Il dio che danza di Paolo Pecere

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Viaggi sulle tracce di “un dio straniero che viene da lontano, che cambia identità, che viene fatto a pezzi e si ricompone, che è uomo e animale, uno e molti, che finisce in catene, che le spezza, che libera. I Greci lo chiamavano Dioniso”. E’ il dio del sovvertimento, della sospensione collettiva dell’ordine sacro e civile dominante, che scioglie dai legami, che libera, che si rallegra dei conviti, che ama la Pace.
E’ il protagonista principale, celato sotto differenti maschere, dell’ultimo libro di Paolo Pecere: Il dio che danza. L’autore, che insegna Storia della Filosofia all’Università di Roma, racconta dei suoi viaggi di scoperta e riscoperta, della trance da possessione e sciamanica indotta dalla danza e dalla musica, che spesso sottende una denuncia politica. Dalla Grecia alla Puglia, al Brasile, al Pakistan, al Mali, al Kerala, ad Haiti, a New York.
Viaggi, trance, trasformazioni

Viaggi, non pianificati, non quelli previsti e risaputi del turismo, dove il viaggiatore vede solo se stesso, ma vagabondaggi nell’imprevisto e nell’ignoto, alla ricerca del dionisiaco. Un andare a tentoni, senza prendere la scorciatoia dell’esotismo, come quando si entra in una casa straniera e non si sa come comportarsi, per ‘ritrovare una freschezza di visione simile a quella dei bambini’, e spaesarsi in una sensazione di esistenza ampliata. L’io viaggiante, s’imbosca va in libera uscita dal presente che opprime, dalla vita di casa che sta stretta, alla ricerca di una rigenerazione, per arrivare a vedere ‘le cose sotto un’altra luce, altrimenti non potrà dire di essersene andato’. Si va al di sotto della superficie della abituale vita mentale, si allentano i vincoli della coscienza, si disattiva la rete di default, per metter da parte temporaneamente l’io, e lasciar spazio ad altre ignote parti di sé, rimanendone testimone. Storie che raccontano del comune bisogno di vacanza dalla propria personalità cosciente e dalle preoccupazioni immediate della nostra quotidianità, per recuperare una connessione diretta con il mondo più-che-umano. Morire a se stessi per aprirsi a qualcosa di più grande.
La giusta follia
Ma anche storie di marginalità sociale, di oppressione, di esclusione, in cui la danza e la musica diventano non solo valvola di sfogo, ma ‘giusta follia’ per consentire ai poveri, ai fuori casta, ai fuori genere, una presa di coscienza storica e sociale della propria condizione, presupposto indispensabile di riscatto, di ribaltamento della norma. Così accadeva nei Saturnali dell’antica Roma, nel Carnevale, nelle cosiddette epidemie di ossessi di San Vito, di San Giovanni (letteralmente la parola epidemia significa ‘l’arrivo nel paese’ di qualcosa che sconvolge) o nelle rivolte degli schiavi africani nei Caraibi e nelle Americhe di inizio ottocento, in cui il ballo, con un processo di entanglement biologico, donava alle persone oppresse un maggior senso di solidarietà, comunità e cooperazione. Così accadeva in Puglia, dove per secoli i tarantati, per lo più braccianti stagionali provenienti dai paesi più poveri, di solito all’inizio dell’estate, perdevano il senno fra gli uliveti, dicendo di essere stati punti da un ragno, la taranta appunto, e di avere incontrato San Paolo, che aveva offerto loro aiuto:
Questo è il grande giorno delle tarantate. Per una volta all’anno, esse scrollano il peso dei tormenti del loro numero anonimo nella società e della privazione dei diritti elementari, e possono recitare la loro disperazione davanti ad una folla di spettatori’, così Salvatore Quasimodo, ispirandosi alle teorie di De Martino, interpretava il malessere cifrato, il senso di riscatto che stava dietro lo spettacolo delle crisi. Al suono della musica, iniziavano a dimenarsi freneticamente, in una danza che durava giorni, accompagnati da gruppi di musicisti e cantori.“Papà perché devi andare? Dimmi perché/ Perché questa è la vita, poveri ragazzi/ il poverello lavora e suda per ingrassare i padroni col suo lavoro! Così, in Klama [pianto], Franco Corlianò [poeta e pittore di Calimera di lingua “griko”] esprime il dolore dell’emigrazione’. Ogni emigrazione forzata si porta dentro una ribellione. Se la terapia coreutica funzionava i tarantati si calmavano e andavano a ringraziare San Paolo. Ma la crisi per molti di loro sarebbe ritornata gli anni successivi.
‘Devi cambiare la tua vita!’
E’ la vocina che accompagna, è l’idea sempre più diffusa che le cose non possono più continuare ad andare avanti così. La crisi climatica, la

pandemia, le disuguaglianze sociali, le guerre, chiamano al cambiamento. In un altro senso si viaggia restando immobili, come lo sciamano che inspira la polvere di una pianta, si stende e abbandona temporaneamente il corpo-trance, transitus-sono viaggi che in comune con gli altri hanno lo stato transitorio di perdita di sé e del mondo quotidiano. Non importa andare in India. Se per ‘India’ si intende l’Altrove, come si è fatto per secoli in Occidente: ‘cioè un territorio in cui il furore tracima gli argini delle norme e l’io è sfilato come un guscio in intervalli di estasi’, in India già ci possiamo essere. ‘Non bisogna andare lontano per farne esperienza, tutti ne abbiamo avuto un assaggio. Il bambino plasma la materia con le mani e così crea un nuovo mondo in cui soggiornare’. Paolo Pecere nel libro ricorda il suo primo viaggio e le costanti discese estive nell’infanzia, in Puglia, una delle cosiddette ‘Indie di qua’. Le altre, per i gesuiti del Seicento, erano l’Abruzzo, la Sicilia e la Sardegna. Il bambino, che amava i cipressi, impara a fare monologhi silenziosi, in quei pomeriggi di controra, nella penombra: ‘Dopo pranzo si andava a riposare, cullati dalle zanzariere e dai rumori di cucina; dalle finestre un po’ socchiuse spiragli contro il soffitto, e qualche cosa di astratto si impossessava di me’ (da ‘Mal d’Africa’, di Franco Battiato). Scopre giochi di ruoli, diventa un creatore di scenari in cui invitare gli amici per far finta di essere tante persone. ‘Facciamo che io ero…’. Si mette anche a suonare tamburi, a muoversi, saltare, perché gli si è acceso un fuoco dentro, una energia che non si può contenere. I bambini sanno che il ballo è il più elementare modo di abbandono dell’io. A diciannove anni legge La terra del rimorso, di Ernesto De Martino. Quel libro, è un’agnizione. Con le sue scene di possessione e tamburelli, di simboli pagani e laici, dell’Immacolata Maria e di Gramsci, gli parla dell’ambivalenza di quella terra originaria, che porta regressione insieme a rigenerazione, miraggi e promesse. ‘Ci tornerà ogni volta per scoprire che lì il viaggio non finisce, ma inizia’.
Musica e danza, strumenti, comuni a culture diverse, per ‘rompere la normalità con il suo equilibrio, ma anche le sue strettoie’, con sensi e funzioni differenti, nei vari contesti, nei vari tempi, con un motivo culturale quasi onnipresente, quello di un dio o di uno spirito che s’impossessa del corpo e induce una danza frenetica e benefica, che la si chiami trance, possessione o estasi. Si tratta forse di un universale antropologico: l’abbandono dell’io come esperienza terapeutica e spirituale, il passaggio per l’identificazione con un altro (un essere vicino alla natura, spesso un animale) che induce visioni e trasformazioni nell’individuo e al tempo stesso mette in gioco le norme sociali o drammatizza un vero e proprio conflitto con la cultura dominante.’
Cosa si prova a diventare un dio?
Il thejjam, è un arcaico rituale popolare dell’India meridionale, che presenta una fusione tra trance da possessione, catarsi e politica, dove gli dei entrano nel corpo di danzatori di casta infima narrando storie di oppressione e libertà. ‘Lo scambio di identità tra dio e danzatore allude ad un aspetto sublime contenuto nella vita di ciascuno, poiché gli dei, anziché nascondersi in un remoto e imperscrutabile aldilà, vivono in tutti’. Così un danzatore racconta la sua performance: ‘.. a un certo punto del canto inaugurale, le percussioni vanno in crescendo. Allora sento un brivido. E’ il momento in cui il dio appare nel mio corpo e si manifesta nella sua onnipotenza. Tutti vengono ad onorarlo, mi toccano i piedi. Mio padre piange commosso. Poi comincio una danza che dura un’ora, rappresenta la lotta con un demone. Poi narro la storia di un ragazzo ingiustamente ucciso dal proprietario terriero…’

Con le danze estatiche si è trattato e si tratta ora di guarire dal malessere persone appartenenti a gruppi etnici marginali, ora di fornire un luogo per sperimentare travestimenti e altre identità anche sessuali, ora di promettere una salvezza e ora di garantire almeno un gioco teatrale, ora di confortare i lavoratori delle periferie di grandi metropoli e ora di offrire una visione ecologica della natura opposta all’intera civiltà urbana e capitalistica’.

Ai nostri giorni le antiche pratiche assumono nuove funzioni, rischiano di svuotarsi, diventando simbolo culturale, colore locale, spettacolo decontestualizzato da fotografare col cellulare, in cui i danzatori si trasformano in operatori turistici del mercato capitalista. Ma possono anche continuare a parlare di marginalità, di conflitto, di resistenza, diventando strumenti di lotta contro il sistema sociale ingiusto. In particolare ‘nel subcontinente indiano le danze estatiche veicolano tensioni religiose e sociali, in Africa e Brasile sostengono l’identità culturale di chi è stato colonizzato, negli Stati Uniti s’accompagnano allo sviluppo della cultura LGTBQ. Lo sciamanesimo dell’Amazzonia, infine, diventa principio di resistenza, contro la distruzione capitalistica della grande foresta.’

Gian Luca Garetti

Paolo Pecere, Il dio che danza, nottetempo, Roma 2021, pp. 340,€ 18.00


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Gian Luca Garetti

Gian Luca Garetti, è nato a Firenze, medico di medicina generale e psicoterapeuta, vive a Strada in Chianti. Si è occupato di salute mentale a livello istituzionale, ora promuove corsi di educazione interiore ispirati alla meditazione. Si occupa attivamente di ambiente, è membro di Medicina Democratica e di ISDE (International Society of Doctors for the Environment).

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