L’emergenza come strumento di dominio e controllo

Nel marzo 2020, quando la pandemia mostrò il suo volto spietato, venne fuori lo slogan “niente sarà come prima”. Con quella frase si intendeva che il mondo come lo avevamo visto fino allora non era stato in grado di rispondere alla serie di crisi innescate dal coronavirus: le strutture sanitarie, sfiancate da pesanti privatizzazioni, avevano difficoltà a reggere l’urto dei pazienti, si profilava una crisi economica sia sul fronte della domanda che dell’offerta, era facile prevedere l’ecatombe di posti di lavoro e di piccole imprese in molti settori, la crisi ambientale che si manifestava in una deflagrante pandemia indicava chiaramente la veniente crisi climatica.

Niente poteva essere come prima; era implicito, in ogni discorso, che si dovesse mettere al centro delle politiche di tutto il mondo gli esseri umani e la biosfera da cui questi dipendono. Era divenuto un (purtroppo) vago sentire comune che la devozione alla ricerca del profitto doveva essere accantonata in favore di una economia dal volto umano, di cooperazione costruttiva, solidale.
Si è poi cominciato a dire “andrà tutto bene”; ma non era una sicurezza o una speranza, nemmeno un presagio, era un modo per tranquillizzare le prime serie preoccupazioni.

Emiliano Brancaccio, economista dell’Università del Sannio, profetizzò che si dovevano mettere da parte competizione e profitti, soprattutto da parte delle case farmaceutiche, per una collaborazione sanitaria globale e trovare velocemente terapie e vaccini efficaci.

In seguito è iniziata una battente propaganda sulla generosità dell’Unione Europea che avrebbe stanziato circa 750 miliardi, 193 dei quali per il Bel Paese, per consentire una ripartenza dell’economia continentale che aveva perso milioni di posti di lavoro, uno soltanto in Italia.

Purtroppo poche voci si sono alzate per dire che la “generosità europea” era davvero misera: la maggior parte sono prestiti da restituire con pesanti condizionalità anche se a bassi interessi; parlando di sovvenzioni ci si dimentica che parte cospicua di queste saranno frutto dei versamenti che l’Italia fa nelle casse dell’UE. Insomma tutta quanta questa presunta pioggia di denaro si risolverà in una miseria spalmata in sei anni.

Qui si è comunque manifestato il capolavoro dei cantori del liberismo: hanno promesso la ripresa economica e riconversione ecologica partendo da questi fondi, puntando al superamento dell’emergenza sanitaria, dell’emergenza economica e dell’emergenza climatica. E sulla base di queste emergenze ogni dubbio o critica era ed è escluso. Ma in pochissimo tempo le speranze si sono logorate e dissolte: dopo qualche elemosina ai più colpiti dalla crisi si è vista la corsa all’accaparramento delle risorse che si sarebbero liberate dalla sospensione dell’austerità imposta per decenni. Le case farmaceutiche, abbagliate dalla prospettiva di profitti inimmaginabili, hanno fatto di tutto per accaparrarsi brevetti e commesse sui vaccini dopo aver preteso contributi miliardari.

Il piano italiano ha messo al primo posto la realizzazione di grandi opere a base di cemento, spacciando questo sostanziale finanziamento alle grandi imprese e alle banche per una politica keinesiana, ma che in realtà avrà effetti esattamente contrari: è un grande regalo al sistema finanziario il cui costo sarà ripagato dai cittadini contribuenti.

Il piano di ripresa gli investimenti per la sanità consiste per lo più in costosi sistemi tecnologici piuttosto che nella ricostruzione di una medicina territoriale, privilegiando ancora privatizzazioni e esternalizzazioni che erodono da decenni il sistema sanitario.

Con la scusa della riconversione ecologica il nuovo ministro Cingolani sta predisponendo una transizione a base di risorse fossili, come il metano, dalla durata indefinita, mentre l’abbandono di queste dovrebbe essere velocissimo. Allo stesso tempo, con la scusa dell’urgenza della lotta ai cambiamenti climatici, ci si indirizza verso una proliferazione selvaggia di impianti eolici e fotovoltaici; saranno tutti megaimpianti voluti da grandi imprese, spesso straniere o multinazionali, generosamente sovvenzionati. In Sardegna, per esempio, ci sono circa 110 richieste di importanti impianti sui quali le comunità non avrebbero alcun controllo. Ancora una volta tutto si piega alla ricerca di profitto, considerando i cittadini e i lavoratori delle fastidiose presenze da abbindolare con miserabili “compensazioni” o da perseguitare in tutti i modi se osano opporsi. Non si parla mai di democrazia energetica e di partecipazione delle persone alla produzione della stessa; unico faro è l’impresa e il suo profitto.

Nel clima emergenziale che ormai dilaga si posizionano anche le “riforme che l’Europa ci chiede”; tra queste quella della giustizia che dovrebbe abbreviare gli iter dei processi che spesso vengono annullati per i tempi lunghissimi. La riforma della ministra Cartabia, amica di Comunione e Liberazione, pretende tempi brevissimi senza dare strumenti alla magistratura per operare. Questa pare a molti la ricetta per l’impunità ai peggiori inquinatori e corrotti.

No, niente sarà come prima; sarà molto peggio, il tutto con l’alibi dell’emergenza che ormai ci pare istituzionalizzata da molti anni.

Tiziano Cardosi