Il Business delle armi e la cancellazione dei fiumi: lo strano caso di RWM Italia SPA

Intervista a Massimo Coraddu, Fisico, consulente di parte procedimenti giudiziari poligoni Quirra e Teulada e consulente tecnico delle associazioni che si ribellano alla fabbrica di armi RWM e alla sua espansione.

Lo stabilimento RWM Italia Spa, la cosiddetta “fabbrica di bombe” che si trova nel Sud Sardegna, è stata convertita dal 2010 in una struttura militare, con la produzione orientata all’esportazione di armi. Nonostante le controversie ambientali e normative, l’azienda ha ottenuto le autorizzazioni per l’ampliamento dello stabilimento. In questa intervista parliamo della questione con Massimo Coraddu, fisico e consulente che conosce tutti i risvolti di questa vicenda.

La RWM Italia Spa, un azienda di proprietà della multinazionale degli armamenti Rheinmetall, ha acquistato nel 2010 dalla SEI (Società Esplosivi Industriali) uno stabilimento nel sud della Sardegna, nel Sulcis, in una valle al confine tra il territorio dei comuni di Domusnovas e Iglesias.

Sino al 2010 era uno stabilimento per la produzione di esplosivi per applicazioni civili (cave e miniere), a cui, dieci anni prima, nonostante le proteste e l’opposizione di buona parte della popolazione, era stata affiancata anche una linea di produzione per esplosivi e ordigni militari. Nel giro di un paio d’anni la nuova gestione dell’RWM ha riconvertito lo stabilimento a una produzione esclusivamente militare, cancellando del tutto la produzione di esplosivi per scopi civili. Con una politica commerciale assai spregiudicata l’RWM ha infatti orientato la sua produzione verso l’esportazione di armi, in prevalenza verso paesi extra-europei, anche impegnati in sanguinosi conflitti, di fatto i clienti più interessati a ricevere forniture di bombe, mine, missili e proiettili.

Quali sono i casi più eclatanti di RWM rispetto alla produzione e all’export di armi?

Clamoroso il caso delle forniture di bombe per aereo all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, un ordine pluriennale per circa 20.000 bombe con un importo di 400 milioni di euro, ordigni che sono stati impiegati per bombardare la popolazione Yemenita nel conflitto in corso dal 2016.

Quali sono le responsabilità dei vari governi che si sono susseguiti?

L’esportazione era stata autorizzata dall’esecutivo guidato da Matteo Renzi ma, in seguito ai bombardamenti indiscriminati contro la popolazione civile, il primo governo Conte ha poi sospeso le licenze di esportazione nel luglio 2019, tra le proteste di RWM che lamentava gravi danni economici, che non risultano però dai bilanci aziendali, sempre floridi, purtroppo. Per la cronaca, il governo Meloni, a Giugno 2023, ha ripristinato le licenze di RWM per l’esportazione di bombe per aereo verso l’Arabia Saudita.

Come cambia il fatturato di RWM da quando vengono sbloccate le licenze di export di armi verso le petromonarchie dell’Arabia Saudita?

L’esportazione di armi verso paesi in guerra è risultato un business assai redditizio per la RWM-Rheinmetall, visto che all’epoca della dismissione definitiva della produzione civile, nel 2012, il fatturato dell’azienda ammontava a circa 42 milioni di euro, con 6 milioni e mezzo di profitti, mentre nel 2019, anno in cui sono state sbloccate le licenze di esportazione verso le petro-monarchie arabe, il fatturato era cresciuto a oltre 114 milioni con oltre 25 milioni di profitti. La stessa crescita vertiginosa non aveva però interessato la manodopera impiegata, visto che nello stesso periodo i dipendenti dello stabilimento RWM di Domusnovas Iglesias erano aumentati di appena 30 unità, passando da 67 a 97. La crescita del business RWM non si è arrestata neppure con la sospensione delle sue più lucrose licenze di esportazione, visto che i fatturati hanno continuato a crescere: nel 2022 (ultimo bilancio disponibile) l’azienda ha registrato infatti 179 milioni di euro con quasi 19 milioni di utili, mentre il numero di dipendenti dello stabilimento è aumentato di una unità, arrivando a 98.

Oltre all’Arabia Saudita e agli altri Emirati in quali vari paesi volti a seminare guerra e terrore è indirizzata la produzione RWM?

L’azienda infatti, negli ultimi anni, ha sostenuto le esportazioni di bombe a Sauditi ed Emiratini, provvedendo ad allargare e diversificare il ventaglio dei suoi clienti, includendo altri paesi impegnati in conflitti armati: ha fornito bombe ad alta penetrazione alla Turchia, ha stretto accordi con l’azienda israeliana Uvision per la produzione e la commercializzazione dei droni-killer della serie Hero (utilizzati anche nel recente conflitto Arzebajian-Armenia) e recentemente ha fatto sapere di essere impegnata anche nella produzione di proiettili di artiglieria da fornire all’Ucraina per alimentare il conflitto in corso…

Come si vede si è avuto un vertiginoso aumento di fatturati e profitti senza crescita di occupazione, infatti l’azienda fa massiccio ricorso alla fornitura di manodopera interinale per coprire i picchi di produzione, senza assumere nuovo personale, e sbarazzandosi disinvoltamente dei lavoratori interinali alla prima incertezza.

Perché è stato necessario l’ampliamento dello stabilimento produttore di bombe?

La crescita degli ordini, a partire dallo scoppio della guerra in Yemen nel 2016, ha avuto però come conseguenza la saturazione della capacità produttiva dello stabilimento di Domusnovas-Iglesias, rendendo necessario il suo ampliamento. Di conseguenza l’azienda ha programmato, a partire dal 2017, un imponente piano di potenziamento degli impianti, con la realizzazione di nuovi reparti di produzione, magazzini, strade e piazzali e persino di un nuovo poligono per effettuare test esplosivi.

Perché l’area RWM è interessata da un forte rischio idrogeologico?

La realizzazione di tali nuove strutture risultava però assai problematica a causa della collocazione dello stabilimento, che in buona parte non si trova neppure in un area con destinazione industriale, ed è oltretutto privo di servizi di acquedotto e fognatura, non possiede un depuratore per il trattamento dei reflui industriali ed è servito da un unica strada di accesso di sezione molto ridotta, sulla quale transitano mezzi pesanti carichi di ordigni ed esplosivi. Oltretutto si trova incassato in una valle dalle pareti ripide e franose, attraversata da un fiume ad elevato rischio di esondazione (il Rio Figu) che divide in due lo stabilimento passando in mezzo agli impianti.

L’area è molto impattante in termini ambientalisti anche perché nei pressi si trova un importante territorio naturalistico. Puoi spiegare in cosa consiste?

Per queste ragioni l’area in cui si trova la fabbrica RWM risulta interessata da un rischio idrogeologico elevato, aggravato anche dalle passate attività minerarie dismesse da decenni, senza essere mai state messe in sicurezza, ed è quindi interessata da diversi vincoli. Se si aggiunge che a poche centinaia di metri dallo stabilimento si trova anche una importante area naturalistica protetta (la Z.S.C. ITB041111 “Monte Linas Marganai”) si capisce come l’area sia assolutamente inadatta per un attività così impattante e pericolosa e che il progetto per l’ampliamento degli impianti non poteva e non doveva essere accolto.

La RWM è riuscita nei suoi obiettivi di ampliamento nonostante queste problematiche ambientaliste?

L’azienda è invece riuscita a portare avanti i suoi piani di ampliamento, nonostante le problematiche evidenziate e le diffuse proteste, ricorrendo ad alcuni sotterfugi e stratagemmi risultati poi irregolari e illegittimi. In particolare ha frazionato il suo piano di ampliamento di potenziamento degli impianti in un gran numero di interventi (tra il 2017 e il 2021 se ne contano circa un centinaio …), per i quali ha richiesto altrettante autorizzazioni edilizie, come se si trattasse di singoli progetti indipendenti e scorrelati. Oltretutto ha sistematicamente negato che nel suo stabilimento di Domusnovas-Iglesias si producessero esplosivi attraverso procedimenti chimici, nonostante l’azienda fosse in possesso di licenze di fabbricazione di esplosivi di tipo PBX, rilasciati dal ministero dell’interno, e che i manuali pubblicati dai collaboratori dell’azienda mostrassero chiaramente come per la produzione di questi esplosivi fossero coinvolti processi chimici di polimerizzazione.

E la Valutazione di Impatto Ambientale?

Grazie a queste evidenti forzature RWM ha ottenuto che le amministrazioni coinvolte (comuni, Provincia e Regione) rilasciassero tutte le licenze edilizie per l’ampliamento dei suoi impianti senza nessuna Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), che oltretutto è obbligatoria per le industrie chimiche che producono esplosivi.

Come si è posta la popolazione nella produzione di armi nel Sulcis? come si è svolta la protesta degli abitanti e dei cittadini?

Alla produzione di armi nel Sulcis si è sempre opposta una parte significativa della popolazione, sin dall’avvio delle prime linee di produzione da parte della società SEI. Tale opposizione si è poi rivitalizzata e rafforzata a partire dal 2015, con le notizie dell’impiego delle bombe prodotte in Sardegna nella guerra in Yemen, e dei progetti di ampliamento di RWM. Questa opposizione si è sempre espressa in vari modi: manifestazioni sia nell’area della fabbrica, con l’intento di ostacolarne le produzioni, sia di fronte alle istituzioni responsabili di favorirne l’ampliamento, ma anche azioni legali finalizzate a bloccare licenze di esportazione e progetti di ampliamento.

Quindi RWM non è stata mai sottoposta alla VIA – Valutazione Impatto Ambientale?

In particolare, dal 2019 al 2021 abbiamo portato avanti un lungo contenzioso legale, nei tribunali amministrativi, per dimostrare che RWM aveva ottenuto le licenze edilizie per ampliare il suo stabilimento di Domusnovas-Iglesias in modo irregolare e illegittimo. Nel novembre del 2021 il Consiglio di Stato ci ha finalmente dato ragione, sentenziando che il frazionamento del piano di ampliamento di RWM in una miriade di singoli progetti non era legittimo, che quello di RWM è uno stabilimento chimico che produce esplosivi e che quindi il suo piano di ampliamento doveva essere sottoposto complessivamente a Valutazione di Impatto Ambientale, cosa mai avvenuta.

Si può anche parlare di abuso edilizio? Ad esempio di reparti abusivi dell’azienda?

Di conseguenza il Consiglio di Stato ha annullato le autorizzazione alla realizzazione di alcune delle opere più importanti realizzate dall’azienda, compresi il nuovo poligono per test esplosivi e i nuovi reparti per la produzione di ordigni ed esplosivo di tipo PBX. L’azienda nel frattempo, mentre i tribunali decidevano sui ricorsi, ha realizzato in gran fretta i lavori di ampliamento, terminati nel 2021, e si ritrova quindi ora con i reparti finiti ma abusivi, privi di autorizzazione edilizia, e che quindi non possono entrare in funzione.

Quindi la RWM non si è rassegnata all’idea di poter rinunciare all’ampliamento?

RWM-Rheinmetall non si è affatto rassegnata all’idea di non poter avviare i nuovi reparti e ha chiesto alla Regione Sardegna di effettuare una VIA a posteriori delle opere realizzate illecitamente, sostenendo che un eventuale esito positivo autorizzerebbe l’azienda ad aprire i reparti e avviare la produzione. Si tratta di una evidente forzatura della normativa, visto che in questo modo la VIA, che di regola andrebbe effettuata prima della realizzazione delle opere e non a posteriori, agirebbe come una sorta di sanatoria delle opere realizzate illecitamente, tuttavia la Regione Sardegna nell’estate del 2022 ha avviato la procedura per la VIA “postuma” del progetto di ampliamento dello stabilimento RWM (in realtà solo di una parte di esso), e la procedura è ancora in corso.

Dunque si può parlare di rischio idrogeologico e mancata tutela paesaggistica?

Naturalmente le stesse organizzazioni che si erano opposte all’ampliamento si oppongono ora anche alla VIA-”postuma” per lo stabilimento RWM di Domusnovas-Iglesias, sostenendo che la procedura è illegittima e che, in ogni caso, non può avere un esito positivo, a causa dei numerosi vincoli che insistono sull’area, non solo legati al rischio idrogeologico, ma anche alla tutela paesaggistica, alla mancata destinazione industriale dell’area, all’impatto sulla vicina area naturalistica protetta (Z.S.C. ITB041111 “Monte Linas Marganai”).

L’azienda vuole quindi eliminare un reticolo idrografico per ampliare i suoi spazi e quindi la produzione bellica?

In questo contesto si inserisce la richiesta di RWM di cancellare dal “reticolo idrografico” alcuni corsi d’acqua presenti all’interno della sua proprietà. Tale richiesta, a gennaio 2024, è stata rivolta all’Autorità di Bacino Idrografico, un ufficio regionale che si occupa di sicurezza idrogeologica, con il supporto dei comuni di Iglesias e di Domusnovas.

RWM vuole eliminare tutti i corsi d’acqua che ne impediscono l’espansione?

L’azienda chiede in pratica di eliminare sulla carta tutti i corsi d’acqua interni alla sua proprietà che confluiscono nel Rio Figu, il fiume a elevato rischio di esondazione che attraversa lo stabilimento. Alcuni dei corsi d’acqua di cui si chiede la cancellazione si trovano però all’interno dello stabilimento, e le norme di salvaguardia avrebbero obbligato l’azienda a rispettare delle fasce di sicurezza di ampiezza variabile tra 20 e 50 metri, cosa che non è avvenuta, visto che attualmente l’alveo di questi corsi d’acqua appare profondamente alterato dalle costruzioni realizzate, sino a scomparire del tutto in alcuni tratti. Oltretutto tali corsi d’acqua confluiscono nel Rio Figu a cui, a causa dell’elevato rischio idrogeologico, è associata una fascia di rispetto larga 150 metri, nella quale si trova una zona a rischio idrogeologico (zona cosiddetta Hi4) dove, per ragioni di sicurezza, non possono assolutamente essere realizzati impianti industriali come quelli di RWM. Ciò nonostante, anche in tempi recenti, l’azienda per espandersi ha realizzato in quest’area a elevato rischio idrogeologico imponenti sbancamenti (per decine di migliaia di metri cubi) e ha costruito grandi strutture. Ancora ci chiediamo come sia stato possibile che abusi di questa entità siano stati realizzati alla luce del sole, senza che nessuna delle autorità competenti muovesse obiezioni.

Vi è una forte esposizioni a impattanti rischi idrogeologici?

I corsi d’acqua di cui l’azienda chiede la cancellazione confluiscono nel Rio Figu proprio nelle aree Hi4, ad elevato rischio idrogeologico, senza che la relazione aziendale che ne chiede la cancellazione rilevi questo fatto fondamentale. A dire la verità la richiesta presentata dall’azienda contiene carte non aggiornate (risalenti a prima del 2000), in cui tutti gli ampliamenti dello stabilimento RWM realizzati nel frattempo non appaiono neppure!

Due settimane fa le organizzazioni che si sono sempre opposte all’ampliamento di RWM, hanno mandato all’ Autorità di Bacino Idrografico un documento critico sulla richiesta di cancellazione dei corsi d’acqua dalla proprietà RWM, in cui si fanno presente le anomalie esposte pocanzi. L’Autorità di Bacino ha risposto ieri (17 Aprile), accogliendo sostanzialmente le nostre osservazioni, sospendendo l’esame della richiesta di cancellazione e chiedendo chiarimenti ai comuni di Iglesias e Domusnovas. Data la contemporanea presenza dell’area di un rischio idrogeologico molto elevato e di una industria “a rischio di incidente rilevante” (classificata così in base alla direttiva “Seveso III” dell’UE), a noi sembra ovvio che la richiesta di cancellazione dei corsi d’acqua, e delle relative fasce di tutela, non possa essere accolta, e che anzi vada accertata la presenza di eventuali abusi.

Quali sono le proposte e le decisioni per evitare rischi idrogeologici?

Vista così, la richiesta presentata da Rheinmetall-RWM per la cancellazione dei corsi d’acqua dalla loro proprietà, potrebbe apparire come un maldestro tentativo di alleggerire i vincoli idrogeologici presenti nell’area e rendere più facile una sorta di “sanatoria” di fatto degli abusi compiuti. Tuttavia una decisione definitiva non è ancora stata presa, anche la procedura di VIA “postuma” è ancora in corso, e l’opposizione a questa produzione mortifera e al suo ampliamento è forte e determinata.

RWM vuole forzare le normative esistenti sia sulla fornitura dei paesi belligeranti sia sulla tutela del paesaggio e dei suoi abitanti.

In definitiva appare evidente come una industria che produce armi ed esplosivi destinati ad alimentare i conflitti in corso riesca spesso a forzare le normative esistenti, sia quelle che dovrebbero impedire la fornitura di armamenti ai paesi in guerra, sia quelle che dovrebbero tutelare la sicurezza della popolazione, dell’ambiente e del territorio.

Nonostante le evidenti violazioni, sanzionate anche dai tribunali, sono stati realizzati in un area a elevato rischio idrogeologico impianti ad alto rischio, destinati a fabbricare ordigni micidiali. Anche in presenza di sentenze ormai passate in giudicato, l’azienda non si rassegna e ricorre a ogni mezzo, compresa la “cancellazione” legale dei corsi d’acqua dalla sua proprietà, pur di “sanare” la situazione e ottenere l’apertura e la messa in produzione dei nuovi impianti realizzati illecitamente.

L’intera società non deve essere corrotta nella propria mentalità, orientandola a una economia di guerra, ossia bellica e militarista.

Quando si parla di capacità di corruzione dell’industria degli armamenti, non si vuole intendere tanto l’eventuale corruzione di singoli individui e/o funzionari pubblici, quanto piuttosto la capacità di corrompere l’intera società, che viene progressivamente orientata a una economia bellica, rinunciando di fatto a fondamentali garanzie di salute e sicurezza per la popolazione. Questo progressivo scivolamento verso una economia di guerra avviene sotto i nostri occhi, attraverso procedimenti anche legali, o semi-legali, che portano alla progressiva erosione delle norme e delle garanzie che dovrebbero tutelare la sicurezza della popolazione, il territorio e l’ambiente.

Come si pone la resistenza di queste popolazioni contro i colossi dell’industria militare?

La resistenza della popolazione contro questi colossi degli armamenti è impari, la società civile trova difficoltà a opporsi alle schiere di avvocati e tecnici al soldo delle società armiere, le amministrazioni pubbliche sono per lo più orientate alla difesa difesa degli interessi dei produttori di armi, e giustificano il loro atteggiamento con la vaga promessa di una manciata di “posti di lavoro”. La storia dello stabilimento Rheinmetall-RWM, in questo senso, è esemplare.

La resistenza contro la resistibile ascesa dell’industria delle armi è tuttavia irrinunciabile, ne va della nostra sopravvivenza.

Anche sul sito dell’Associazione Italia che cambia

Sitografia per approfondire:

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Bibliografia essenziale:

  • Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Resistenza e nonviolenza creativa, Mimesis Edizioni.

  • Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Memoria e futuro, Mimesis Edizioni. Con scritti e partecipazione di Vittorio Agnoletto, Moni Ovadia, Alex Zanotelli, Giorgio Cremaschi, Maurizio Acerbo, Paolo Ferrero e altr*


Convincere Dio di Franco La Cecla

Convincere Dio, è un libro di Franco La Cecla, sottotitolo “Note sul pregare”. L’argomento è inconsueto per questa rivista, ma stimolante, a cominciare dalla dedica dell’autore, antropologo, architetto e poeta: “A Franco Berardi, Bifo, l’ateo più spirituale che conosca” e dall’ultima frase del libro: “Rimane la questione di una eredità non trasmessa, di una gaffe tra generazioni, di una incomprensione rispetto a qualcosa che abbiamo tenuta nascosta e che nel frattempo, nel baule in cui l’abbiamo custodita, ci è ammuffita. Probabilmente non ci siamo accorti in tempo che a prescindere da noi qualcosa stava e sta riprendendo vita. A questo è dedicato il libro che chiudete.”

La gaffe cui si riferisce La Cecla, è quella dell’Occidente, che per spocchia, per un presunto realismo, per un atteggiamento di superiorità scientifica, ha relegato il religioso, l’invisibile, il pregare a un fatto del passato, avvolto dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione, illusione di menti primitive/ingenue, oppio dei popoli, miopia scientifica, mentre ha eletto il futuro, proiezione del nostro chiacchiericcio mentale, pattumiera del presente, come terra promessa:

Ci troviamo in una situazione paradossale in cui, masochisticamente, un Occidente che pensava di essere la civiltà piú avanzata ha abdicato all’esplorazione coraggiosa dell’esistenza. Siamo condannati da un presunto realismo a rinunciare alle stesse spinte che vengono dai nostri processi mentali, sensoriali, emozionali. Come se qualcuno ci avesse comandato di fare a meno di tutte le illusioni in nome di una concretezza che oramai non trova piú il terreno da cui sarebbe sorta. Il materialismo ansioso, di cui la rivoluzione industriale e il capitalismo si sono ammantati e che ha sostentato le religioni laiche nate al loro interno, puzza della deriva stanca del secolo XIX e oggi appare solo una ridicola ideologia occidentale”. Così prosegue La Cecla: “ Non conosciamo alcuna società contemporanea a noi, che sia in Oriente o tra i popoli nativi dell’Occidente o tra le culture del Sud e del Grande Nord, che non abbia un tipo di pratica per comunicare con l’invisibile. E se ci proiettiamo nel passato, per millenni non troviamo alcuna civiltà di cui abbiamo resti, tracce, lasciti che non si sia occupata in maniera quotidiana e pervasiva di allargare i propri orizzonti al di là dell’immediato fruibile ed esperibile. Nell’idea di esperienza di queste società è sempre presente un tipo di «aldilà», che accompagna e sostanzia il qui e ora. La nostra società è l’unica che si nega questa facoltà, frutto di una menomazione essenziale, come se avesse deciso di vivere in un quadro dell’adesso impoverito di tutte le influenze, le azioni, il sussurro, le ispirazioni che vengono da altrove. Una situazione di solitudine e di ascetismo assurdo, tanto piú che la nostra società crede quasi ciecamente in qualcosa di assolutamente invisibile – il futuro –, a cui sacrifica spesso il benessere e il buon vivere presente. Il futuro, qualcosa di intangibile e inafferrabile, su cui proiettiamo noi stessi come se fosse una terra promessa, da cui ci aspettiamo messaggi, compimenti di desideri, che viviamo come molto piú reale e convincente dell’oggi. Ma ultimamente «quello che sarà» è diventato opaco e improbabile, una pattumiera del presente, che ha ridotto le promesse a quelle di una sopravvivenza ai disastri causati da noi adesso. Questo forse spiega perché siamo una società che sta finendo. Credere nell’aldilà o credere nel futuro sono due cose simili (gestite in modo diverso: il primo è un tipo di ascolto, il secondo una proiezione del nostro chiacchiericcio).”

Comunicare con l’invisibile

“Pregare è una facoltà umana: nasce probabilmente dall’intuizione di poter comunicare con le presenze viventi, umane e non, che sono intorno a noi o sono passate o sono altrove, l’idea che si possa comunicare con l’invisibile costituito dagli esseri che si conoscono, si sono conosciuti o che si sono anche solo immaginati. Forse è dal culto dei morti o dallo stupore di fronte al cosmo che si origina tutto ciò che in Occidente chiamiamo «religioso», la convinzione che questo mondo di viventi sia molto piú ampio del visibile e tangibile […] si potrebbe definire l’invisibile dal punto di vista antropologico come un insieme di entità e di spazi che, per una data società, sono abitualmente considerati come non accessibili alla visione ordinaria, ma possono esserlo per una forma di visione speciale, non oculare. Queste esperienze possono essere chiamate «percezioni non sensoriali» per non cedere troppo in fretta al dualismo riduttore che oppone nel pensiero moderno l’oggettività della percezione all’illusione delle immagini mentali interne.”

Piegare l’invisibile

“Non solo bisogna saper pregare nel modo giusto, ma bisogna essere bravi nella diplomazia, nel prendere Dio per il verso giusto, nell’attirare la sua attenzione […] la preghiera è uno scalpello contro l’onnipotenza, è la possibilità di “fare cambiare idea al dio.” La parola “dio” nel testo a volte è scritta minuscola altre volte maiuscola. L’autore spiega di aver scelto “la presunzione monoteista di chiamare il proprio Dio con la maiuscola per essere fedeli al modo linguistico con cui queste religioni “imperiali” si presentano.” Chiamare democraticamente dio sempre con la minuscola, secondo l’autore darebbe “credito a una lettura psicologica e atea dell’efficacia divina del mondo. La lingua è soggetta in maniera terribile a incasellare qualcosa che è inafferrabile come il vento”.

Per convincere Dio, c’è il metodo della goccia che finisce per creare un buco nella roccia, La Cecla si riferisce alla preghiera continua, all’esicasmo, alla preghiera incessante del pellegrino russo, ma anche all’ “invocazione della divinità ripetuta migliaia, centinaia di volte, il muoversi del corpo degli oranti, il ritmo, la danza sono cose che ritroviamo altrove, anche a migliaia di chilometri di distanza e in contesti religiosi diversi.” L’autore qui si si riferisce ai sufi (particolarmente belle sono le pagine dedicate a Rumi) ma anche a religioni diverse dall’islam, quali la religione copta dell’Etiopia, a antichi culti aramaici, buddisti, gerosolimitani. Una lista incompleta di riti in cui la preghiera risulta pratica collettiva, che si serve spesso di gesti comuni e di strumenti simili, quali rosari, tesbīh, mālā. “Come dice Luhrmann, le pratiche rituali dimostrano che la relazione con le presenze invisibili ha più la natura del confronto e della disputa, non basta “credere”, occorre una tecnologia utilizzata insistentemente per piegare ai propri voleri l’invisibile.” La preghiera “significa invocare la divinità fuori o dentro di noi perché ci venga incontro e migliori le nostre vite”, è rivolgersi ad una presenza o a più presenze invisibili per motivare il proprio stare nel mondo, “è un lanciare in mare un messaggio in bottiglia, è un tentare di afferrare qualcosa che non si fa prendere, è il rischio non calcolato di non avere […] La nostra società è l’unica che nega questa facoltà, come se avesse deciso di vivere in un quadro dell’adesso impoverito da tutte le ispirazioni che vengono da altrove.”

Franco La Cecla, Convincere Dio, Giulio Einaudi, Torino 2024, pp. 160, € 13,00


25 aprile | No Comando Nato, né a Firenze né altrove

25 APRILE IN PIAZZA S. SPIRITO per sostenere le lotte e chi pratica resistenza a Firenze come altrove. Autodeterminazione e solidarietà nella piazza delle antifasciste e degli antifascisti fiorentini!

Comitato No Comando NATO né a Firenze né altrove.
APPELLO PER LA COSTRUZIONE DI UNO SPEZZONE CONTRO LA GUERRA NELLA MANIFESTAZIONE DEL 25 APRILE A FIRENZE

Le basi militari USA e NATO in Italia non hanno svolto solo un ruolo di retrovia per l’addestramento terroristico di gruppi eversivi neofascisti. Esse hanno svolto soprattutto un ruolo di fortissima intimidazione indiretta sulle masse popolari e lavoratrici subalterne” (Comandante Gracco, Relazione alla Conferenza sulle basi militari straniere, L’Avana 28 novembre 1996).

La lotta partigiana con alla testa le Brigate Garibaldine liberò Firenze l’11 agosto 1944. Il Comandante della Brigata Sinigaglia descrisse così i “tre momenti” della lotta partigiana: guerra di liberazione contro l’occupante nazista, guerra civile contro i collaborazionisti fascisti, lotta di classe contro il sistema che aveva prodotto la guerra. Per queste ragioni il Comandante della Brigata Sinigaglia ha ritenuto incompiuto il compito della Resistenza e sin dall’immediato dopoguerra ha continuato a lottare contro l’insediamento di basi USA e NATO in Italia.

Oggi davanti ai nostri occhi torna a materializzarsi la possibilità di una guerra su vasta scala a livello mondiale. Se da una parte troviamo i BRICS, la cui parola d’ordine è multilateralismo, dall’altra troviamo la NATO come strumento dell’egemonia USA. L’Italia è pienamente integrata nel campo NATO e sta partecipando alla guerra con protagonismo:
1. sul campo, con la presenza di militari dall’Africa fino al Medioriente, passando per l’est europeo fino al comando della missione Aspides in Mar Rosso;
2. nelle retrovie, attraverso la produzione di armi con Leonardo Spa;
3. nel risultato “finale”, con la spartizione delle risorse come nel caso degli accordi tra ENI ed Israele per la gestione dei giacimenti di gas in acque palestinesi.

L’Italia sta partecipando anche alla riorganizzazione della NATO nel Mediterraneo e nella sua espansione verso est. Il Comando NATO pronto ad insediarsi nella Caserma Predieri di Rovezzano è parte di questo riassetto e sarà un vero e proprio centro operativo per la gestione delle truppe di terra. Oggi a Firenze essere contro la guerra vuol dire prendere posizione chiara e netta contro l’insediamento del Comando NATO nella nostra città.

Se questo sistema ancora una volta ci scaraventa in una guerra voluta solo dalle classi dominanti e che già stiamo pagando con il peggioramento delle nostre condizioni di vita, il 25 Aprile la piazza di Gracco, di Foco, di Potente e di Sugo, piazza Santo Spirito, sarà naturalmente la nostra piazza perché nel loro ricordo sta anche l’esempio per provare a scrivere un futuro che superi le logiche della guerra: per una società in un cui la pace non sia uno slogan ma una reale prospettiva di vita che si contrapponga allo sfruttamento e l’autoritarismo imposti proprio dalla NATO.

Saremo in quella piazza con il nostro materiale a partire dalle ore 15.30. Interverremo dal palco. Soprattutto però chiamiamo a raccolta tutti e tutte per formare, all’interno del corteo antifascista che partirà alle ore 17.00 dal monumento a Potente, uno spezzone contro la guerra dietro lo striscione NO COMANDO NATO NÉ A FIRENZE NÉ ALTROVE.


Report 2023 di Greenpeace su media e clima: giornali sempre più dipendete dalla pubblicità delle aziende inquinanti

Pur restando scarsa e sporadica, nel 2023 aumenta l’attenzione dei principali media italiani nei confronti della crisi climatica, ma al tempo stesso si accentua la dipendenza economica dei quotidiani dalle pubblicità delle aziende inquinanti, che contribuisce a impedire un’informazione corretta sulle fonti fossili come causa del riscaldamento globale e sulle responsabilità delle aziende del gas e del petrolio. È quanto emerge dal secondo rapporto annuale sull’informazione dei cambiamenti climatici nel nostro Paese, realizzato per Greenpeace Italia dall’Osservatorio di Pavia, istituto di ricerca specializzato nell’analisi della comunicazione. Lo studio ha esaminato, nel periodo fra gennaio e dicembre 2023, come la crisi climatica è stata raccontata dai cinque quotidiani nazionali più diffusi (Corriere della Serala RepubblicaIl Sole 24 OreAvvenireLa Stampa), dai telegiornali serali delle reti Rai, Mediaset e La7 e dalle 20 testate di informazione più seguite su Instagram.

I risultati mostrano un aumento degli articoli pubblicati dai principali quotidiani italiani in cui si fa almeno un accenno alla crisi climatica, pari in media a 2,7 articoli al giorno (contro una media di 2 articoli al giorno nel 2022), sebbene quelli effettivamente dedicati al clima siano appena un terzo. Ben più marcato l’aumento delle pubblicità dell’industria dei combustibili fossili e delle aziende dell’automotive, aeree e crocieristiche, tra i maggiori responsabili del riscaldamento del pianeta: nel 2023 i cinque quotidiani esaminati hanno infatti ospitato 1.229 inserzioni pubblicitarie (erano 795 nel 2022), accentuando la pericolosa dipendenza della stampa italiana dai finanziamenti fossili. Questo è uno degli elementi che spiegano perché si parla sempre meno delle cause del riscaldamento globale (in calo dal 22% al 15% rispetto al 2022) e di combustibili fossili (indicati come causa solo nel 5,5% degli articoli), mentre le compagnie del gas e del petrolio sono indicate come responsabili in appena 14 articoli durante l’intero anno.

«Il monitoraggio effettuato sui principali media italiani nell’anno più caldo di sempre conferma che, a causa dell’influenza economica di  ENI e delle altre aziende inquinanti, in Italia non c’è libertà di stampa sul clima, nonostante gli impatti sempre più gravi ed evidenti del riscaldamento del pianeta», dichiara Giancarlo Sturloni, responsabile della comunicazione di Greenpeace Italia.

Sia sulla stampa che sui telegiornali di prima serata, i principali momenti di attenzione del 2023 si sono registrati in concomitanza con le alluvioni che hanno colpito l’Emilia-Romagna, le Marche e la Toscana, durante il caldo record di luglio e in occasione del vertice sul clima di Dubai (COP28). In media, i sette telegiornali monitorati hanno parlato esplicitamente di crisi climatica nel 2,3% delle notizie trasmesse, un dato in aumento rispetto all’1,9% del 2022. Tuttavia, è accaduto una sola volta che le compagnie petrolifere fossero indicate come responsabili della crisi climatica. Il TG5 è il telegiornale che in percentuale ha dedicato più spazio al clima (con il 2,7% delle notizie trasmesse), mentre fanalino di coda si conferma il TG La7 di Enrico Mentana (con appena l’1,6%). Il TG1 e il TG2 scivolano rispettivamente al terzultimo e al penultimo posto, sintomo del condizionamento del governo Meloni sulla Rai.

La scarsa attenzione alla crisi climatica sui media italiani si abbina a un altro preoccupante fenomeno: le narrative di resistenza alla transizione energetica trovano sempre più spazio. Nel 2023 sono state veicolate dal 16% degli articoli dei quotidiani e dal 14% delle notizie dei telegiornali che parlano di clima, e si assiste inoltre a un ritorno del negazionismo climatico di vecchio stampo. Scetticismo, negazionismo e resistenza alla transizione si riscontrano anche nelle dichiarazioni sulla crisi climatica nei TG, nei quotidiani e su Facebook da parte dei principali leader politici della maggioranza, che più dei leader degli altri schieramenti esprimono dubbi o contrarietà verso la messa in atto di soluzioni per il clima.

«La resistenza alla transizione che troviamo in articoli, servizi di telegiornale e dichiarazioni dei politici altro non è che il riflesso di un complesso patto di potere in cui gli interessi dei media, della politica e del mondo industriale sono indissolubilmente legati, e in cui i soggetti che hanno più potere di condizionare il discorso pubblico sul clima sono proprio i colossi del petrolio e del gas come ENI, maggiormente responsabili della crisi climatica», dichiara Federico Spadini, campaigner clima di Greenpeace Italia. «Rompere questo legame, liberando i media dalla dipendenza dai finanziamenti dell’industria fossile e ridimensionando il potere del settore petrolifero di influenzare la politica italiana, è un’azione necessaria per affrontare la crisi climatica per quel che veramente è: un’emergenza che dobbiamo risolvere al più presto, per il bene delle persone e del pianeta».

In base ai risultati dello studio, Greenpeace ha inoltre stilato la classifica per l’anno 2023 dei principali quotidiani italiani: raggiunge la sufficienza soltanto Avvenire (con 6 punti su 10), segue La Stampa (4,2 punti) mentre risultano gravemente insufficienti Repubblica (3,8 punti), Corriere (3,2 punti) e Il Sole 24 Ore (3 punti), I giornali sono stati valutati mediante cinque parametri: 1) quanto parlano della crisi climatica; 2) se citano i combustibili fossili tra le cause; 3) quanta voce hanno le aziende inquinanti e 4) quanto spazio è concesso alle loro pubblicità; 5) se le redazioni sono trasparenti rispetto ai finanziamenti ricevuti dalle aziende inquinanti.

Per quanto riguarda infine le testate d’informazione più diffuse su Instagram, canale di riferimento per i più giovani, le notizie sulla crisi climatica si attestano al 3,2% sul totale dei post pubblicati. A differenza dei media tradizionali, hanno trovato più spazio gli aspetti ambientali (32%) e sociali (25%) rispetto a quelli politici (21%) ed economici (9%). Hanno dedicato più attenzione alla crisi climatica will_ita (9,6% sul totale dei post pubblicati), torcha (8,1%) e domanieditoriale (7,8%), mentre chiudono la classifica corriere (1,3%), ilfoglio (0,9) e avvenire.it (0,7%).

Il monitoraggio dei media italiani proseguirà anche nel 2024 nell’ambito della campagna di Greenpeace Italia “Stranger Green” contro il greenwashing e la disinformazione sulla crisi climatica. Con questa campagna l’associazione ambientalista intende contrastare l’influenza dell’industria fossile sul sistema dell’informazione, che minaccia la libertà di stampa, impedisce di conoscere la verità sulla crisi climatica e ritarda gli interventi di cui abbiamo urgente bisogno per accelerare la transizione energetica.

Greenpeace Italia


Una donna, per la prima volta, alla presidenza dell’Istituto Universitario Europeo

Pubblichiamo alcuni estratti del discorso di presentazione alla città di Firenze di Patrizia Nanz, nuova presidente dell’Istituto Universitario Europeo (palazzo Medici-Riccardi, 11 aprile 2024), nel quale vengono affrontati temi quali crisi della democrazia, polarizzazione delle società, politica dal basso, ruolo trasformativo delle università in rapporto con società, città e territori, immaginario progettante. Ci pare interessante che dall’esperienza teorico-pratica della nuova presidente si possa dedurre che perseguire la partecipazione sia antitetico al dirigismo imperante e al culto del capo; che obbiettivo della ricerca applicata sia l’interesse pubblico e non gli interessi privati, infine che si debbano concentrare gli sforzi per perseguire l’uguaglianza e condizioni di vita accettabili per la cittadinanza tutta.

Discorso di presentazione della prof. Patrizia Nanz, Presidente dell’Istituto Universitario Europeo,  alla città di Firenze

Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 11 aprile 2024

[…]

A cinquant’anni dalla fondazione dell’Istituto Universitario Europeo, le differenti crisi che le nostre società si trovano ad affrontare oggi sono piu profonde di quello che appare. Il punto critico è che ci confrontiamo con una serie di questioni caratterizzate da un’incertezza e da una complessità senza precedenti.

Queste sono: una situazione geopolitica disastrosa; l’avvento della disinformazione digitale e le sfide dell’intelligenza artificiale; democrazia e libertà minacciate; la distanza tra élite politiche e popolazione, e una crescente polarizzazione nelle società; il cambiamento climatico e i suoi effetti.

Le crisi che stiamo affrontando hanno carattere generale, ma influenzano ed investono il nostro stile di vita, le scelte quotidiane, le nostre città e regioni, ma anche le nostre università. Sono questioni che si pongono nel lungo termine, ma allo stesso tempo richiedono cambiamenti immediati. E soprattutto un cambiamento di paradigma del pensiero. Non sono questioni né lineari né univoche – in una parola sono complesse.

Questioni che pongono domande scomode: come riorganizzare le nostre società e i nostri sistemi democratici? È possibile crescere ed avere un’economia davvero sostenibile? Cosa vuol dire essere liberi oggi? Domande che non si possono affrontare singolarmente, ma solo in modo sistemico. Sollecitano una discussione ampia, riguardo ai valori e agli obiettivi che sono interagenti e spesso in conflitto.

Rispondere a queste domande significa prendere decisioni fondamentali che riguardano la direzione in cui vogliamo andare. Vuol dire che in questa fase di rapide transizioni – digitale, sociali e di un’auspicabile conversione ecologica –, comprendere e ripensare il rapporto tra l’università e la città è oggi più che mai urgente. Il ruolo delle università rispetto alle città è di sensibile incremento del bene comune aldilà della formazione ed educazione degli studenti.

La politica e l’amministrazione a livello nazionale hanno raggiunto il limite delle proprie capacità nel plasmare la trasformazione della società, ed anche quello del problem solving (avendo lavorato recentemente per il governo tedesco ne so qualcosa).

Solo se valorizziamo e rinvigoriamo la democrazia dalla base, la cittadinanza si formerà convinzioni e immaginazione di futuro.

Solo a quel punto le comunità locali potranno far pressione sui propri rappresentanti e su chi prende le decisioni istituzionali per ottenere politiche più coraggiose.

Ma come è possibile mettere insieme persone e idee per creare il nostro futuro comune? Come alimentare un dialogo sincero e costruttivo, assicurando che convinzioni fondamentali e punti in conflitto siano posti al servizio del bene comune?

Una risposta efficace, nella pratica, potrebbe configurarsi più o meno così: vari rappresentanti della società e organizzazioni locali – associazioni locali, chiese e comunità, camere di commercio o semplimente persone che vogliono prendere parte attiva – si riuniscono con l’obiettivo di comprendere come possono far fronte alla loro situazione. Insieme alle istituzioni cercano di elaborare un piano, ad esempio, per arrivare a realizzare una città che sia davvero vivibile. E far sì che esso venga implementato.

Non vedo qui soluzioni tecnicistiche ma la possibilità di offrire spazi per un immaginario progettante di nuovi rapporti sociali e una politica non di competizione, ma di collaborazione e di pace.

Fantascienza?

Ho organizzato tali processi come direttrice di un centro di ricerca sulla sostenibilità e professoressa all’università di Potsdam insieme a sindaci “illuminati” e consigli comunali virtuosi di dieci città in tutta la Germania. In un secondo tempo queste città si sono incontrate, imparando l’una dall’altra e alla fine hanno sottoposto alle Regioni e al Governo centrale proposte per migliorare le politiche nazionali, rendendole più coraggiose e creative attraverso le idee nate dalle comunità locali.

L’obbiettivo concreto e ambizioso è provocare un movimento dal basso, un movimento locale. Questo progetto che continua tuttora si chiama LOSLAND, “forza paese”. Come dire: se tutto il paese fosse così innovativo ed efficace, la Germania sarebbe un luogo diverso, con una giustizia ambientale maggiore, una qualità della vita migliore e più attraente, con un futuro per i nipoti.

Per tanti anni ho sperimentato la collaborazione fra ricerca e città. Come fondatrice del Forum pour l’avenir franco-allemand ho ospitato dialoghi tra varie città quali Lione e Monaco di Baviera ­– amministrazione pubblica e società civile ­– per affrontare questioni quali emissioni zero e housing sociale. In un secondo momento hanno imparato l’una dall’altra. Questi dialoghi transnazionali hanno prodotto e producono raccomandazioni e richieste ai governi francese e tedesco. Ma l’idea fondamentale è di animare un’Europa più democratica e sostenibile fondata sull’incontro fra le città. Un’Europa della pace tra esseri umani e tra questi e l’ambiente che li ospita.

Cosa ho imparato da questi progetti? Da un lato, che un’azione comunitaria efficace richiede quattro mattoncini come presupposti per il cambiamento: far incontrare le persone; condividere informazioni; arrivare a una nuova comprensione e creare insieme nuove conoscenze; stabilire obiettivi comuni e una responsabilità condivisa per raggiungerli. D’altro lato, una volta posati, questi mattoncini che caratterizzano la cultura collaborativa si sostengono da soli, generando persino una propria dinamica di espansione, perché sono risorse che non si riducono quando sono impiegate in un’azione comunitaria efficace; anzi, ne risultano accresciute.

Il fatto che una università indipendente come quella di Potsdam fosse promotrice e responsabile di questi processi è stato un elemento fondamentale per il successo di questo progetto.

Questo e tanti altri esempi illustrano come l’università possa assumere un ruolo trasformativo di grande rilevanza, un vero “luogo terzo” per la riflessione e la co-creazione di un futuro sostenibile.

La sola esistenza delle università e la loro naturale predisposizione alla ricerca non è condizione sufficiente.

Mi piace usare per l’università l’immagine di àncora di salvataggio, su cui contare mentre navighiamo nelle crisi di oggi e nella grande trasformazione della società che tanti scienziati reputano profonda quanto quella della rivoluzione industriale.

Le scienze sociali e umanistiche al centro del lavoro del nostro Istituto assumono in questo un ruolo centrale, perché indirizzate alla comprensione profonda delle dinamiche sociali, a interpretare la complessità, a navigare nell’incertezza che ci troviamo di fronte.

Perciò l’università deve porsi in prima linea nel rispondere a queste sfide con una forte volontà di agire dando vita ad uno spazio per la discussione libera, necessario alla trasformazione e all’incremento della vita democratica: e di agire proattivamente!

L’Istituto Universitario Europeo non deve solo migliorare le nostre politiche e fornire soluzioni tecniche per la Commissione Europea, ma può anche recuperare la capacità di esercitare la nostra immaginazione politica, di mantenere (e migliorare!) la vita democratica delle nostre società. Il nostro obbligo verso il futuro è di essere in prima linea a fronte di queste trasformazioni.

[…]

Auspico che questa collaborazione sia l’inizio di un processo deliberativo e concreto – e creativo – e che coinvolga istituzioni e cittadini.

Potremmo prendere spunto da Amsterdam, dove l’università e la città hanno dato vita ai Living Labs: collaborazioni tra società civile, cittadini, imprese e istituzioni, che mettono in moto le attività del territorio con diversi obiettivi: per esempio riqualificare aree abbandonate o sviluppare soluzioni per il turismo sostenibile. I Living Labs sono stati replicati in diverse città europee. Sono convinta che questi spazi di co-creazione siano la strada più efficace per ottenere risultati apprezzabili.

Per riassumere, a mio parere, i centri di ricerca e le università dovrebbero essere il “luogo terzo” per ripensare le nostre società alla luce della crisi della democrazia.

Praticare l’educazione e la collaborazione nei percorsi di studio e di sviluppo di una cultura della pace e del rifiuto della violenza.

Ed è per questo che oggi voglio riaffermare che le porte dell’Istituto Universitario Europeo sono aperte alla città di Firenze. In quello che vogliamo sia un continuo scambio di idee e progetti per il futuro.

Sono felice di essere qui oggi, per cominciare questo lavoro, insieme.

 


Razza: una parola da eliminare

“Le parole hanno un peso, generano significati, emozioni e sensazioni. Alcune pesano più di altre, e tra queste la parola “razza”. È un termine che, finalmente, è in via di cancellazione, almeno per ciò che riguarda le scelte ufficiali di molte nazioni nel mondo. Le ragioni per la sua condanna all’oblio sono molteplici e di varia origine. Esiste una ragione scientifica (biologica), e, naturalmente, una ragione etica finalizzata a scoraggiare atteggiamenti culturali discriminatori. L’etimologia della parola razza viene individuata, secondo alcune fonti, nella parola haraz, che in francese antico, già dal Medioevo, indicava l’allevamento di mandrie di cavalli; tuttavia è dal primo ‘800 che assunse il significato che fondamentalmente resiste fino ad oggi. La responsabilità iniziale, almeno in ambito scientifico, è da ricondurre agli studi di antropologi che nel XIX secolo si accanirono a trovare una spiegazione “scientifica” che giustificasse la diversità e la variabilità dei gruppi umani nel mondo. Era il secolo delle classificazioni, della sistematica ritenuta utile alla ricostruzione della storia naturale dell’uomo. La parola “razza” si impose come pilastro di una architettura orientata a descrivere l’uomo occidentale al vertice di una piramide evolutiva, in netta superiorità a popoli e culture differenti. In altre parole è da questo periodo che il termine “razza” comincia a espandersi e a a costruire il concetto di razzismo. Così gli studiosi e gli antropologi più famosi d’Europa, in particolare francesi e tedeschi, si sbizzarrirono nell’individuazione di gruppi omogenei da tipizzare. Il colore della pelle, quello dei capelli, degli occhi, la forma della testa, del tronco, l’altezza, insomma moltissimi dati morfometrici e morfologici furono variamente utilizzati nelle classificazioni. Ciascuno utilizzava il parametro distintivo che gli sembrava più significativo, con il risultato che nel corso del XIX secolo vennero create svariate classificazioni degli umani, dalle cinque “razze”, alle sette, undici, fino alle ventidue dell’ultimo scienziato che si cimentò nell’impresa. E aveva un bel dire Charles Darwin quando obiettava che le differenze fisiche tra i gruppi erano così tante che sarebbe stato impossibile suddividere il genere umano in “razze” e soprattutto quando formulò la sua teoria, in tema di evoluzionismo, del monogenismo. Semplificando, il monogenismo prevedeva l’esistenza di un antenato comune per tutta l’umanità, mentre tra gli scienziati prevaleva la teoria del poligenismo. Questa dicotomia non è di poco conto, se consideriamo che, secondo la teoria poligenica, ogni “razza” avrebbe un’origine separata, con la conseguenza che gli appartenenti a una certa “razza” non avrebbero potuto in nessun caso fare parte di gruppi diversi, originati a loro volta indipendentemente. Da questo assunto fu estremamente facile formulare giudizi di superiorità o inferiorità di gruppi interi di persone.

Questi presupposti furono amplificati in un grande complesso politico-ideologico, culminato nella grande tragedia del razzismo novecentesco. In un crescendo di propaganda pseudo-scientifica la parola “razza” ha finito per mettere in piedi una certa idea di identità, di appartenenza, rafforzata da frasi come “purezza della razza”, “difesa della razza”, “razza ariana”. Le conseguenze sono purtroppo note a tutti.

Negli anni ’50 del novecento la scoperta del DNA ha definitivamente messo fine all’assurdità dell’esistenza delle “razze”. Ciononostante la parola ha continuato a sopravvivere, a essere pronunciata, a essere usata per ferire o per giustificare azioni politiche, o ideologiche, o entrambe. Ancora negli ultimi anni del ‘900 i libri di testo scolastici e universitari riportavano la ripartizione del genere umano in cinque “razze”, suddivise più o meno su base geografica.

Eliminare dal nostro linguaggio questa parola non significa ovviamente eliminare il razzismo, consapevoli che all’infondatezza su base biologica non ne consegue quella su base sociale e culturale. Tuttavia è necessario eliminarla dal nostro lessico corrente e ufficiale, in quanto espressione di un sistema ideologico e storico carico di colpa e di responsabilità, se vogliamo organizzare una società di convivenza rispettosa che combatta un linguaggio discriminatorio.

Non si tratta di una operazione di pulizia di coscienza (o forse non solo) e ancor meno di culture cancel o di limitazione della libertà di espressione, che non esiste in caso di oltraggio, provocazione e insulto. Potremmo forse ammettere una punta di ipocrisia, tuttavia l’operazione di cancellazione linguistica non è mirata all’oblio della storia ma a frenarne il perpetuarsi.

E non possiamo accettare nemmeno l’obiezione, rilanciata da alcuni, che anche la nostra Carta Costituzionale all’articolo 3 cita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Si consideri che al tempo della sua formulazione, la scienza non era ancora in grado di escludere l’esistenza delle “razze”, e in ogni caso i Padri Costituenti dibatterono a lungo sulla scrittura di questa parola finendo per decidere che citarla in questo nuovo contesto era un modo per svuotarla della sua accezione precedente, e un modo per ricordare i tanti morti che ne sono derivati.

L’anno scorso, sulla scia di scelte già operate in altri paesi, le Commissioni Affari Costituzionali e Lavoro della Camera hanno votato all’unanimità per l’abolizione del termine “razza” da ogni documento amministrativo della Repubblica Italiana, sostituendolo con il termine “nazionalità”.

Nel linguaggio comune, dovremmo praticare insieme un uso cosciente delle parole, che tenga conto di nuove consapevolezze sociali. La lingua cambia nel tempo in base all’uso che ne facciamo, e si adatta a nuove percezioni e sensibilità. Siamo in grado di trovare onorevoli sostituti per indicare i gruppi umani, come: “culture” o “comunità”, che privilegiano l’accezione dei gruppi come insieme di persone con interessi e tradizioni condivise. Anche “etnia” o “gruppo etnico” indicano lo stesso concetto, seppure queste espressioni abbiano subito il peso di accezioni negative e violente, come ad esempio “pulizia etnica” o “etnocidio”.

 


L’inferno di Haiti. 1. Colonizzazione, neocolonizzazione, neoliberismo

La storia di Haiti ha un peso sul futuro del mondo. Per esplorarne anche solo le fasi principali ci vorrebbero settimane: ho scelto alcuni temi paradigmatici, tra loro coerenti e legati da una logica inarrestabile di espropriazione del potere e di impoverimento della grande maggioranza del popolo haitiano.

 

La colonizzazione del 1492

È stato l’inizio della costruzione istituzionale della razzializzazione, indispensabile per sostenere la globalizzazione del sistema capitalista. Il 4 dicembre 1492, gli indiani Taïno, come erano soliti fare dopo una giornata di sole e una serata di canti e fraternità, si addormentarono pacificamente sulla spiaggia. Erano gli ultimi giorni felici sulla loro isola. Quella che seguì fu una lunga storia di terribile sofferenza umana.

Il mattino seguente, il 5 dicembre 1492, scoprirono con stupore tre mostruose navi nella baia. Non fu dunque Cristoforo Colombo a scoprire Haiti. Furono gli indiani, per loro grande sfortuna, a scoprire Cristoforo Colombo e i suoi uomini armati mentre a loro volta scoprivano gli stranieri sulla propria terra. Come se non bastasse, questi ultimi accolsero calorosamente e fraternamente i loro futuri assassini.

Tutto ciò avvenne prima che fossero tutti rapidamente uccisi con le armi, decimati dai lavori forzati e dalle malattie che accompagnarono le spedizioni di Colombo e dei suoi successori. Lo sterminio degli indiani Taïno di Haiti – in realtà il genocidio, perché di genocidio si trattò – chiuse una porta alla possibilità dell’evoluzione pacifica delle società umane. A questo proposito, la loro storia potrebbe trovare posto nel libro di David Graeber, L’alba di tutto: una nuova storia dell’umanità, con la sua descrizione delle molte società umane distrutte, in particolare, dall’imperialismo e dal capitalismo occidentale.

Viene da chiedersi se fu una coincidenza del calendario o l’inizio della costruzione metodica della xenofobia europea, quando, proprio nel 1492, la regina Isabella di Castiglia e suo marito Ferdinando d’Aragona firmarono in Spagna un editto che invitava gli ebrei a lasciare il paese. Nel suo libro Capital et race: histoire d’une hydre moderne, Sylvie Laurent sottolinea infatti che la missione di Cristoforo Colombo fu sponsorizzata dal regime di un paese già fortemente impegnato nella purificazione della razza ebraica. La seconda missione di Colombo fu finanziata in gran parte con i fondi generati dalla vendita delle proprietà degli ebrei espulsi dalla Spagna.

Il 1492 segnò un punto di svolta verso la razzializzazione gerarchica delle società e l’aumento vertiginoso del reddito del capitale derivante dal lavoro sottomesso e dalla cattura delle risorse naturali nelle colonie. Naturalmente, non era la prima volta che il sistema di accumulazione e concentrazione del capitale, generato dai profitti della sua predazione su parte del lavoro degli esseri umani, era all’opera. Tutti gli imperi e persino i vari regni o città-stato, ciascuno alla scala che gli era propria, avevano utilizzato la stessa strategia: quella dello sfruttamento dei lavoratori liberi o sottomessi. Ma c’è un prima e un dopo il 1492, allorquando ai poteri predatori localizzati subentrò la razionalizzazione del potere nei vari continenti, e la piovra tentacolare del Capitalocene, con i suoi strumenti altamente razzializzati, iniziò a prendere forma. Come ha scritto Eric Williams: “La schiavitù non è nata dal razzismo; il razzismo è stato il prodotto della schiavitù”. O Pierre Bourdieu: “Sappiamo che ogni esercizio della forza è accompagnato da un discorso volto a legittimare la forza di chi la esercita”.

Nel 1492 si è visto l’inizio della colonizzazione attraverso la tratta dei neri, di una schiavitù tecnicizzata, razionalizzata e prodotta in serie, con una prefigurazione del rigore dei campi di sterminio nazisti ma, nel caso dei neri, con l’obiettivo di far fruttare il capitale, si è avuto un risultato ancor più orribile ancora della scomparsa genocida degli ebrei. Il crimine contro l’umanità, anche se è importante averlo finalmente chiamato così, è ancora un concetto debole per cogliere ciò che è accaduto; è stata la negazione di tutta l’umanità dei neri, è stato un genocidio dell’umanità. Ridotti allo stato di macchina di produzione per la redditività del capitale investito. Per tre secoli, privati di ogni possibilità di pensiero indipendente, del diritto a relazioni familiari e affettive durature, di qualsiasi proprietà, compreso il proprio corpo. Un vuoto, un abisso per ogni schiavo. Il genocidio attraverso la morte, qualunque sia il metodo impiegato, è un orrore senza nome; ma come possiamo descrivere il genocidio di umanità per gli esseri viventi, esseri senzienti e pensanti a cui viene negato il diritto di essere umani per tutta la vita? Ci furono, ovviamente, eccezioni al maltrattamento degli schiavi ma, come i dibattiti sullo status degli schiavi, rimasero una minoranza e non servirono a cambiare la terribile condizione degli schiavi.

Il 1492, con la colonizzazione di Haiti, segnò dunque un punto di svolta. Accelerò la già una strisciante razzializzazione medievale che stava iniziando a saturare la cultura europea. Nel suo libro Capital et race, Sylvie Laurent ricorda che nel 1444 un carico di 235 schiavi neri provenienti dal Senegal fu scaricato a Lisbona. Nel 1486, la corona portoghese creò la “Casa degli schiavi di Lisbona” per regolare il loro arrivo, tassazione e vendita. Nel 1460, i genovesi svilupparono il sistema delle piantagioni di zucchero a Capo Verde e poi a São Tomé e nelle Canarie… Furono questi i precursori delle piantagioni nei Caraibi. È a São Tomé che fu concepita e sperimentata la prima struttura di piantagione-fabbrica con esseri umani mercificati e avviata la teorizzazione della naturale inferiorità dei neri. Colombo conosceva bene questo sistema, avendo visitato Madeira già nel 1478. Lì imparò a conoscere la distruzione della natura, compresi i grandi incendi, e la coltivazione della canna da zucchero da parte degli schiavi.

“Tra il 1441 e il 1521, circa 156.000 schiavi africani furono sbarcati nella penisola iberica e nelle colonie atlantiche” (Sylvie Laurent). Quindi non è stato dopo aver “scoperto Haiti” che Cristoforo Colombo e i suoi uomini hanno ideato il sistema delle piantagioni con schiavi neri, ma è stato ad Haiti che hanno razionalizzato il sistema per renderlo un modello di redditività su larga scala.

Lo schiavo diviene sia capitale, sia produttore di capitale. Per inciso, cinquecento anni dopo, in un’altra epoca – la nostra –, gli esseri umani con le loro competenze e la loro produzione fanno ancora parte del capitale e della sua potenziale crescita quando le aziende vengono vendute. Le condizioni non sono ovviamente paragonabili, ma il legame tra sistema capitalistico e umani mercificati rimane fondamentalmente lo stesso.

Il 1492 segnò un passo importante verso una globalizzazione fino ad allora sconosciuta, di capitali, materie prime e beni, compresi i numerosi schiavi. Soprattutto, il 1492 segnò l’inizio dello sviluppo di argomenti teologici e giuridici per giustificare la schiavitù nera.

Seguirono in Francia, nella medesima logica, i “codici neri” del marzo 1685 con un editto reale del nostro “meraviglioso re Luigi XIV”, ma anche quelli di inglesi, portoghesi, olandesi… Il codice nero francese fu abolito nel 1848! Anche se la tratta degli schiavi era stata abolita nel 1815. Forse dovremmo porci una domanda: quando è stato il “Secolo dei Lumi”? Su Wikipedia sarebbe stato tra il 1650 e il 1800. Vi consiglio di leggere le parti del libro di Sylvie Laurent dedicate ai nostri grandi filosofi e scrittori e al loro rapporto con il tema della schiavitù: vi aiuterà a mettere in prospettiva l’estrema intelligenza degli intellettuali dell’Illuminismo, per secoli venerati senza riserve. In particolare, mentre Rousseau riteneva che il “doux commerce” [dolce commercio, NdT] fosse solo un’illusione, Montesquieu e Voltaire non si ritrassero dal fare un’apologia del commercio come “rimedio alla guerra”, anche se talvolta ne denunciarono gli eccessi. Tentando in ogni modo di evidenziare il ruolo emancipatore e unificatore che individuavano nel commercio, minimizzavano le dure condizioni in cui venivano prodotti i prodotti scambiati.

La colonia haitiana fu spagnola dal 1492 al 1615, poi francese dal 1615 al 1804, senza che questo cambiasse la condizione degli schiavi.

 

1804: l’indipendenza

Questa è certamente la parte più nota della storia, quindi non mi dilungherò. È il culmine di lotte non sufficientemente documentate (Makandal, [a capo della rivolta contro i bianchi francesi, NdR] fu bruciato vivo nel 1758), ma che non cessarono durante i tre secoli di colonizzazione; del resto, gli schiavi si sono sempre ribellati. Il 14 agosto 1791, la cerimonia di Bwa Kayiman presieduta da Boukman diede il via alla grande rivolta. Fu il culmine di un gruppo eccezionale di capi della rivolta, Toussaint Louverture, Dessalines, Pétion, Christophe, e, soprattutto, un popolo eroico. A migliaia si sono sacrificati per ottenere la libertà di tutti. Hanno avuto il coraggio di realizzare l’inimmaginabile: vincere la guerra contro l’esercito di Napoleone e promulgare l’uguaglianza di tutti gli esseri umani “tout moun se moun” [in creolo: “ogni persona è una persona”, NdT], ed è stato un popolo nero che ha osato farsi carico di questa liberazione universale. L’impensabile, nel senso letterale del termine, era accaduto. I paesi dominanti non potevano accettarlo. Circa 500.000 schiavi neri stavano distruggendo il potere dei 30.000 bianchi che li sfruttavano. Napoleone inviò più di 33.000 uomini sotto il comando di Leclerc, marito di sua sorella, a dimostrare l’importanza che egli attribuiva alla volontà di cancellare l’impensabile: ovvero, l’indipendenza di un popolo nero schiavizzato.

Ci sarebbe voluto poco più di un decennio di terribili lotte in cui i capi delle rivolte dimostrarono un coraggio e un’intelligenza strategica straordinari, cui in seguito si ispirarono le lotte di liberazione dell’America Latina e di altri paesi. Per minimizzare il riconoscimento del genio strategico di questi capi e dei loro uomini, si è spesso detto che la febbre gialla fu la causa della sconfitta dell’esercito di Napoleone, ma basta consultare gli scritti di numerosi storici, spesso liberamente disponibili su Internet, per scoprire fino a che punto i capi haitiani furono in grado di stringere alleanze con spagnoli, inglesi e francesi, intrappolando infine questi ultimi e conquistando, così, l’indipendenza.

Tuttavia, quando accadde l’impensabile, tutti i governi di quello che oggi chiamiamo Occidente cospirarono per non riconoscere l’indipendenza di Haiti, nella segreta speranza che la Francia, o uno dei vari governi occidentali, riconquistasse l’isola che era allora considerata la perla delle Indie Occidentali per via delle piantagioni tanto redditizie per i proprietari. Ma data la determinazione del popolo haitiano, nessuno volle correre questo rischio.

Iniziò quindi un lungo processo di destabilizzazione e di ricerca di una nuova sottomissione attraverso un altro mezzo: quello dell’economia e del commercio. Una missione francese dopo l’altra cercò di negoziare diversi tipi di protettorato, per un ritorno all’amministrazione fiduciaria, ma gli haitiani erano intrattabili: volevano l’indipendenza a tutti i costi. Tanto che Pétion, uno dei loro capi, avanzò addirittura proposte di acquisto, nonostante la vittoria militare. Nacque così l’idea di risarcire gli ex coloni per ottenere questo riconoscimento. La trappola si richiuse quando Carlo X salì al potere in Francia. Tutti gli Stati europei accettarono l’indipendenza di Haiti, negoziata con Carlo X. Agli Stati Uniti ci vollero invece cinquantotto anni (dal 1804 al 1862) per riconoscere l’indipendenza di Haiti.


1825: la neocolonizzazione

Molti degli elementi qui presentati sono tratti dal notevole libro Haiti- Francia. Les châines de la dette: le rapport Mackau, 1825, pubblicato nel 2021, che per la prima volta rende pubblico il famoso rapporto Mackau, che dal 1825 è rimasto, come per caso, nelle profondità degli archivi francesi. Attraverso diversi articoli di ricercatori, il libro analizza i negoziati tra il presidente Boyer e la sua squadra, e quella francese di Carlo X, guidata dal barone de Mackau, ufficiale e futuro ministro della Marina e Pari di Francia, e accompagnata da solide cannoniere come minaccia militare.

La richiesta francese di rimborso era di 30 milioni di franchi d’oro all’anno per cinque anni, quando le entrate del governo haitiano si aggiravano intorno ai 15 milioni all’anno.

Per costruire questa negoziazione del debito a 150 milioni di franchi, il documento ricorda che essa si basava sul reddito annuo dei coloni, che era di 145 milioni di franchi (alle condizioni del 1789) e che la stima del loro investimento era pari a 10 volte questo valore, cioè 1.450 milioni di franchi. La trattativa cercava quindi di far credere che la somma richiesta fosse ben lontana dal coprire tutte le perdite dell’investimento e che corrispondesse solo a una perdita di reddito annuale. I documenti ovviamente ignoravano il fatto che la terra delle piantagioni era stata completamente rubata agli occupanti originari, gli indiani Taino, e che gli schiavi, per quasi due secoli, non erano mai stati pagati per il loro lavoro.

Tramite il debito così consistente, i francesi pensavano di poter costringere gli haitiani a ridurre il loro budget militare e quindi la capacità di difesa di Haiti. L’idea di riconquistare l’isola non era ancora stata completamente abbandonata. Ma poiché i negoziati si svolgevano sotto la minaccia delle cannoniere, Haiti non aveva alcuna intenzione di ridurre le proprie forze armate. Piuttosto pagare che perdere l’indipendenza.

All’enormità del compenso per l’indipendenza, si aggiungevano condizioni che appesantivano il debito e, soprattutto, miravano alla sottomissione commerciale e finanziaria:

  1. il prestito che il governo di Haiti avrebbe potuto contrarre per far fronte ai suoi impegni sarebbe avvenuto in Francia (il precursore del CIC in Francia);
  2. le navi da guerra francesi e haitiane sarebbero state autorizzate a entrare nei rispettivi porti… ma alle navi da guerra haitiane sarebbe stato consentito solo un ingresso parziale per motivi di sicurezza;
  3. le navi e i cittadini di Haiti si asterranno dall’entrare nelle colonie francesi (per non diffondere la rivoluzione);
  4. dimezzamento dei dazi doganali di entrata e di uscita per la bandiera francese.

In alcuni anni, i profitti degli azionisti delle banche francesi superarono l’intero budget che lo Stato haitiano poteva destinare alle opere pubbliche.

È interessante osservare da vicino le famose “condizioni” poste dalla Francia nel 1825 per negoziare questo debito e confrontarle con le “condizioni” poste dalla Francia al momento dell’indipendenza delle colonie africane negli anni ’60…. Nel 1960, non era più dignitoso chiedere il rimborso ai coloni, soprattutto perché la continua presenza francese nella maggior parte dei paesi non lo giustificava. Si riscontrano inoltre i vantaggi di accordi commerciali a favore dell’ex colonizzatore e, soprattutto, la presenza di banche francesi e del famoso franco CFA [Communauté Financière Africaine, NdT] come moneta di controllo economico e finanziario. Nel 1825, Haiti era già nelle prime fasi del neocolonialismo in Africa e altrove.

L’ultimo pagamento effettuato dallo Stato haitiano al governo francese risale al 1883. L’importo totale pagato alla Francia fu di 90 milioni di franchi oro, ma Haiti dovette anche sostenere tutti gli interessi sui prestiti bancari, ossia l’equivalente attuale di circa 30 miliardi di dollari in quello che si può senza dubbio definire un debito illegittimo che la Francia deve assolutamente restituire.

Drenando quasi un terzo delle risorse nazionali disponibili, la Francia aveva soffocato ogni possibilità di migliorare la situazione della popolazione per la maggior parte del XIX secolo. Il costo del riacquisto dell’indipendenza all’inizio del XX secolo avrebbe dovuto segnare l’inizio di uno sviluppo autonomo della nazione haitiana, malgrado i numerosi sconvolgimenti politici che il paese stava vivendo. Sconvolgimenti politici che non erano specifici di Haiti, vista la presenza di numerose imprese straniere tedesche, statunitensi e francesi al centro di un’economia capitalista altamente redditizia, che esportava colture da reddito e importava beni di consumo. Il paese avrebbe comunque potuto sperare di orientare meglio il proprio sviluppo. Ma questo significava dimenticare la guerra tra predatori internazionali.

Gli USA – irritati dalla morsa delle banche francesi e, soprattutto, dai loro astronomici profitti –, spinti da Wall Street e approfittando del fatto che la Francia era coinvolta nella Prima Guerra Mondiale, decisero di occupare Haiti.

 

1915: l’invasione americana

Il 17 ottobre 1914, in nome della sicurezza del capitale statunitense ad Haiti, un commando USA entrò nella banca centrale haitiana e sequestrò la riserva d’oro, allora stimata in 500.000 dollari. Era solo l’inizio.

Nel 1915 si trattò di un’occupazione su larga scala, una “missione di civilizzazione” che coinvolse decine di migliaia di uomini. Lasciarono il paese solo 19 anni dopo, nel 1934, e anche dopo la loro partenza, attraverso l’amministrazione finanziaria che avevano istituito, continuarono a gestire l’economia haitiana praticamente per altri 13 anni, fino al 1947.

Hanno estromesso i francesi dal sistema bancario creando la National City Bank of New York, che in seguito è diventata Citigroup. Si limitarono così a sostituire la francese CIC [Crédit Industriel et Commercial, NdT], che aveva realizzato profitti astronomici ad Haiti, poiché controllava tutte le operazioni finanziarie del governo, ricevendo commissioni su ognuna di esse.

Naturalmente, hanno proceduto allo scioglimento del Parlamento e all’eliminazione sistematica degli oppositori, migliaia dei quali sono stati massacrati. Si sono preoccupati di creare un’amministrazione ai loro ordini, con il preciso scopo di far sì che il paese occupato andasse a beneficio degli interessi USA, in particolare per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse naturali e la creazione di piantagioni per l’esportazione dei prodotti sul mercato statunitense. Agirono stravolgendo la Costituzione haitiana e concedendo agli stranieri il diritto di acquistare terreni ad Haiti, il che significa ovviamente gli statunitensi.

Durante l’occupazione americana, gli Stati Uniti investirono molto poco nel paese, a paragone dei paesi vicini. Questo probabilmente per paura dei neri. D’altra parte, reintrodussero la corvée, il lavoro gratuito obbligatorio, che ricordava la schiavitù e che portò a numerose rivolte, la più importante delle quali fu quella dei cacos. Il loro leader Charlemagne Péralte fu giustiziato dagli statunitensi.

Un articolo del New York Times del 20 maggio 2022 ricorda che:

“Ho contribuito a fare di Haiti e di Cuba luoghi dove i ragazzi della National City Bank potevano fare facili profitti”, scrive, nel 1935, il generale Smedley Butler, che aveva comandato le forze USA ad Haiti, aggiungendo di essere stato un “gangster al servizio del capitalismo”.

Dai circa venti rapporti annuali di funzionari USA che il New York Times ha potuto leggere, risulta chiaramente che, in un periodo di dieci anni, un quarto delle entrate pubbliche di Haiti è stato destinato al pagamento dei debiti controllati dalla National City Bank e dalla sua filiale haitiana. All’epoca si trattava di cinque volte il bilancio della scuola pubblica del paese. Alcuni storici sottolineano i benefici tangibili: la costruzione di ospedali, 1.200 chilometri di nuove strade e un servizio civile più efficiente. Ma sottolineano anche che gli USA utilizzarono il lavoro forzato: i soldati legarono con le corde gli haitiani, li fecero lavorare senza retribuzione e spararono a chi cercava di fuggire.

 

1934 -1957: una moltitudine di presidenti

Una moltitudine di presidenti, alcuni per pochi mesi o giorni. Tra il dicembre 1956 e il giugno 1957 si susseguirono cinque governi provvisori. Il mandato del presidente Estimé, dal 16 agosto 1946 al 10 maggio 1950, fu più produttivo, con il primo Codice del Lavoro, scuole e numerosi investimenti ecc. Haiti fu allora presentata come un modello economico per i Caraibi. Il mandato del presidente Magloire (1950-1956) vide una continuazione degli investimenti con una certa stabilità politica, ma fu a sua volta rovesciato quando, alla fine del suo incarico, cercò di mantenere la carica.

Il periodo dal 1937 al 1957 può essere descritto come un periodo certamente turbolento, ma non troppo diverso da quelli che tutti i popoli liberi attraversano nel corso della loro storia. Durante i 20 anni di indipendenza, Haiti comunque non è stato il paese peggio gestito dei Caraibi, anzi.

 

1957- 1986: la dittatura Duvalier

La dittatura Duvalier balzò agli onori della cronaca internazionale con la caricatura dei Tontons Macoutes [appellativo popolare per Milice de Volontaires de la Sécurité Nationale, NdT]: una dittatura sanguinaria, con milioni di esiliati, arresti ed esecuzioni sommarie, una comunità intellettuale e militante decimata e devastata. In breve, una dittatura molto oscura e, per di più, senza alcuna volontà di sviluppare il paese, a differenza dell’altrettanto terrificante vicino, la Repubblica Dominicana, intrisa di sviluppo nazionalista. Povertà, carestia, stagnazione, infrastrutture fatiscenti, ecc. ma ancora una volta un popolo che, nonostante le condizioni di vita spesso subumane, si organizzò nel movimento ti-léglises – ispirato alla contemporanea teologia della liberazione sudamericana e con numerosi militanti clandestini – per spodestare finalmente Duvalier figlio e porre fine a ventinove anni di dittatura.

Voglio ricordare che la dittatura non è nata spontaneamente. Ancora una volta, furono gli statunitensi, con i finanziamenti della CIA, a permettere a Duvalier di prendere il potere e, soprattutto, di mantenerlo. Haiti si trovava al centro del triangolo formato da Giamaica, Cuba e Repubblica Dominicana, la cui invasione nel 1965 aveva provocato oltre 20.000 morti. Il controllo di Haiti offriva una posizione strategica ideale per controllare i tre vicini caldi alle porte degli Stati Uniti. Nel 1975, Haiti subì inoltre l’attuazione del Piano Condor statunitense per l’America Latina: un portentoso sostegno a tutte le dittature dietro il pretesto di combattere il comunismo. Ancora una volta, l’indipendenza di Haiti fu messa in sordina, se non del tutto cancellata.

 

Anni ’90: la sottomissione all’imperialismo neoliberale

Nel 1987 fu elaborata, e approvata a larghissima maggioranza, la Costituzione. Si trattò senza dubbio della costituzione più democratica del paese che, dopo la dittatura di Duvalier, puntava a una reale partecipazione democratica sostenuta da un forte decentramento. Era la speranza di un intero popolo. Non è mai stata attuata ed è importante sottolineare che gli aiuti internazionali non andavano nel senso della sua realizzazione, malgrado la moltitudine di progetti finanziati negli ultimi trent’anni. La cosiddetta comunità internazionale ha scelto un’altra strada: l’imposizione dell’economia neoliberista. Questa “comunità internazionale” preferisce lavorare per imporre il modello economico neoliberale piuttosto che il modello organizzativo democratico.

In seguito a libere elezioni che videro un’alta affluenza alle urne, Aristide fu eletto Presidente della Repubblica con una vera e propria legittimazione popolare. Purtroppo, il suo discorso socialista non fu sempre ben accolto dalla comunità internazionale, in particolare quando vilipendeva pubblicamente la borghesia nazionale, della quale denunciava le pratiche di predazione. Ma anche perché, durante la sua elezione, ha sgominato il puledro statunitense, l’economista liberale Mac Bazin, ex dirigente della Banca Mondiale, che aveva ricevuto 36 milioni di dollari di sostegno dalla NED/CIA per le elezioni (NED, National Endowment for Democracy, organizzazione statunitense che dovrebbe difendere la democrazia, ma che è spesso la copertura per le azioni della CIA, che tanto ha difeso le dittature sudamericane). Una violenta campagna di destabilizzazione, sostenuta ancora una volta dall’esterno, approfittò dei difetti della presidenza Aristide, che erano reali e non potevano essere negati, riuscendo a provocare un colpo di Stato il 30 settembre 1991. Il colpo di Stato fu sostenuto dall’esercito e dalla borghesia comprador. Con Cedras, l’esercito prese il potere; ne seguì una massiccia repressione. Gli Stati Uniti fanno il doppio gioco, impongono un embargo contro il colpo di Stato fornendo, al tempo stesso armi al gruppo FRAPH (organizzazione paramilitare di estrema destra, braccio destro del governo, che ucciderà decine di persone). E l’embargo non farà altro che scatenare il mercato nero, tragico per la popolazione e assai redditizio per i ricchi. Profughi sbarcano in massa sulle coste statunitensi. Bush costringe Cedras e Aristide a negoziare per il ritorno di quest’ultimo al potere. Nel tentativo di negoziazione, le richieste USA, derivate dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), sono significative: mantenere bassi i salari, privatizzare le aziende pubbliche, abolire i dazi doganali, dare alle aziende straniere l’accesso al mercato haitiano… le basi per l’aggiustamento strutturale e la morte della produzione nazionale… che Aristide ha applicato durante il suo secondo mandato.

Gli accordi del 1994, poi del 1996, e la lettera di intenzioni indirizzata al FMI-Fondo Monetario Internazionale, firmata dal Ministro delle Finanze haitiano (Fred Joseph) e dal Governatore della Banca Nazionale della Repubblica di Haiti (Fritz Jean) del 19 novembre 1998, segnano l’asservimento di Haiti alla politica neoliberale in piena espansione mondiale, consolidando la politica di aggiustamento strutturale.

Politiche di aggiustamento strutturale che non differiscono da quelle messe in atto in Africa nello stesso periodo e che restano ancora oggi al centro delle politiche di austerità dei paesi del Nord. Anche stavolta il Sud è servito da canovaccio, da test. Questi programmi di aggiustamento strutturale sono presentati dai media con linguaggio spesso oscuro che soprattutto invita le popolazioni a tenersene a distanza, perché troppo difficile da comprendere. La strategia è perciò di una semplicità sconcertante: in nome della ricerca dell’equilibrio budgetario e della bilancia dei pagamenti, è necessario diminuire i costi della funzione pubblica. Questa è la versione ufficiale, la copertura retorica per procedere verso la privatizzazione totalmente fuori controllo degli Stati. È una meccanica semplice: si pone l’accento sui disfunzionamenti dei ministeri e delle imprese pubbliche, senza tentare di razionalizzare per eliminare le inefficienze: no, basta annunciare che sono troppo cari e poco efficaci. E così, per spendere meno si diminuisce il personale: i servizi, meno dotati, funzionano ancor peggio, ma non è un problema, resta la soluzione miracolosa: la privatizzazione. E perché la privatizzazione abbia successo, basta limitare i regolamenti, i controlli e, naturalmente, la tassazione. Ai detentori di capitali non resta che arricchirsi; ai licenziati di rimanere senza stipendio e agli acquirenti dei servizi di pagare un po’ di più, perché gli azionisti devono essere ben remunerati.

Ma c’è qualcosa di ancora più grave. Quando da privati si tratta con le banche su investimenti e capitali d’esercizio, sono le banche stesse a decidere se finanziare o meno i nostri piani, a seconda che li considerino o meno redditizi. Le strategie dei servizi privatizzati sono quindi definite dalle banche in base alla loro redditività, e non ai bisogni della cittadinanza. Da parte dei governi, si tratta di una perdita di potere su quelle che un tempo erano politiche pubbliche che i cittadini potevano ancora influenzare con il loro voto. All’inizio del XX secolo, uno dei Rothschild, tra i maggiori banchieri, dichiarò pubblicamente che “presto non avremo più bisogno di governi, sappiamo noi cosa dobbiamo fare per il popolo”. Ed eccoci qui.

Lo scritto prosegue nella seconda parte di prossima pubblicazione.

*Traduzione dal francese di Ilaria Agostini.


25 aprile: con la resistenza dei sanitari palestinesi

Ciò che rende questa guerra differente è il modo in cui la distruzione del sistema sanitario è stato un aspetto centrale della strategia militare. Ciò pone più pressione su di noi operatori sanitari nel mondo per assicurarci che questa sia l’ultima guerra in cui questo tipo di strategia venga applicato.”

Dr Ghassan Abu Sitta, chirurgo specializzato in ferite da guerra.

La giornata del 28.03.2024 segna il triste traguardo degli oltre 1.000 attacchi con cui l’esercito isr4elian0 ha colpito l’assistenza sanitaria nei Territori palestinesi occupati. Ciò equivale a circa cinque attacchi al giorno. Si contano 458 operatori sanitari uccisi, 311 operatori sanitari arrestati. Tristi numeri dietro ai quali si cela un oceano di umanità.

Come operatori sanitari stiamo assistendo con crescente preoccupazione alla strategia militare utilizzata dall’esercito israeliano: un attacco sistematico e brutale nei confronti del sistema sanitario e dei suoi professionisti. Il Dottor Hammam Alloh, ucciso l’11 novembre da un attacco aereo, diceva nella sua ultima intervista, riguardo all’ordine di evacuazione che l’esercito 1sraelian0 aveva imposto sul suo ospedale:

Se vado, chi cura i miei pazienti? Non siamo animali, abbiamo il diritto di ricevere un’assistenza sanitaria adeguata. Non possiamo semplicemente andarcene. Pensi che io abbia frequentato la facoltà di medicina e i miei diplomi post-laurea per un totale di 14 anni, per pensare solo alla mia vita e non ai miei pazienti? Pensi che sia questo il motivo per cui sono andato a medicina, per pensare solo alla mia vita?”.

I professionisti sanitari a Gaza lavorano incessantemente con turni di 36 ore, con pochissimo cibo a disposizione sia per loro che per i propri pazienti. Spesso questi operatori vivono e dormono all’interno degli ospedali.

E sanno che l’ospedale può essere attaccato e preso d’assalto dall’esercito. In questi casi sanno anche che possono essere detenuti e portati in campi di prigionia dove, come riportato recentemente anche da un dottore israeliano sulla rivista Haaretz, subiscono gravi torture: vengono costretti per 45 giorni a rimanere ammanettati ed inginocchiati, con bende sugli occhi, costretti a dormire sul pavimento e a utilizzare pannolini.

Il personale sanitario è ben cosciente dei rischi che corre, dato che purtroppo questa è stata la dura sorte di ogni struttura e sanitaria e di tanti professionisti nella str1scia di Gaza. Eppure, molti decidono di rimanere a curare i propri pazienti con i pochi mezzi disponibili.

Quando l’ingiustizia diventa legge, la Resistenza diventa dovere.” Bertold Brecht

Queste scelte, questi gesti non possono che rappresentare per noi un esempio luminoso dello spirito della nostra professione. I nostri colleghi a Gaza rischiano la propria incolumità per difendere il diritto alla vita ed alla salute della propria comunità.

Attaccare la sanità pubblica in ogni suo aspetto (strutture, approvvigionamenti, personale) in modo così violento, deliberato e pervasivo è un crimine che ha come conseguenza potenziale la morte di un’intera popolazione. I professionisti del sistema sanitario a G4z4 si stanno frapponendo a questo disegno genocidiario con la propria professionalità e il proprio senso di giustizia contro l’oppressione, che li accomuna a tutto il Popolo e alla Resistenza palestinese.

Non possiamo restare indifferenti di fronte a ciò che stanno subendo i nostri colleghi, i pazienti, i feriti, i malati cronici cui sono ormai negate le cure a causa di una rete ospedaliera ridotta letteralmente in macerie. Non possiamo nemmeno ignorare che l’attuale piano di pulizia etnica ha radici profonde nella ideologia politica del sionismo, ideologia fondante dello stato di Israele, definita nel 1975 dalle Nazioni Unite “una forma di razzismo e di discriminazione razziale” che porta alla disumanizzazione e alla demonizzazione della popolazione palestinese. Ciò che sta succedendo oggi a G4za non è che la punta dell’iceberg di una storia di 75 anni di occupazione, apartheid e oppressione coloniale.

Vorremo scendere in piazza il 25 aprile portando in alto i nostri colleghi come moderni partigiani: per assicurarsi che il diritto alla salute non venga completamente abolito a Gaza si battono con coraggio di fronte a un esercito che li vuole annientare sia fisicamente che psicologicamente.

Vi invitiamo come operatori sanitari a scendere in piazza con il camice e unirvi al nostro spezzone: incontro sulle scalinate di Santo Spirito alle ore 16.50. Come operatori sanitari in Italia non possiamo rimanere indifferenti mentre il nostro sistema sanitario viene smantellato a favore della spesa militare.

25 APRILE IN PIAZZA S.SPIRITO Per sostenere le lotte e chi pratica resistenza a Firenze come altrove. Autodeterminazione e solidarietà nella piazza degli/delle antifascist* fiorentin*!

Sanitari per Gaza Firenze

sanitaripergazafirenze@gmail.com

IG@sanitari.per.gaza


La RSU della Regione Toscana in sostegno della lotta del Collettivo di Fabbrica ex GKN e di Fridays for Future. Per un rapporto sinergico fra lavoro e ambiente

La RSU delle lavoratrici e dei lavoratori della Regione Toscana condivide e sostiene le istanze di lotta del collettivo ex-GKN, attraverso una richiesta inviata il 18 aprile 2024 ai Presidenti di Giunta e Consiglio, affinché la Regione possa finalmente dotarsi di una legge che permetta la Costituzione e il funzionamento dei Consorzi di sviluppo industriale.

 La lettera inviata a Giani e Mazzeo è la seguente:

 Il collettivo di Fabbrica ex-GKN propone che la Regione Toscana si doti di una legge relativa a ‘Costituzione e funzionamento dei Consorzi di sviluppo industriale finalizzati alla realizzazione di un polo di eccellenza nel settore della mobilità leggera e delle rinnovabili. Strumenti per il sostegno al recupero cooperativistico d’impresa e del tessuto economico e sociale del territori’.

 Questa legge favorirà l’intervento pubblico a favore della re-industrializzazione della ex GKN e garantirà il sostegno alle iniziative delle lavoratrici e dei lavoratori.
La RSU delle lavoratrici e dei lavoratori
 della Regione Toscana sostiene e condivide la proposta di legge elaborata dal Collettivo di Fabbrica GKN, come sostiene la loro ammirabile lotta iniziata il 9 luglio 2021, perché ritiene di grande importanza e rilievo il fatto che in tutte le proposte del Collettivo la salvaguardia dell’ambiente e del lavoro coesistano in modo sinergico invece di essere contrapposte come avviene ancora troppo spesso. Finalmente la produzione è chiamata a preservare il patrimonio territoriale come bene comune, come prescritto nella Lr 65/2014 Norme sul Governo del territorio. Non è casuale che in questa proposta le lavoratrici e i lavoratori avranno un ruolo centrale”.

La lettera è stata consegnata dalla RSU al Collettivo di Fabbrica ex-GKN durante il presidio “Riprendiamoci il futuro sciopero globale per il clima” del 19 aprile 2024 di fronte al Consiglio Regionale, via Cavour 2 Firenze, indetto da Fridays for Future e Collettivo di Fabbrica ex GKN.

 Perché è necessario un immediato intervento pubblico per la transizione ecologica: la produzione della base materiale necessaria alla nostra vita deve essere strettamente condizionata al rispetto e alla riproduzione della natura non umana e deve finalmente essere destinata a rispondere alla domanda sociale di valore d’uso e non a produrre merci per chi può pagare finalizzate al solo valore di scambio.

 Salvaguardia del lavoro e dell’ambiente devono essere strettamente connessi ed in armonia: la convergenza fra movimento operaio e movimento climatico rivendica “benessere reale, psicologico, climatico, salariale, posti di lavoro”. Ci vogliono “climate jobs”, cioè lavori creati dalla transizione ecologica radicale e reale.

 La Regione Toscana è dotata di una innovativa legge sul governo del territorio e di un piano paesaggistico fondato sulla convinzione della necessità di modificare radicalmente una economia che ha prodotto distruzione della natura non umana e alienazione della natura umana. Il piano chiede di sostenere una economia differente, attenta al territorio nei suoi valori materiali (strutture fisiche di paesaggio e ambiente, territorio come prodotto del rapporto fra insediamenti umani e ambiente) e immateriali (memorie, capacità, saper fare, solidarietà, cooperazione), e quindi in grado di riprodurre i valori ambientali, paesaggistici del territorio, che comprendono i valori immateriali di cui sono portatori i soggetti sociali che sostengono la nuova economia. Chi meglio del Collettivo di Fabbrica con le sue proposte di produzione di mobilità leggera e delle rinnovabili, incarna questa cittadinanza attiva che il piano chiede di sostenere e di promuovere. Chi meglio dei Fridays for Future la incarna.

 E’ urgente un investimento pubblico da parte della Regione e dello stato che sostenga queste iniziative che sono davvero rivoluzionarie perché vertono su un tema cruciale della urgente trasformazione che è necessaria: produrre la base materiale della nostra società creando una nuova sinergia e non più un conflitto, con la natura non umana. Parliamo di natura non umana perché anche quella umana è natura a tutti gli effetti.

 L’area della ex GKN deve essere il luogo della produzione in sinergia e sostegno della natura, umana e non umana.

La storia ci insegna che una delle iniziative più appetitose per le imprese che si trovano in un’area in fase di valorizzazione immobiliare, come è tutta l’area metropolitana fiorentina, è dismettere per poi intervenire con una speculazione immobiliare. E’ quello che è successo per la FIAT di Novoli che è stata liberata dalla fabbrica FIAT che è stata rilocalizzata a Campi Bisenzio in un’area inedificata e allora ben meno pregiata dal punto di vista dei valori immobiliari, cioè proprio in quella oggi ex GKN. Il gioco della speculazione deve essere impedito anche attraverso il sostegno pubblico alle proposte del Collettivo di Fabbrica ex GKN. Il momento è adesso.

 


Collettiva La Magni*fica: vivere, occupare, immaginare lo spazio pubblico

Per il mio lavoro di tesi sullo spazio pubblico a Firenze, sulle realtà informali che lo attraversano, sulle pratiche di resistenza e sulla creazione di immaginari “altri”, ho incontrato la collettiva “La Magni*fica”. Chiamerò X la persona che ho intervistato. Il nostro discorso si è addentrato nelle modalità di appropriazione dello spazio pubblico (non solo fisico, ma anche sociale, relazionale e politico) da parte della collettiva queer e transfemminista, nata quattro anni fa.

DT – Come presenteresti “la Magni*fica” a chi non la conosce?

X – La collettiva Magni*fica nasce a Firenze nel 2020, a seguito di un’occupazione della palazzina di via Lorenzo il Magnifico che abbiamo chiamato Casa delle Donne di Firenze, servizio inesistente a Firenze. Abbiamo sentito l’esigenza di uno spazio queer, transfemminista, uno spazio liberato da maschi etero-cis, che si facesse carico delle esigenze di persone che avevano vissuto episodi di violenza. Dopo appena un paio di giorni c’è stato lo sgombero; abbiamo portato avanti altri due tentativi di occupazione che non sono andati a buon fine. Comunque, la collettiva ha tenuto, e da quattro anni si occupa di molteplici argomenti. Da un lato continua a costruire una realtà comunitaria per persone che – fuori dalla collettiva – vivono la marginalizzazione; iniziative anche culturali, anche rilassate come un cineforum, possono essere momenti di aggregazione, appunto. Comunque è rimasto il lato, diciamo, più esplicitamente politico. Credo che, anche nel creare uno spazio comunitario in cui le persone si sentono al sicuro, ci sia molta politica. Ci sono stati presìdi e manifestazioni, insomma, si è dato il via appunto a “Favolosk3” che poi è l’Assemblea che sta gestendo il Pride autogestito a Firenze.

La Magni*fica ha cercato e cerca di essere uno spazio per persone che sopravvivono alla violenza machista, di genere o di matrice omofoba. Questo è un altro aspetto molto importante. E da poco, insieme a “Favolosk3”, abbiamo aperto una cassa di sorellanza in cui versiamo una parte di quello che riusciamo a ricavare. La cassa di sorellanza aiuta nelle spese che possono riguardare le conseguenze di episodi di violenza personale: come le visite da professioniste della salute mentale, o un appoggio medico, o un percorso di transizione medicalmente assistito, o farmaci per la terapia ormonale, come il Sandrena, aumentato di costo del 250%, o farmaci salvavita.

DT – Quali principi portate avanti nell’azione della Magni*fica? Verso quali obiettivi?

X – Diciamo che la Magnifica è una collettiva anarchica, di principi quindi antistatali, antimilitaristi, antirazzisti, antispecisti, insomma c’è un po’ di tutto, ecco. Penso che l’obiettivo principale di Magni*fica sia aprire questa benedetta Casa delle donne e delle persone frocie a Firenze. Dal punto di vista istituzionale, qualcosa si sta muovendo: c’è comunque l’intenzione di fare una casa delle donne a Firenze. Le Zorras hanno seguito più da vicino questa situazione. Secondo noi è un progetto che non rispecchia le esigenze reali delle persone che dovrebbero accedere a questi servizi. È vero che, a quanto sembra, verrà fatta in modo che una serie di associazioni possano avere fondi per i loro progetti. Ma ci chiediamo quanto sarà efficiente nella realtà. Diciamo, quindi, che l’obiettivo forse principale della Magni*fica è proprio quello di avere uno spazio separato, dove le persone si possono sentire al sicuro, uno spazio liberato, lo ho già detto, dai maschi etero-cis.

DT – E avete già in mente quale possa essere il luogo fisico per dare attuazione a tutto ciò?

X – No, purtroppo no.

DT – All’interno della Magni*fica ci sono ruoli ben precisi, c’è una gerarchia?

X – No, essendo una collettiva anarchica non ci sono ruoli, cioè ognuno fa quello che si sente di fare, quello che ha voglia di fare. Non crediamo nelle gerarchie. Cerchiamo di scardinare in ogni modo i rapporti di potere all’interno del collettivo.

DT – Secondo te, in che direzione si sta muovendo Firenze su temi di inclusività e accessibilità. Se si sta muovendo, insomma.

X – Distinguerei due livelli: la politica istituzionale e la politica dal basso. A parte le elezioni che ci saranno a giugno, sulle quali non so come esprimermi in termini, appunto, di destra/sinistra, sul livello istituzionale notiamo un progressivo inasprimento delle misure repressive nei confronti di realtà di aggregazione, che provengono dal basso. È preoccupante perché comunque si tratta di realtà che riescono a provvedere a una serie di bisogni che le situazioni più istituzionalizzate non riescono a prendere in considerazione. Un’altra cosa che abbiamo notato è che, bene o male, vince sempre il PD, ma comunque nei fatti il nostro rapporto con la città “rossa” si risolve sempre nella repressione. La prima occupazione di Magni*fica fu sgomberata il giorno in cui venne eletto Giani, presidente regionale. Diciamo che in quell’occasione non abbiamo riscontrato un grande interesse nei confronti della costruzione di una Casa delle donne o dei temi dell’inclusività.

Quello che mi preoccupa, sul livello istituzionale, sono il pink-washing e il rainbow-washing. Si pensi al fatto che al Toscana Pride del luglio 2023, organizzato anche ad Arcigay, sono stati invitati vari rappresentanti politici. È preoccupante, perché poi sono le stesse persone che sgomberano, le stesse che stanno a capo dell’apparato securitario di Firenze: si pensi a Nardella che inaugura la Smart control room. La presenza al Toscana pride della politica istituzionale confligge con la partecipazione di persone marginalizzate, magari prive di documenti, che insomma vivono quotidianamente una realtà di abuso.

Dall’altro lato, quello della politica del basso, secondo me Firenze mostra dei segnali positivi, per ora. L’anno scorso, ad esempio, è nata una collettiva che si occupa della gestione della Pride, e di portare una Pride non istituzionalizzata anche nelle città italiane, diciamo, meno centrali. Ma i passi avanti che tentiamo di fare, in termini di inclusività, purtroppo vengono repressi, in un modo o in un altro.

DT – Quali pensi che siano i lati positivi e quelli negativi della città?

X – I lati negativi, purtroppo, mi vengono più spontanei. Uno dei problemi più grossi di Firenze è la gentrificazione, gli sfratti all’ordine del giorno, le persone allontanate dalle zone centrali. E sostanzialmente la mistificazione massiccia che vediamo, sostanzialmente voluta da Nardella, dalle istituzioni. Secondo me, anche in termini di inclusività, la situazione è problematica e rende invivibile la città, la sua parte più bella, quella che dovrebbe essere la più accessibile. Un punto di forza è, invece, la presenza di molte realtà autogestite sul territorio e il tentativo di comunicare tra vari collettivi, tra varie situazioni occupate. E anche la presenza di collettivi studenteschi, ad esempio il Collettivo Mantide di studentesse liceali. Insomma, dal punto di vista delle politiche dal basso Firenze è una città molto viva, o che comunque cerca di essere molto viva.

DT – Con quali realtà fate rete?

X – Facciamo rete con altri collettivi transfemministi e con spazi occupati della città. Recentemente è nata un’altra collettiva transfemminista, in Valdarno, si chiama Pinkabbomba: cerchiamo di avere rapporti con loro perché crediamo che nelle zone esterne alla città, dove ci sono meno centri di ascolto e forse meno possibilità di fare rete tra persone, sia molto importante che arrivino messaggi di transfemminismo.

DT – Che rapporti avete con “NonUnaDiMeno”, importante realtà transfemminista in città? E con altre realtà attive a Firenze?

X – Con “NonUnaDiMeno”, anche dopo la piazza dell’8 marzo, rimaniamo aperti sostanzialmente a un confronto. Conosciamo molte persone valide in NUDM Firenze, quindi anche se il rapporto è un po’ travagliato, esiste. Su Firenze, mi viene da pensare ai centri sociali, all’occupazione di via del Leone, all’occupazione di via Incontri. Ci piace l’Emerson. Ora mi viene da pensare a queste. Poi anche ad altre realtà, magari diverse, come Love My Way.

DT – Per quanto riguarda il modo in cui vivi, o vivete gli spazi, come persone queer, notate delle differenze tra determinate parti della città? Lo spazio urbano vi sembra omogeneo o diversificato? Come lo vivete?

X – Parlo della mia esperienza, in questo caso. Devo dire che, da quando ho conosciuto la Magni*fica, il mio senso di sicurezza è molto aumentato. Prima ho vissuto varie situazioni in cui, in varie zone della città, non ci siamo sentiti al sicuro. Vivere la città in modo comunitario, uscire con le mie sorelle, con le mie compagne, mi dà sicuramente molta più sicurezza in molte zone di Firenze. Penso anche alla stazione di Santa Maria Novella che, soprattutto in alcuni orari, non è molto facile, diciamo, da navigare, e soprattutto per una persona femminilizzata.

DT – E oltre alla stazione?

X – Altra zona difficile è quella delle Cascine. Il problema è che al posto di mettere in atto programmi di aiuto si preferisce insistere sul securitarismo. Le persone che si trovano in queste aree sono, magari, migranti con un passato di tratta che hanno vissuto violenze inimmaginabili e non hanno nessun tipo di accoglienza, nessun tipo di appoggio, né aiuto, e magari costrette a esercitare attività che li costringono in situazioni veramente pericolose, difficili. E così, al posto di programmi di aiuto, si preferisce mettere solo più polizia. Questo vale per le Cascine vale per la stazione dove ormai c’è una camionetta dei carabinieri praticamente fissa. Quando vedo la polizia non mi sento rassicurato, anzi aggrava il pericolo per persone come posso essere io: la vivo più come un’ulteriore presenza di maschi armati in un posto dove già mi sento in difficoltà.

DT – C’è una ragione particolare che vi ha portato a scegliere la sede attuale della Magnifica? Oppure semplicemente avete pensato “abbiamo trovato questo spazio qui, per ora ci va bene e teniamo questo”?

X – Noi purtroppo non abbiamo una nostra sede: manca ancora una Casa delle donne per Firenze. In questo momento ci appoggiamo a vari spazi e cerchiamo di essere presenti in vari spazi, per portare un po’ di comunità, un senso di appartenenza in varie situazioni a Firenze. Ora stiamo facendo l’assemblea di Magni*fica in via degli Incontri. Poi dobbiamo vedere dove ci porterà il vento.

 

Firenze, 21 marzo 2024

 

 


TAV alla sbarra. Guardare al passato per capire il futuro

Il 9 aprile 2024 si è tenuta al Tribunale di Firenze l’udienza, con la lunga arringa del Pubblico Ministero Giulio Monferini, del processo nato dalle due inchieste che hanno interessato il progetto di sottoattraversamento TAV di Firenze. È stato ricostruito come siano state violate le norme ambientali nella realizzazione dell’opera, come si siano avuti fenomeni di corruzione, truffa, infiltrazioni mafiose, insomma il racconto “un’opera che non fa onore all’Italia” come ebbe a dire l’allora presidente dell’ANAC Raffaele Cantone.

Oggi tutto pare rimesso a pulito con l’affidamento del proseguimento dei lavori del Passante TAV al nuovo general contractor Pizzarotti Saipem attraverso la controllata Consorzio Florentia. Tanta è stata la pubblicità per far dimenticare il verminaio che è prosperato dai cantieri cittadini fino alla politica locale e nazionale. La parte riguardante quest’ultimo aspetto è stata trasferita a Roma e forse era la più importante per aver fatto emergere la rete capillare di controllo, di favori reciproci e di favoreggiamento dei costruttori; la famosa “squadra” dell’allora Presidente di Italferr Mariarita Lorenzetti (nel frattempo prosciolta dalle accuse) che addomesticava i pareri tecnici, minacciava o blandiva i funzionari, arrivava a modificare la legislazione ambientale. Una “squadra” che oggi pare dissolta, ma tutti i presupposti che l’hanno fatta nascere non sono solo sopravvissuti, ma cresciuti; probabilmente altre “squadre”, magari più prudenti, sono all’opera, ma dubitiamo che siano svanite; le cronache dal Terzo Valico, dalla linea Torino Lione, dallo Stretto di Messina ci dicono di come queste megaopere alimentino gli appetiti del sistema che vive di grandi opere, soprattutto quelle inutili.

A Firenze oggi tutto luccica, il Presidente della Regione Eugenio Giani finanzia spot pubblicitari in cui si vedono treni che corrono, gallerie che paiono salotti; si inneggia al futuro in cui Firenze sarà condotta con questi nuovi tunnel, si profetizza su quanto sia strategica quest’opera, si vaticina di come questi due tunnel “libereranno i binari per i treni regionali”.

Intanto nessuno vuol ricordare che il sistema che nascerebbe, se quest’opera arrivasse alla fine, non risolverebbe i più gravi problemi di traffico (che sono a sud di Firenze), ma sarebbe addirittura un grave danno per Firenze e la Toscana con due stazioni scollegate e la creazione di rotture di carico che probabilmente sarebbero fatali per un uso razionale del trasporto pubblico, con la necessità di realizzare un people mover che ha già dato prova di costi esagerati e inefficienza a Pisa e a Bologna.

Soprattutto nessuno vuol ricordare una anomalia evidentissima: quello dell’aumento vertiginoso dei costi. Da un preventivo iniziale di 1,2 miliardi si è passati progressivamente a 1,8 miliardi per arrivare, con l’ultimo appalto, a 2,735 miliardi; quando gli esperti del Comitato dicevano che i costi avrebbero superato i 3 miliardi venivano accusati di terrorismo finanziario, oggi l’ineffabile Presidente Giani ringrazia le Ferrovie per aver più che raddoppiato l’importo dell’appalto per renderlo ancora più appetibile al costruttore.

Che tali anomalie non suscitino qualche dubbio, ma si parli solo con spot pubblicitari, non è un buon viatico per il futuro di Firenze, quel futuro cui, sempre Giani, ci vuol condurre con lo scavo dei tunnel.

In realtà un pezzo di futuro è già esistente, visibile e odorabile, ma non viene mai ricordato nelle odi ai tunnel: lo “scavalco” a Castello, il “lotto 1” del Passante di Firenze, quel ponte ferroviario già ultimato, già in esercizio, ma non ancora collaudato perché con gravissimi difetti di progettazione ed esecuzione, costantemente allagato dalle infiltrazioni della falda che riducono la durabilità e porteranno presto a dovervi rimettere la mani con ulteriori costi sempre a carico della collettività; dalle informazioni riportate da Idra pare che le acque siano addirittura contaminate da batteri fecali.

Il futuro è già qui, ma meglio non vederlo o sentirlo, puzza di fogna.

 

Le foto sono della galleria inferiore dello “scavalco”


La letteratura Working Class nell’America degli anni ’30

Quando si pensa agli anni Trenta del Novecento, un decennio tra i più difficili della storia degli Stati Uniti sul piano economico e sociale, si tende a collegare la “grande depressione” che lo ha caratterizzato al crollo di Wall Street del ‘29 e alla crisi finanziaria che ne seguì.

Certamente il crollo della borsa, con il tristemente noto black tuesday – tutto precipitò martedì 29 ottobre – ebbe un effetto devastante sull’economia, e non solo statunitense. Perché la globalizzazione ha anche questi effetti: come le pedine di un domino, le crisi si ripercuotono a catena fino a far cadere l’intera filiera.

Si chiudeva, in quel fine ottobre, un boom speculativo che aveva portato centinaia di migliaia di statunitensi a investire pesantemente nel mercato azionario. Quando Wall Street in quel giorno chiuse con una perdita di circa10 miliardi di dollari, fu un colpo durissimo non solo per la grande finanza, ma anche per la piccola e media borghesia che aveva basato l’economia familiare su prestiti e ipoteche con le banche e che si ritrovò a non avere più niente, anticipando su larga scala e con le dovute varianti quello che abbiamo visto accadere nel 2008.

Ma questa è stata solo una delle cause del disastro, la più nota. Altri comparti dell’economia entrarono in crisi, tanto da poter dire che in questi anni il sistema capitalista stava mostrando tutte le sue debolezze strutturali, causate dalla rincorsa inarrestabile e obbligata al profitto e dallo sfruttamento intensivo di qualunque tipo di risorse.

Infatti anche il settore primario, lagricoltura e l’allevamento, pilastri dell’economia statunitense, aveva fatto il “passo più lungo della gamba”; negli anni precedenti si era fatto ricorso ad uno sfruttamento scriteriato del suolo non alternando le varie colture e per di più estendendo a dismisura le aree destinate agli allevamenti intensivi di bestiame.

Il risultato fu che in vastissime aree centrali non c’era più erba, ma solo grano. La scomparsa dell‘erba, fondamentale per l’idratazione della terra, causò l’impoverimento nel suolo e, complice anche un periodo di siccità, fece sì che in immense distese di stati come Kansas, Oklahoma, Colorado, Texas e New Mexico, quella che prima era terra fertile in poco tempo divenne polvere. Una fascia enorme di territorio chiamata non a caso Dust Bowl, la “conca di polvere”.

Quando poi sopraggiunsero le stagioni dei temporali, tali ingenti ammassi di polvere vennero trasportati dal forte vento, generando colossali nubi nere (tempeste passate alla storia come le black blizzard) che nel giro di una notte erano capaci di sommergere intere cittadine, dalle grandi pianure centrali verso est, fino a Chicago e all’oceano Atlantico.

Nel periodo di tempo tra il 1932 e il 1939 furono più di 300 le grandi tempeste di sabbia che misero in ginocchio intere popolazioni. Così milioni di braccianti e agricoltori si trovarono senza nulla da coltivare o allevare, e tanti di questi disperati finirono per lasciare la casa e spostarsi in altre città o addirittura cambiare Stato. Molti dei “reduci della Dust Bowl” partirono per la California, dove le prospettive di vita pareva che fossero migliori, e dove il sogno di poter ancora coltivare un pezzo di terra teneva in vita la speranza di famiglie che spesso non arrivavano a destinazione.

La situazione era disperata: un terzo degli abitanti degli USA era disoccupato. Un terzo aveva lavori saltuari. C’era una fame endemica, decine di migliaia di senza casa migravano in cerca di lavoro, uno qualsiasi pur di non morire di fame. Lo sfruttamento del lavoro era estremo, con una offerta di mano d’opera praticamente inesauribile.

Fu un decennio di miseria e sopraffazione, ma anche di rabbia e di reazione, che vide montare un’ imponente ondata di attivismo politico e sociale da parte della Working Class.

Il capitalismo sembrava vacillare, il nazifascismo era in ascesa in Europa, e i principi del comunismo soppiantarono i più moderati ideali socialisti e fecero presa sulle classi più povere. Scioperi, proteste, manifestazioni, azioni di massa anche violente infiammavano città e villaggi. Un clima che emerge bene nel singolare e interessante Dynamite, storie di violenza di classe in America, dell’immigrato sloveno Louis Adamic, un testo prezioso curato e tradotto per la prima volta in edizione integrale da Andrea Olivieri per Alegre.

E’ in questo contesto che emergono inedite forme di letteratura working class, con molteplici categorie di lavoratori e lavoratrici che esprimono in un linguaggio spesso colloquiale la loro condizione, ma soprattutto il bisogno e la voglia di riscatto.

Chi scriveva era diverso per razza, genere, cultura e religione: mezzadri neri, contadini, migranti del Dust Bowl, lavoratori nell’industria automobilistica di Detroit e del legname per costruzioni, donne dell’industria conserviera e raccoglitrici nei campi, minatori. Voci non solo del proletariato industriale di cui ancora si sa poco, ma numerosissime, come testimonia l’Antologia American Working Class Literature, pubblicata nel 2007 dalla Oxford Univ Press, che propone brani di più di 150 autori e autrici.

La loro scrittura rappresentava l’intera gamma di generi letterari: narrativa, poesia, teatro, memorie, reportage, oratori, manifesti. Lettere, storia orale, testi di canzoni. E altre forme di espressione ibride, difficilmente classificabili.

Alcuni sono poi diventati noti, pubblicati e tradotti in altre lingue, come Upton Sinclair, Dos Passos, Steinbeck, Muriel Rukeyser, Tillie Olsen, ma molti e molte restano del tutto sconosciuti. Erano scrittori e scrittrici che facevano emergere il costo umano e sociale della great depression, criticavano il sistema che l’aveva prodotta, e in modo anche molto esplicito invocavano un cambio radicale.

Molti di loro vennero pubblicati nella rivista mensile New Masses, uscita a New York tra il 1929 e il 1934 e sostenuta dal partito comunista, con l’obbiettivo di creare nuovi lettori e anche nuovi scrittori. Nascono riviste come Blast, Dynamo, Challenge, Anvil: Stories for Workers

Sono testi in cui la classe si intrecciava alla razza e al genere, come scrive Paula Rabinowitz in Women’s Revolutionary Fiction in Depression America, “la narrativa rivoluzionaria femminile degli anni ’30 racconta la classe come un costrutto fondamentalmente di genere e il genere come un costrutto fondamentalmente di classe”.

Tra i molti esempi di questa letteratura proletaria citiamo le “Voci dagli Appalacchi”, le cui poesie e canzoni erano scritte prevalentemente da donne, mogli e madri di minatori che morivano o rimanevano menomati in un altissimo numero di incidenti. Tra queste Aunt Molly Jackson, ostetrica, organizzatrice sindacale, figlia, moglie e madre di minatori di carbone della Contea di Harlan nel Kentucky, dove vi fu uno sciopero represso duramente.

Sarah Ogan Gunning, del Kentucky, anche lei figlia e moglie di minatori, il cui figlio muore di fame e i cui canti parlano di miseria, morte, sfruttamento. Florence Reece che incita i minatori a lottare per paghe migliori e orario ridotto, e su un pezzo di carta strappato da un calendario scrive “Which side are you on”: “Svegliatevi, svegliatevi, lavoratori. Cos’è che vi fa dormire in modo così profondo?..Stanno venendo per dar fuoco alle vostre case, arrivano con fucili e dinamite per cercare di uccidervi mentre dormite, voi che avete scioperato a Harlan”.

Anche il tema razziale si intreccia a quello di classe. Richard Wright, afroamericano nato in una piantagione in Missisipi, corrispondente da Harlem per il partito comunista, scrive poesie, racconti come Uncle Tom’s Children, che raffigurano la vita dei neri e l’autobiografia Black Boy.

Sono voci di provenienze diverse: Pietro Di Donato, nato da immigrati italiani approdati nel New Jersey, a 12 anni cominciò a lavorare nell’edilizia, dopo che il padre era stato ucciso in un incidente sul o meglio dal Lavoro. Nel racconto Geremio fa rivivere in modo molto efficace la scena dell’incidente della squadra di operai, tutti italiani, travolti dal crollo dell’impalcatura su cui lavoravano (ci ricorda qualcosa accaduto proprio qui a Firenze il 16 febbraio nel cantiere Esselunga di via Mariti). Il lavoro stesso diventa un mostro rapace che trae profitto da tutto, anche dalla mancanza di sicurezza di impalacature malfatte.

In Blood on the Forge William Attaway fa rivivere quel che accadde durante il Great Steel Strike, il grande sciopero dei lavoratori dell’acciaio del ‘19. Una restrospettiva scritta alla fine degli anni ‘30 in cui emergono gli eventi principale della storia dei lavoratori dell’acciaio di quegli anni, visti dalla prospettiva di diverse esperienze e provenienze, gli immigrati dall’Europa dell’est e gli afroamericani degli Stati del sud che venivano trasportati a Pittsburgh in camion per sostituire gli operai in sciopero.

Meridel Le Sueur, giornalista, attivista, comunista animatrice di scioperi, amica della radicale Emma Goldman, scrive per riviste come The Workers e New Masses.

Jack Conroy, originario del nord del Missouri, in quell’area denominata “Monkey Nest Coal Camp”, in una comunità di minatori di carbone descritta magistralmente nel romanzo autobiografico The Disinherited (1933). Si unisce ai Rebel Poets, un gruppo di scrittori in collegamento con The Industrial Workers of the World, diventa editor della rivista The Anvil dal 1933 al 1936, e in quel ruolo invita a pubblicare le loro opere scrittori working class tra cui Sanora Babb, Joseph Kalar, and Richard Wright.

E poi ancora Joseph Kalar, del Minnesota, figlio di immigrati sloveni e lavoratore delle cartiere che scelse di pubblicare le sue poesie solo su riviste operaie. Kenneth Patchen, originario della zona industriale Mahoning River Valley in Ohio, che nel 1936 con Before the Brave fu nominato “poeta proletario dell’anno” dalla casa editrice Random House. Tom Kromer che in Waiting for Nothing racconta la vita da disoccupato negli anni della grande depressione. Sanora Babb il cui romanzo, Whose Names Are Unknown, è ambientato durante il disatro delle tempeste di sabbia nelle grandi pianure che costrinse gli agricoltori a migrare verso la California.

Decine e decine di voci ignorate dall’industria editoriale del tempo -e non solo – la cui scrittura era atto politico, la cui sofferenza diventava volontà di riscossa e creazione di un immaginario in cui la Working Class si poteva riconoscere come parte viva, attiva di una società da cambiare. E che coglieva l’invito di Mike Gold, editor della rivista New Masses, che nell’editoriale “Go Left, Young Writers! scriveva: Non siate passivi. Scrivete. La vostra vita in miniera, stabilimento, fattoria è di interesse assoluto nella storia del mondo. Parlatecene con lo stesso linguaggio che usate nello scrivere una lettera. Potrebbe essere letteratura. Spesso lo è. Scrivete. Lottate.

Un invito valido anche oggi che è risuonato nelle tante voci che hanno animato i tre giorni del Festival della letteratura Working Class alla GKN di Campi Bisenzio. Perché. Come si è detto “La classe può ritornare al centro della narrazione. Può prendere parola, e anche la penna.”

*L’articolo riprende l’intervento introduttivo alla sessione “La letteratura proletaria degli anni ’30 in America” al Festival della letteratura Working Class tenutosi dal 5 al 7 aprile alla GKN di Campi Bisenzio.


L’orizzonte della notte di Carofiglio

Era un po’ che aspettavamo Gianrico Carofiglio con il suo avvocato Guido Guerrieri, e finalmente ci siamo. Con lui ritroviamo anche luoghi, e persone, legati ai romanzi precedenti: come ad esempio l’ Osteria del Caffellatte, libreria aperta dalle 22 alle 6; o la personificazione del sacco da pugilato, che diviene l’amico immaginario e che porta il pugilato ad essere preferito alla psichiatria; e non c’è solo il pugilato, perché quando si tratta di liberare la testa dai pensieri Guerrieri ricorre alla ginnastica, alle camminate di buon passo, alla bicicletta ed alle lunghe nuotate d’estate. Troviamo anche l’investigatore Tancredi che si fa portatore dello strumento più potente a propria disposizione che è il silenzio, strumento necessario per mettere in campo, nell’investigazione, l’arte dell’osservare lentamente; e, a questo proposito, va aggiunto il barbiere, che è anche filosofo e psicologo.

Ma sono soprattutto i modi di agire di Guerrieri che attraggono il lettore, il suo non abituarsi ad accettare il fatto di doversi rapportare con chi dovrà vivere in prigione, non a caso non festeggerà mai la condanna di qualcuno, con il ” fine pena mai “; i suoi scontri caratteriali con il pm, anche se in questo caso si rivela essere amico, o il capo della mobile di turno; a lui non piace che i sottoposti agli interrogatori siano fatti innervosire senza motivo alcuno, se non quello, recondito, di ottenere informazioni utili conseguenti ad un crollo psicologico.

Un avvocato che si pone mille domande rispetto al proprio modo di affrontare il suo lavoro come quando, nel caso di queste 277 pagine, si pone il dilemma tra legittima difesa o omicidio premeditato, e questo non è niente rispetto al dubbio se sia meglio sapere o non sapere; che lascia che le cose accadano attraverso una sorta di anestesia delle emozioni, consapevole di doversi rapportare al bisogno, sempre più diffuso, di sicurezza tra i cittadini, e si confronta con la propria, presunta, violazione delle regole in modo tale da crearsi l’opportunità di cessare un’attività che ormai fa fatica a proseguire con tranquillità.

Guerrieri, incredibile ma vero, si trova ad avere a che fare con i sospetti su una donna afflitta da presunta amnesia dissociativa. In L’orizzonte della notte siamo di fronte ad un vero e proprio manuale di giurisprudenza, dove, tanto per cambiare, è il rito abbreviato ad essere il più approfondito. Ma anche la sequela di reati sono materia con la quale Guerrieri deve rapportarsi: dalle lesioni personali ai reati contro il patrimonio; dall’appropriazione indebita alla truffa di finti incidenti per incassare l’assicurazione. Sempre, instillare il ragionevole dubbio risulta l’arma migliore a disposizione della difesa, arma che Guerrieri è bravissimo ad usare. Un armamentario giudiziario, che ha nei processi in corte d’assise il luogo deputato per essere affrontato, si dispiega in processi ai quali, ci fa notare con ironia Carofiglio, c’è una presenza abituale: quella dei pensionati che li preferiscono alle partite a carte o a guardare i lavori in corso.

Gianrico Carofiglio, L’orizzonte della notte, Einaudi, Torino 2024, pp.288, euro 18


A proposito dei due camini dell’inceneritore di San Donnino

“L’abbattimento dei due camini del vecchio inceneritore di San Donnino ha un  significato fortemente simbolico ed assai controverso. Di  fatto esso chiude al passato (della dissipazione) e  apre al futuro ( della conservazione) ma ciò non  basta a comprendere le ragioni della  scelta che lo  toglie dallo spazio pubblico. E’ di certo l’eliminazione della  testimonianza fisica di un  conflitto tra la periferia e la città  che portò alla sua chiusura dopo tredici anni dalla entrata in funzione, lasciando un territorio inquinato per  più di un lustro, centinaia di migliaia di tonnellate di scorie tossiche e  gravi implicazione sulla salute degli  abitanti. Di questa testimonianza  Alia  non ha ritenuto di farsi carico. Troppo ingombrante per l’ operato dell’azienda  solo a considerare che essa , in coerente continuità , ha strenuamente difeso fino a ieri, in tutte le sedi – amministrative e giudiziarie-  la realizzazione di un nuovo inceneritore nella Piana. A questo si sono adeguate le istituzioni cittadine.

Da ora  in poi spetterà  alla popolazione della Piana , alle sue rappresentanze associative e,  non in ultimo, anche a quelle  istituzionali,  coltivare in modo più attivo la memoria del grande contributo di partecipazione e di idee  che, di gran lunga, anticipò il cambiamento epocale, interpretato con  molto ritardo e molte riserve, dalle sedi  politiche.

C’è piuttosto da auspicare che l’atteggiamento di separatezza che, anche in questa circostanza, l’azienda  ha tenuto nei confronti delle popolazioni della periferia –  per  nulla coinvolte  nel progetto –  lasci il posto ad un fertile sistema di relazioni con il territorio che la ospiterà nella  nuova missione. Questo potrebbe consentire la  restituzione  alle popolazioni attuali di quanto è stato sottratto a quelle di ieri.

 

 


Whistleblower, quinto appuntamento del laboratorio di mediattivismo

Quinto appuntamento per il Laboratorio di Mediattivismo dedicato a chi si impegna nei movimenti sociali, nei gruppi, nelle associazioni, nei comitati, proposto dal mensile dei senza dimora fiorentini Fuori Binario e perUnaltracittà, editrice della rivista La Città invisibile.

Dopo gli incontri dedicati all’accesso libero dei dati della pubblica amministrazione con il giornalista Marco Renzi e al funzionamento della propaganda israeliana sui media occidentali con la giornalista Francesca Conti giovedì 11 febbraio l’appuntamento, dedicato alla figura del whistleblower, sarà tenuta da Marco Renzi.

Il Laboratorio è dedicato a Julian Assange ed è a partecipazione gratuita, grazie alla disponibilità di chi interviene e della Casa del Popolo di San Niccolò (via di San Niccolò 33r), Al termine degli incontri chi vorrà potrà continuare a ragionare all’aperitivo del circolo.


Stop alla cooperazione con Israele, lettera-appello di 200 docenti, ricercatori e dipendenti dell’Università di Firenze

Gentile Rettrice, gentili colleghe e colleghi, rappresentanti del SA e del CDA,

vi scriviamo, nella vostra qualità di massimi rappresentanti del nostro Ateneo, per chiedervi che la comunità accademica fiorentina prenda una posizione chiara in merito alla partecipazione al bando pubblicato dal MAECI in attuazione dell’accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia e Israele. In una recente lettera-appello, sottoscritta da quasi 2000 accademici italiani, si sottolinea che i progetti finanziabili dal bando possono avere un’applicazione militare (linea 3) oppure sono funzionali alle politiche di oppressione verso i Palestinesi (in particolare la linea 2, dedicata alla gestione delle risorse idriche, da cui le comunità palestinesi sono sistematicamente escluse). Nella lettera si richiede al MAECI la sospensione del bando non solo per ragioni morali, ma anche perché le istituzioni italiane hanno l’obbligo di prevenire e di non essere complici in atti di genocidio secondo la Convenzione ONU del 1948 e, collaborando con le istituzioni israeliane, si potrebbero esporre ad una accusa di complicità alla luce dell’ordinanza cautelare della Corte internazionale di giustizia che ha ritenuto plausibile il rischio di genocidio a Gaza.

Crediamo che questo appello debba essere preso in seria considerazione e che richieda una presa di posizione conseguente, come è accaduto pochi giorni fa all’Università di Torino, dove il Senato Accademico ha approvato una mozione in cui si giudica non opportuna la partecipazione al bando MAECI, visto il protrarsi della situazione di guerra a Gaza e della catastrofe umanitaria che ne consegue. Vi chiediamo pertanto di valutare le forme e i modi per seguire questo importante esempio. Crediamo che, come donne e uomini impegnati nell’educazione, nella scienza e nella cultura, sia nostra responsabilità non abdicare ai fondamentali valori di umanità e solidarietà di fronte ad una strage ripugnante che si sta svolgendo, giorno dopo giorno, proprio sotto i nostri occhi. Siamo fermamente convinti che le generazioni future ci chiederanno conto di quanto ciascuno di noi ha fatto, o non ha fatto, di fronte all’orrore della violenza fratricida di cui siamo oggi testimoni. Per evitare che il mondo precipiti in una spirale di violenza senza fine, in cui sia messa a rischio la stessa sopravvivenza dell’umanità, occorre oggi che ciascuno di noi si impegni per imporre la pace contro la follia della guerra. Per questo è urgente far giungere a Israele e al nostro Governo un segnale forte di dissenso verso la prosecuzione dell’aggressione contro la popolazione palestinese. Abbiamo solo questa flebile speranza per evitare un’escalation che rischia di essere senza ritorno.

Contiamo sulla vostra sensibilità e siamo certi che prenderete in seria considerazione le nostre parole. Allo stesso tempo invitiamo tutti i colleghi dell’Ateneo a sottoscrivere questa lettera e a opporsi all’approvazione di eventuali progetti redatti in risposta al bando MAECI nei propri Dipartimenti.

Con i nostri migliori saluti.

Seguono firme.


Forbes: “Tutti i miliardari under 30 hanno ereditato la loro ricchezza.” Il segreto per diventare ricco? Avere i genitori ricchi.

Il segreto per diventare ricco? Avere i genitori ricchi. Non conta l’impegno o il merito. È quanto emerge dall’ultima ricerca pubblicata da Forbes. Secondo i dati in essa contenuti, per la prima volta in 15 anni tutti i miliardari under30 hanno ereditato i loro ingenti patrimoni.

Secondo Forbes si tratta dei primi segnali di un enorme quanto inevitabile processo di trasferimento della ricchezza: nei prossimi 2 anni soltanto 1.000 persone trasmetteranno più di 5,2 trilioni di dollari ai loro eredi. In un contesto così diseguale, ove l’ascensore sociale è ormai stato manomesso e risulta impossibile invertire la rotta, appellarsi al mito della meritocrazia risulta quanto mai utopistico.

Secondo la società di consulenza Ferilli Associates nei prossimi 20 anni 84.000 miliardi di dollari passeranno di generazione in generazione. Fattore, quest’ultimo, che non investe unicamente il trasferimento della ricchezza di padre in figlio ma anche – e soprattutto – un’ereditarietà della povertà. In parallelo ai dati finora menzionati, infatti, la stagnazione dei salari e il progressivo smantellamento dei diritti della classe lavoratrice rappresentano lo sfondo sul quale avviene un’epocale processo di concentrazione dei capitali nelle mani di pochi e grandi soggetti. 

La domanda, dunque, sorge spontanea: si tratta di un nuovo feudalesimo? 

Tra i giovani miliardari citati da Forbes vi sono l’irlandese Firoz Mistry, 27 anni, e suo fratello Zahan, 25 anni, detentori di circa 4,9 miliardi di dollari derivanti dalle loro partecipazioni in Tata Sons, una società che possiede marchi automobilistici tra cui Jaguar e Land Rover. Firos e Zahan hanno ereditato queste cifre nel 2022 a seguito della morte del padre Cyrus Mistry.

Al secondo posto troviamo la diciannovenne brasiliana Livia Voigt, che gode di un patrimonio che ammonta a 1,1 miliardi di dollari. Ma come ha fatto a guadagnare così tanti soldi? Semplice, non li ha guadagnati. Livia infatti detiene una partecipazione di minoranza nell’azienda specializzata nella produzione di apparecchiature digitali Weg, fondata da suo nonno.

Anche in Italia – ovviamente – vi sono noti esponenti di tale fenomeno. Il diciannovenne Clemente Del Vecchio, ad esempio, a seguito della morte del padre ha riscosso una rilevante quota di partecipazione in Loxottica che lo ha coronato come il più giovane miliardario al mondo. Spoiler: senza aver mai lavorato un giorno.

Anche in una città come Firenze il fenomeno del trasferimento generazionale della ricchezza produce notevoli conseguenze. Nel capoluogo toscano, infatti, le famiglie più ricche del rinascimento risultano essere le più ricche nella Firenze di oggi. Insomma, la ricchezza è sempre nelle mani delle stesse famiglie. Uno studio condotto da Guglielmo Barone e Sauro Micetti, due economisti della Banca d’Italia, prendendo in esame il censimento del 1427, ha evidenziato come chi ha un determinato cognome abbia preservato la propria ricchezza familiare nell’arco di 600 anni. Una tale conservazione mette in luce non solo come la ricchezza sia stata tramandata di generazione in generazione, ma anche come siano rimaste inalterate le medesime disuguaglianze sociali nel corso dei secoli. In poche parole, neanche 25 generazioni hanno determinato un cambiamento in termini di rapporti di potere nella città toscana.

In 600 anni, dunque, non è cambiato nulla.

Coloro che si trovavano ai vertici della gerarchia sociale nel 1427 hanno mantenuto intatta la loro posizione. Il caso fiorentino incarna le tendenze degenerative di un fenomeno che gradualmente si appresta a divenire globale. Trattasi di un sistema feudale che si autoriproduce nel corso dei secoli e che non ammette mutamenti. Lo scenario che emerge è paradossale: come se esistesse un principio che impedisce ai ricchi di scivolare nei gradini più bassi della gerarchia sociale.

La conclusione è semplice: non solo i ricchi sono sempre più ricchi. Ma i ricchi sono sempre gli stessi.

 


Come nasce un personaggio working class

Domenica si è concluso il secondo Festival di Letteratura Working Class, organizzato dal Collettivo di Fabbrica Gkn, Edizioni Alegre, Soms Insorgiamo con la collaborazione di Arci Firenze. La riflessione del personaggio di uno dei romanzi presentati: “La fabbrica dei sogni” di Valentina Baronti, Edizioni Alegre.

Sono nata il 7 aprile del 2024. Sono nata su un palco operaio ricavato sul cassone di un camion. In un piazzale di asfalto davanti a una fabbrica. Sono nata in mezzo a migliaia di persone arrivate da tutta Italia e anche dall’Europa: lì, in quella periferia commerciale, e non più industriale, dove il capitalismo morde e ci entra sotto pelle. Lì, dove si compie il miracolo di pannelli fotovoltaici che fanno mille chilometri per illuminare un presidio sindacale, messo in ginocchio da un atto criminale. Sono nata tra gli applausi e le grida di incitamento. Tra le carezze e le attenzioni di chi accoglie le emozioni e se ne prende cura.  Sono nata nel dolore e circondata da amore.

La mia è stata una gestazione lunghissima. Tre anni mi ci sono voluti per uscire dall’utero e respirare. Tre anni nei quali la mia mamma non aveva il coraggio di lasciarmi andare: o respirava lei o respiravo io. E io allora l’ho lasciata respirare e ho aspettato che arrivasse il momento.

La mia ora è scattata nel pomeriggio dell’ultimo giorno del festival di letteratura working class. Alla fine di tre giorni di riflessioni, risate, entusiasmo, cultura, musica, teatro, mobilitazione, cortei, relazioni. Tre giorni in cui ho sentito il battito del cuore della mamma salire e scendere, il respiro farsi corto. L’ho sentita ridere e piangere, parlare e fingersi calma, arrabbiarsi, preoccuparsi, emozionarsi e sognare. Ancora una volta. Ci sono momenti in cui l’ho sentita davvero tanto stanca. Momenti in cui l’ho accompagnata a rifugiarsi nel centro commerciale lì davanti, come se avesse bisogno di un non luogo, per scacciare per un attimo tutte quelle emozioni e calmare il respiro. Io ero sempre con lei, anche se non lo sapeva. Non l’ho lasciata mai sola. Sapevo che tutto quel dolore erano le doglie del parto, che tutta quella paura arrivava dalla consapevolezza inconscia che era giunta l’ora di tagliare il cordone.

Poi a un certo punto l’ho sentita tremare e abbiamo salito insieme le scalette del camion e quando si è seduta ho sentito l’odore acre dell’adrenalina e il cuore farsi improvvisamente calmo. Così mi sono accoccolata nella sua pancia, per godermi gli ultimi istanti di quel silenzio ovattato. Ero pronta. Sono uscita sotto un meraviglioso sole di aprile, proprio mentre lei stava dicendo: “Oggi, su questo palco, le persone in carne e ossa che hanno ispirato i personaggi di Agata e Lorenzo, muoiono. Vivono invece i due personaggi, che ci rappresentano tutte e tutti noi solidali e tutti loro operai. È questa per me l’essenza dell’io che diventa noi”.

Improvvisamente, su quel piazzale, era calato un silenzio surreale, eppure il vagito che mi ha messo al mondo non l’ha sentito nessuno. Ma la mamma sì. Lei l’ha sentito. Ed era felice. Felice per quei tre giorni di festival, per quei tre anni di lotta, per quelle palle lanciate sempre più lontano dal Collettivo di Fabbrica Gkn, per quella speranza che ogni volta rinasce dalla cenere, per quell’affetto, per la cura che ha ricevuto. Era così felice che non mi ha sentito mentre mi allontanavo da lei e mi mescolavo tra la folla.

Io, nata già adulta, mi sono unita a tutte le altre e sono ancora lì, davanti a quei cancelli, pronta a difenderla questa fabbrica dei sogni che mi ha messa al mondo.

Agata


Una nuova strada di scorrimento attraverso il parco di Sal Salvi: uno scempio da scongiurare

Fra le peggiori conseguenze che ci consegna il Nuovo Piano Operativo (POC), lo strumento che detta le regole urbanistiche del Comune di Firenze, c’è senz’altro da annoverare il progetto infrastrutturale di una nuova viabilità nell’area di San Salvi, che partendo da via del Mezzetta raggiunge l’anello viario che circonda il complesso monumentale dell’ex ospedale psichiatrico ed esce su via Andrea del Sarto, costituendo un vero e proprio asse di penetrazione e scorrimento che non potrà che compromettere irrimediabilmente , con il suo devastante impatto, il già problematico assetto del parco storico di San Salvi.

A nulla sono servite le richieste delle associazioni e dei comitati per l’eliminazione del progetto presentando le Osservazioni al POC, sulla base della sua evidente incompatibilità con il parco pubblico, né l’opposizione degli stessi cittadini che nel recente “Percorso partecipativo per la rigenerazione urbana del complesso di San Salvi” hanno ribadito, nei vari tavoli tematici, il rifiuto della nuova strada ,sollecitando nel contempo una drastica riduzione delle troppe auto attualmente in sosta e in circolazione dentro l’area che nei giorni feriali è ridotta ad un immenso parcheggio, con centinaia di auto che vanno e vengono, non sempre rispettando i limiti di velocità. Un problema che che secondo l’Amministrazione, va risolto, non limitando e regolamentando il flusso veicolare dentro San Salvi per renderla finalmente compatibile con le esigenze di sicurezza di un parco pubblico, ma fluidificando il traffico con l’apertura di nuovi punti di accesso e di uscita collegati a via del Mezzetta e via Andrea del Sarto. Un provvedimento che non farà che richiamare più auto, più congestione e più inquinamento, stravolgendo la funzione del parco quale oasi di pace e quiete, separata dal traffico convulso della città, dai suoi rumori e veleni e dai suoi sempre incombenti pericoli.

San SalviInoltre, se verranno incentivate la libera circolazione e la sosta in San Salvi, come si potrà impedire che i futuri abitanti dei nuovi alloggi di Edilizia Residenziale Sociale previsti nel padiglione interessato dal cosiddetto “ Progetto di rigenerazione urbana” non pretendano dei parcheggi pertinenziali per le abitazioni, sottraendo ulteriore spazio al parco, in una logica privatistica ed esclusiva. Con questa dissennata scelta viabilistica, che conferma l’intoccabile autocrazia dell’automobile, viene naturale chiedersi quanto sia reale e coerente l’obiettivo strategico perseguito dall’Amministrazione comunale di ridurre il traffico privato a beneficio del trasporto pubblico, se anche in un’area di pregio a vocazione naturalistica, come San Salvi, dalle dimensioni limitate e attraversabile in tempi brevi anche a piedi, non possa essere, se non nell’immediato, in un prossimo futuro liberata quasi totalmente dal traffico. Sarebbero necessarie, prioritariamente, delle misure di pianificazione trasportistica per ridurre progressivamente la dipendenza dal mezzo privato, e spostare le esigenze di mobilità dall’automobile al mezzo pubblico, per decongestionare non solo l ‘area ma anche la stessa viabilità di contorno. Si pensi, a tale fine, alle potenzialità offerte dalla stazione ferroviaria a San Salvi, prevista da decenni e ancora da realizzare o all’opportunità di un servizio di minibus per gli scolari della scuola elementare Andrea del Sarto per eliminare le tante auto che entrano quotidianamente in San Salvi per accompagnare e riprendere i bambini fino al cancello della scuola; così come della necessità di parcheggi esterni al perimetro dell’area per la quota di coloro che gravitano per lavoro su San Salvi e non possono rinunciare all’auto, o per i suoi futuri locatari di cui si è sopra accennato.

Infine per completare l’informazione su San Salvi ci sembra utile riportare le proposte da noi formulate nella Osservazione al POC, in ordine ad una viabilità alternativa al suo interno.

“Onde rispettare le finalità istitutive del parco e garantire ai suoi fruitori di circolare liberamente al suo interno, a piedi o in bicicletta e per attività motorie e sportive, nella massima sicurezza possibile, in particolare tutelando le fasce più vulnerabili come i bambini, i disabili e gli anziani, si rende necessario, nel caso specifico del complesso di San Salvi che per l’insieme di funzioni e servizi in esso presenti non può essere totalmente interdetto alla circolazione veicolare, i seguenti accorgimenti :

  1. limitare rigorosamente l’ingresso, con sistemi adeguati di controllo, esclusivamente ai mezzi di servizio logistico di rifornimento, e al trasporto di alcune particolari categorie di utenti, come gli anziani e i disabili, delle strutture sociosanitarie in esso presenti;
  2. ridurre con opportuni dissuasori, la velocità dei veicoli circolanti a passo d’uomo, dando la precedenza assoluta a bambini e pedoni,
  3. vietare la sosta permanente nell’area, limitare quella temporanea alle strette esigenze del servizio che deve essere svolto. I due parcheggi che si prevede di realizzare all’esterno del parco devono avere la funzione primaria di decongestionare l’area, di liberarla progressivamente dalle auto e dal loro inquinamento acustico e atmosferico.”

Come era prevedibile la promessa di migliorare il nuovo strumento urbanistico, anche sulla spinta delle Osservazioni presentate al POC, mettendo al centro le esigenze della persona e dell’ambiente, è stata disattesa. Per questo continueremo a batterci come comitati e come cittadini, anche mediante un’opera di sensibilizzazione con la raccolta di firme per una petizione (anche online: https://www.change.org/p/salviamo-il-parco-di-san-salvi) contro la nefasta strada di scorrimento dentro San Salvi, fino a quando il suo parco pubblico non sarà restituito al pieno godimento del suo legittimo destinatario: la collettività.

Comitato San Salvi chi può

 


La città e il carcere: il volto meschino di Sollicciano

Cappellano del carcere fiorentino per vent’anni, Vincenzo Russo ne denuncia la disumanità. E accusa chi sta fuori: dalla politica a chi è schiavo di vili interessi. A pagare sono i poveri e i fragili. Da Fuori Binario / Aprile 2024

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In questi ultimi tempi, tra le pagine dei giornali, si legge spesso del carcere e della drammatica condizione in cui si trovano a vivere le persone detenute. A muovere questo interesse, solitamente assente, fatti recenti che hanno raggiunto la spesso sopita attenzione dell’opinione pubblica. Mi riferisco, particolarmente, alla decisione di un giudice del Tribunale di sorveglianza di Firenze che ha accolto il ricorso di un ex detenuto dell’Istituto penitenziario fiorentino di Sollicciano, il quale denunciava il trattamento inumano della detenzione subita. Fuori Binario ne ha parlato nel febbraio scorso. Ebbene, il giudice ha riconosciuto la ragione di questo ricorso e appurato il “trattamento inumano e degradante” che va in scena in quel carcere, concedendo così un importante sconto di pena al facente ricorso.

Quale impressionante lontananza tra quanto accertato dal Tribunale e quella storia e cultura toscane così intrise di umanesimo, spesso vantate come uniche e attuali! Quanto accade nel carcere fiorentino dimostra invece un volto diverso, meno bello e anzi meschino, capace di gettare via in un colpo di spugna secoli di storia e tradizione umanistica. L’opinione pubblica sembra essersi un po’ destata, incuriosita. Ma a parte questo cosa succede in concreto? Non basta un vago e formale principio di solidarietà, uno scontato giudizio di disapprovazione. Occorre molto di più, perché realmente si inizi a farsi carico della vita di tutte quelle persone che sono gettate dietro le sbarre, pigiate in una povertà che rovina e affligge. Si afferma, da parte di alcuni, che il carcere sia un “male necessario”, quasi inevitabile. Ciò appare una semplificazione di comodo, la giustificazione per un successivo non far nulla.

Sollicciano, il carcere intollerabile

Tutti siamo interpellati di fronte a ciò che accade oggi nelle carceri. Ciò che emerge inequivocabile circa quello fiorentino di Sollicciano, è intollerabile. La lista è lunga e deplorevole. I suoi ambienti degradati, pieni di muffe e umidità, le celle piccole e malmesse abitate da cimici e altri parassiti, il tempo vuoto che scorre ferendo e affossando, l’assenza di veri percorsi di recupero e socializzazione, la condizione di tante persone lì recluse che vivono un disagio mentale o vere e proprie malattie psichiche, lo scontro fra gruppi etnici animato dal controllo dello spaccio che lì avviene abbondantemente e avviluppa in una morsa senza fine i tanti tossicodipendenti presenti. Tutto questo non può essere considerato conseguenza inevitabile e necessaria di ogni società umana. Direi, piuttosto, che ne è il frutto, anzi lo specchio. La società è dormiente ed in balìa di istinti, non prende coscienza che anche questa città è un carcere a cielo aperto. Lo spaccio che abbondante si svolge all’interno dell’istituto è parte di una rete che viene da lontano, dall’esterno.

Fuori dalle mura della bellezza

Fuori da quelle mura, nella Firenze delle bellezze artistiche e dalla storia importante, dilagano in modo crescente situazioni di povertà. La disoccupazione fa la sua parte ed è ancora più pesante perché spesso legata a ciniche decisioni di delocalizzazione da parte delle aziende. Tante famiglie sono allo stremo e sempre più sole ad affrontare gravi problemi, tra cui quello abitativo. Cosa dire poi dell’insicurezza che aumenta di fronte ad una criminalità sempre più vasta e subdola, quasi invisibile, che sfrutta storie disgraziate di miseria e pesca a piene mani nel destino tragico di tanti invisibili e disperati, molti dei quali provenienti da un sistema di accoglienza che si rivela fallimentare?

La comunità deve saper opporsi

Occorre prendere coscienza come comunità, reagire, opporsi. Il carcere è il problema oggi ma è parte di un problema più grande, è solo la punta dell’iceberg. La città e il carcere sono indissolubilmente legati, nonostante si voglia, ad ogni costo, separarli. Ciò che accade al di qua e al di là di quelle mura è reciprocamente influenzato, connesso. Ciò che rattrista e risulta incomprensibile è il non capire questo e il separare nettamente i due luoghi. Si pensa, infatti, che il carcere non debba essere affatto considerato parte della città, ma sua estrema periferia, quasi invisibile! Ciò che avviene dentro non deve essere conosciuto fuori, perché turba, danneggia il quieto vivere. Ricorderebbe a questa società distratta che c’è tanta povertà, tanta ingiustizia, tanta contraddizione al suo interno. Tale separazione diventa incomunicabilità. Ma allora sorge, inquietante, un interrogativo. Come possono, dietro quelle sbarre, rigenerarsi vite che devono reinserirsi proprio in quella società che si tiene così lontana e si mostra, al limite, giudicante? Evidentemente c’è qualcosa che non torna e la realtà è un’altra. Sollicciano, come ogni altro carcere, è parte integrante della città e della sua comunità e per quanto lo si tratti da periferia, esso è, in verità, assai legato alla realtà che lo circonda. Ne è il segno, in parte il frutto, l’esemplificazione e l’eco.

Niente di buono nasce in carcere

Se vogliamo dirla tutta, il carcere in sé è qualcosa che non funziona e che difficilmente produrrà qualcosa di buono e si dimostrerà utile. Ma indubbiamente, e a maggior ragione, esso deve almeno garantire condizioni di piena giustizia e di diritto. Ciò che è e sarà dipende e dipenderà molto dalla società fuori, dalla città di cui fa parte. Se vogliamo sperare in un qualche cambiamento, andando a ritroso ed uscendo dalle mura degli Istituti di pena, si deve trovare anzitutto una città non più ingabbiata come adesso, non più schiava di vili interessi. Soprattutto con una coscienza libera, attenta e sul pezzo.

Basta con la politica dei proclami

Non è più tempo di proclami, di sterili contestazioni, di demonizzazione dell’avversario al fine di imporre sé stessi. Non fa intravedere soluzioni una pur affabulante ricerca di nuovi assetti o curiosi accordi di gestione e potere, che copiosi ci sono presentati in questo tempo di promesse e campagne elettorali. Nessuno può attendersi veri cambiamenti da una politica sempre più spettacolarizzata e interessata all’immagine, frutto di visioni e interessi di parte. Eppure, è tempo di agire, urgentemente: non contro ma per, con impegno. L’intera società civile, tutti noi, dobbiamo quindi mettere a disposizione la testa, il cuore, le mani e le braccia per costruire una nuova dimensione di comunità, nella quale l’oltraggio alla persona, che avviene nelle carceri, non abbia mai più cittadinanza.

Vincenzo Russo è stato cappellano del carcere di Sollicciano fino al 2023. Casa Caciolle, sita a Firenze tra Novoli e Ponte di Mezzo, ospita persone detenute con pena alternativa al carcere.
Info su www.casacaciolle.it.