prospettiva di vita dove le proprie condizioni possano migliorare. Magari con maggior tempo libero, con una nuova consapevolezza individuale e che consenta ritmi di riposo veri e propri, senza essere soverchiati dalla devastante quantità di stimoli che ci spingono al consumo.

Oramai è normale pensare che il libero mercato sia l’unica ideologia a nostra disposizione escludendo a priori qualsiasi alternativa.7

L’unico scenario possibile che si può evincere prendendo in considerazione questi fattori è sicuramente quello di un futuro incerto e certamente catastrofico sul piano sociale.

Alla luce della spietata conquista dell’impero del capitale che al giorno d’oggi è penetrata nella nostra consapevolezza, si può sostenere che sia condivisibile questa visione del mondo in cui il processo di assoggettamento più completo alla società dei consumi sia irreversibile, con ritmi di produzione incessanti e un sempre più scarno spazio delle nostre giornate dedicate al riposo.

Tutto ciò ha delle conseguenze anche sulle azioni normalmente compiute per vivere e sul lavoro individuale. Il lavoro spesso non è più volto ad una trasformazione attiva del reale ma solo all’applicazione di norme preconfezionate a realtà materiali predefinite. La necessaria ripetitività delle operazioni svolte nell’ambiente 24/7 è contraria alla consapevolezza dell’individuo.

La mancanza di una corrispondenza fra la consapevolezza delle masse e i meccanismi di controllo prelude ad un’assenza di prospettive migliorative. La necessità di evidenziare i subdoli meccanismi di controllo non è tuttavia da intendersi come elemento fondante per il più ampio ripristino della consapevolezza. Essa è anzi il primo passo.

Una volta menzionata la subalternità dell’esistenza individuale alla produzione, e quindi al profitto, e dopo aver fatto riferimento alle molteplici modalità di controllo del consumatore, sarà forse più semplice comprendere in quale contesto collocare la frase “l’Italia ha deciso di convivere con il virus“.

«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana».8

Lorenzo Villani e Marco Nutini


Note

1 Franco Roscelli, Maria Cristina Spaggiari, Maria Patrizia Accattoli, Sonno e lavoro, 2009, Pag.66-170 Libro-SONNO_Ver_15.pdf (asl.vt.it)
2 Herbert Marcuse, One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society [1964], tr.it. L’uomo a una dimensione. Torino, Giulio Einaudi Editore, 1967, p.56
3 Pëtr Alekseevič Kropotkin, La conquete du pein [1892], tr.it. La conquista del pane. L’ortica, 2012, pag.226-253
4 Pentti Seppälä, Flat organizations and the role of white-collar employees in production, 2004, https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0169814103001021#!
5 Giuseppe Fava, Mass-media e consumismo, i mostri del ventunesimo secolo. La “Società” post- moderna, 2014, Mass-media e consumismo, i mostri del ventunesimo secolo. La “Società” post-moderna | Viv@voce (vivavoceweb.com)
6 Pëtr Alekseevič Kropotkin, La conquete du pein [1892], tr.it. La conquista del pane. L’ortica, 2012, pag.150
7 L’ideologia liberista oggi ha completamente sbaragliato ogni forma di “concorrenza” in particolar modo dal crollo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ad oggi, essendo penetrata persino all’interno dei paesi dell’ex patto di Varsavia.
8 Pierpaolo Pasolini, “Corriere della sera”, 9 dicembre 1973, PASOLINI, CONTRO LA TELEVISIONE (filosofico.net)


Riferimenti bibliografici e sitografici

– Pëtr Alekseevič Kropotkin, La conquete du pein [1892], tr.it. La conquista del pane. L’ortica, 2012
– Herbert Marcuse, One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society [1964], tr.it. L’uomo a una dimensione. Torino, Giulio Einaudi Editore, 1967
– Pentti Seppälä, Flat organizations and the role of white-collar employees in production, 2004, https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0169814103001021#!
– Pierpaolo Pasolini, “Corriere della sera”, 9 dicembre 1973, PASOLINI, CONTRO LA TELEVISIONE (filosofico.net)
– Giuseppe Fava, Mass-media e consumismo, i mostri del ventunesimo secolo. La “Società” post-moderna, 2014, Mass-media e consumismo, i mostri del ventunesimo secolo. La “Società” post-moderna | Viv@voce (vivavoceweb.com)
– Franco Roscelli, Maria Cristina Spaggiari, Maria Patrizia Accattoli, Sonno e lavoro, 2009, Pag.66-170 Libro-SONNO_Ver_15.pdf (asl.vt.it)

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