Per una progettazione antitetica alla città liberista

La più recente aggressione alla ricchezza patrimoniale delle città da parte di un capitale finanziario eccedente è oggi puntata alla trasformazione di tutto ciò che della città si può volgere in bene di lusso. Poiché al lusso si addice il carattere di raro, esclusivo, unico e di qualità, i predatori di rendita hanno riscoperto i centri storici e il bel paesaggio intorno che quelle qualità le hanno tutte.

Gli amministratori pubblici, più inebetiti che spudorati chierici della teocrazia del Divino Mercato, rinfrancati dal dogma della competizione (anche tra città) non solo attingono al repertorio ideologico di parole come “smart” o “platform” city, ma devono dare prova di saper illudere la cittadinanza impossessandosi delle richieste espresse da una pluralità di associazioni e distorcendole, come nel caso della “rigenerazione” che nasconde gentrificazione. Oppure semplicemente vanificandole: la denuncia della crescente disuguaglianza, le periferie sociali e urbane che ne sono l’effetto, la crisi ambientale e la difesa del suolo, diventano puri ornamenti retorici, fumo negli occhi.

Contro i falsi Piani urbanistici che somigliano ormai a elaborati carnets per grandi agenzie immobiliari, proponiamo una pratica teorica del cambiamento con altri obbiettivi. La prefigurazione di una città desiderabile, fondata su dati misurabili della qualità urbana, sull’uso pubblico e deliberativo delle risorse dello spazio e della sua storia, antitetico alla logica grossolana e rapinosa dei singoli investimenti della grande finanza.

Area boschiva nell’ex area FIAT Belfiore-Comitato cittadini ex FIAT Belfiore-Marcello

Il contenimento e la fine della espansione della città contemporanea, pur in presenza delle necessità insoddisfatte e crescenti dell’abitare, si può ripensare sia attraverso il riuso generalizzato e rigenerazione del suolo, sia ribaltando una consuetudine nel modo di porre l’attività edificatoria. La produzione edilizia moderna e contemporanea generalmente si rivela mediante l’occupazione delle aree libere e in molti casi con l’applicazione dei modelli tradizionali: quartieri, “cittadelle,” grandi unità abitative e sempre di più con i cosiddetti “poli, direzionali, commerciali, universitari, con conseguente massiccia infrastruttura.

Contrariamente a tali modalità di ampliamento e di pretesa qualificazione – squilibrata, polarizzata, quindi gerarchica – della città, la progettazione urbanistica si può fare interprete di un diverso modo di porre il problema della città contemporanea.

In questo diverso modo è il vuoto che assume un ruolo decisivo; esso può essere strumento per ridefinire i confini del costruito, individua la soglia (il passaggio) da un sistema rurale ad un sistema urbano, oppure tra differenti sistemi insediativi dove s’interpongono generalmente spazi residuali. Si tratta di spazi di soglia densi di energie relazionali, dove il compito della progettazione si precisa nel ricollocare i frammenti edilizi e i vuoti urbani, individuando elementi di appartenenza alla scala superiore o inferiore che identificano i caratteri irripetibili della città o del territorio, in un processo di memoria dei segni e delle tracce originarie, sulle quali si possono ancorare questi pezzi insediativi altrimenti indifferenti a qualsiasi configurazione urbana. (ovvero privi di memoria, seriali, uniformi).

La nozione di “sistema”, già introdotto nella normativa urbanistica (in Toscana), costituisce una novità nel modo di pensare lo spazio urbano e territoriale, perché induce alla trasformazione di entità astratte, quali le zonizzazioni, in una configurazione fisica dello spazio che materialmente rivela tutta la complessità di relazioni sistemiche. Con ciò le differenti articolazioni di pieni e di vuoti, di edificato e di spazi liberi e i loro rapporti metrici e geometrici vanno a individuare le coordinate costitutive dei luoghi, che esprimono i caratteri specifici della qualità urbana.

Queste tracce di un passato riconosciuto disegnano la realtà fisica, hanno una continuità nel tempo e costituiscono delle invarianti che la legge (toscana) precisa come “invarianti strutturali”. Per chiarezza le ridefiniamo “invarianti di trasformazione”. Infatti le invarianti non identificano solo manufatti immutabili nel tempo, oggetti da ingessare una volta per tutte, ma la possibilità di essere piuttosto assunti nelle loro potenzialità a divenire altro dalle ragioni originarie (sempre ricche di suggerimenti).

Il nesso tra le condizioni originarie e quelle attuali deve conservare il sistema delle relazioni morfologiche che è una costante (invariante), anche se le vicende storiche ne mutano il significato. Le mura urbane, le sponde fluviali, i fronti a mare, i manufatti architettonici, le vie in curva, un antico alveo fluviale e quant’altro chiedono di essere interpretati a partire dalla loro natura originaria dentro la quale si può e si debbono rintracciare gli elementi del nuovo.

Dal vuoto urbano, dal negativo, dal non costruito, si definisce la materializzazione del segno fisico che sta in equilibrio tra una forma del naturale e un atto artificiale, così da istituire un rapporto tra natura e architettura.

La definizione di “verde” in urbanistica, è un’accezione ancora tutta astratta che tende a separare la natura dall’uomo dalle sue forme di attività. In ogni epoca questo rapporto con la natura si è manifestato sia attraverso una elaborazione intelligibile sia secondo un rapporto sensibile. Così, ad esempio, l’ortus conclusus esprimeva la nostalgia dell’Eden, ossia la perfettibilità e l’armonia perduta contrapposta allo smarrimento prodotto dalla selva. Attraverso l’intelletto umano e la percezione sensibile del mondo, com’è nell’arte, questa natura imperfetta avrebbe fatto intravedere la bellezza eterna.

D’altra parte, le “divine proporzioni” hanno costituito la struttura intellettiva anche della città ideale del Rinascimento, rappresentata nel disegno del giardino. Così alla purezza delle sue geometrie vi era opposta la materialità degli elementi naturali forgiati come da un processo alchemico. Gli artisti che scoprivano nelle regole classiche le divine proporzioni e nell’utopia dell’armonia la risoluzione dei conflitti che animavano la società hanno permeato con le loro opere le coscienze di tutto il mondo. E ancora altre opere, nella loro sedimentazione, hanno dato luogo poi a quell’immagine totalizzante che, in modo distaccato, denominiamo “paesaggio”.

Il lavoro, la ricerca, la pratica progettante che proponiamo non ha stretti limiti geografici di applicazione; alcuni luoghi possono costituire modelli d’intervento nei territori rurali, fluviali, costieri e urbani dell’area mediterranea, nel Sud come nel Nord d’Italia.

Nella compagine della periferia ovest di Firenze si è individuato un insieme di spazi residuali, di zone di soglia e di grandi manufatti edilizi vuoti. Si è ripercorso l’ antico cardine territoriale che collegava gli insediamenti castellani al piede della collina (poi ville oggi al centro dei due grandi ospedali) al fiume Arno dove si trovava il porto fluviale delle Cascine. Quell’antico tracciato oggi sommerso dalla frammentazione della periferia, ci indica ancora una capacità di relazioni non gerarchiche tra i sistemi collinari e il fiume. Ad esso, non per caso, sono riconducibili quei manufatti architettonici che potrebbero andare a comporre un asse centrale urbano alla scala della vasta area ovest.

Solo a titolo di esercitazione, invitiamo il lettore a immaginare la ex area Fiat di Novoli vuota e ricca di giovani alberi, a compensazione dell’edificazione intensiva e brutale che ha distrutto l’adiacente vasto giardino, la ragnaia, e il fabbricato di villa Demidoff a S.Donato. Vi potremmo leggere un principio di riscatto dell’intero quartiere: non ci mancherebbero modelli dinamici di riferimento.
Più grave perché attuale, la scellerata la promozione di una cittadella del lusso negli otto ettari che rimangono delle ex Officine ferroviarie di Porta al Prato, che si è conclusa malgrado l’attivismo di comitati e dei Consiglieri di opposizione. Qui il vuoto sarebbe palesemente generatore di relazioni con la periferia in evoluzione, un tangibile, perfino ovvio bene patrimoniale della città, destinato alla cancellazione.

Nota:
Il testo è una rielaborazione del contributo dell’Autore al seminario La sottrazione dello spazio pubblico e del welfare urbano nelle città del neoliberismo. Pensiero critico e nuove resistenze urbane, organizzato dai corsi di Sociologia del controllo e di Sociologia Urbana, proff. Giso Amendola e Gennaro Avallone, dell’Università degli Studi di Salerno e da Laboratorio Autogestito Communalia e RightCityLab, 26 gennaio 2018.