La effettiva partecipazione

La democrazia riguarda i cittadini, la loro sovranità come entità collettiva (il popolo) e il loro bisogno di rappresentanza e di partecipazione. I cittadini vivono nel territorio, che si tratti di città o di campagna, di paesi o di coste, di pianure o di aree interne; dunque, anche i territori hanno bisogno di rappresentanza e di partecipazione.

Nello scenario di crisi delle democrazie contemporanee la profonda crisi di questi due elementi – rappresentanza e partecipazione – può costituire il terreno su cui superare l’antitesi storica tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Affrontare il tema della partecipazione significa dunque porsi nell’ottica di rispondere alla crisi della democrazia, intervenire sul rapporto cittadini/istituzioni, impostare un discorso sul metodo come fondamento della ricerca di una nuova democrazia, per evitare i rischi di una post-democrazia dai tratti poco rassicuranti.

Per non incorrere nell’errore di un futuro senza radici, occorre ricordare che la partecipazione non è una novità. In Italia essa è anzi una grande questione costituzionale: la Costituzione stabilisce infatti che uno dei compiti della Repubblica è quello di promuovere “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (articolo 3); allora, in quella cruciale fase storica, la partecipazione si concretizzò nei grandi processi di liberazione e di ricostruzione dell’Italia e prese in misura crescente la forma della militanza nei partiti; così è stato almeno fino agli anni ’70, che sono stati l’ultima grande stagione della partecipazione ed anche il culmine del ruolo del partito di massa come strumento in grado di collegare la società alla politica.

Poi è iniziata una fase di stallo, fino alla crisi dei partiti simboleggiata (ma non causata) da tangentopoli all’inizio degli anni ’90. Da allora sono cresciute passività, indifferenza alla politica, concentrazione del potere, nuove oligarchie, perdita di importanza della sfera pubblica.

Per difendere la democrazia appare necessario rianimarla e ripopolarla, a partire dai livelli locali, che sono quelli più vicini ai cittadini e ai territori. Per questo le esperienze locali volte a promuovere forme di partecipazione democratica alla vita pubblica, che riconoscano ad ogni cittadino una competenza in quanto abitante di un luogo, possono rappresentare non soltanto un miglioramento della qualità delle scelte, ma anche un contributo ad una questione più generale.

Ma partecipazione deve significare “effettiva” (lo stesso termine che scelsero i Costituenti) capacità dei cittadini sulle scelte che li riguardano, altrimenti diventa solo “imbonimento”, come hanno scritto Ilaria Agostini e Enzo Scandurra su “La Città invisibile”. Essa non può essere guidata dall’alto, come spesso avviene nei cosiddetti “percorsi partecipativi” preordinati da leggi regionali il cui bilancio andrebbe fatto scendendo in profondità e senza infingimenti.

È necessario rifondare uno spazio pubblico e un metodo democratico, ripartendo dal locale e dal basso; dunque c’è da svolgere innanzitutto un lavoro culturale e per molti aspetti pre-politico che ricrei coscienza collettiva e territoriale. Solo così la partecipazione può divenire realmente un antidoto al consolidarsi delle oligarchie postdemocratiche, che ai vari livelli stanno emergendo come saldatura tra quel che resta dei vecchi soggetti politici e interessi forti di tipo economico, finanziario e mediatico.

Sembra questa la strada per migliorare l’amministrazione della cosa pubblica, riformare la politica e attenuare il senso di impotenza e di sfiducia che attanaglia i cittadini italiani e in particolare le giovani generazioni. Senza la partecipazione anche gli attuali propositi di transizione ecologica e di digitalizzazione resteranno formule vane, rischiando di cristallizzare vecchie gerarchie o di creare nuove disuguaglianze.

Rossano Pazzagli