Charlie Hebdo, il dito e la luna

L’attacco omicida al giornale satirico francese Charlie Hebdo, di cui tutto il mondo da giorni parigiparla, è senza ombra di dubbio un fatto inaccettabile e la condanna deve essere senza ambiguità. Ma non deve esaurirsi nel cordoglio di un giorno. Soprattutto, non deve indirizzarsi verso quella ‘contrapposizione di civiltà’ di cui troppo si è ascoltato e letto.

Nel coro di condanna del gesto terribile di Parigi sono particolarmente utili le voci che mettono in guardia da semplificazioni pericolose e che ci ricordano un concetto fondamentale: tutte le volte che si legittima lo schema che vede contrapposta da un lato la presunta ‘libertà occidentale’ e dall’altro la ‘barbarie islamista’ si legittimano nuovi devastanti conflitti e nuove guerre.

Insieme alla condanna, occorre una riflessione sulle radici più profonde dell’atrocità commessa a Parigi, come in altre parti del mondo dal fondamentalismo islamico. Perché confondere l’Islam con il terrorismo è il migliore regalo si possa fare all’Isis e alla sua propaganda. E anche perché parlare di ‘scontro di civiltà’ ci porta lontano dal cuore di un problema che ha radici più complesse e sotterranee. E chiama direttamente in causa quell’Occidente che troppo facilmente si lava la coscienza dividendo il mondo tra buoni e cattivi, ovviamente riservandosi il ruolo dei primi.

Chiediamoci piuttosto quali siano gli interessi e le pressioni su scala internazionale, quali siano le strumentalizzazioni politiche e propagandistiche da parte di poteri forti. Chiediamoci a chi servono atti del genere. E ricordiamo che è abitudine delle potenze occidentali sferrare direttamente, o innescare in modo indiretto, guerre e scontri per mantenere il proprio dominio geopolitico anche su territori in cui la fede islamica è maggioritaria.

Gli stati maggiori di Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e i loro servizi segreti non hanno mai smesso di giocare con fantocci che hanno a loro volta utilizzato per fini propri i loro finanziatori. Pensiamo a quanto successo in Libia, in Mali, Siria e ora con l’Isis alle porte di Kobane. Abbiamo assistito a trasformazioni che hanno rivoluzionato la geopolitica e prodotto una serie di conflitti dall’Afghanistan all’ Iraq, alla Palestina al Maghreb e all’Africa centrale.

Basterà ricordare che per opporsi all’invasione sovietica dell’Afganistan, nel 1979, gli Stati Uniti strinsero un’alleanza anticomunista con gli estremisti islamici. E in seguito l’intreccio di strumentalizzazioni incrociate non ha che complicato un quadro che è sfuggito al controllo di chi credeva di poter condurre il gioco. Ma per venire ai nostri giorni, non possiamo ignorare che una città di 10 mila abitanti è stata rasa al suolo in Nigeria, che in Yemen pochi giorni fa una bomba ha fatto 30 morti su un minibus, che un mese fa un attacco terroristico ha ucciso 141 bambini in una scuola di Peshawar, Afghanistan. Il terrorismo islamico sta facendo migliaia di morti, e moltissimi sono musulmani. Sono colpiti in modo particolare il Medioriente, l’Africa del Nord e Subsahariana e parti dell’Asia.

Quel che viene utilizzato dalla retorica delle formazioni politiche populiste di tutta Europa per rilanciare crociate e scontri di civiltà ha invece bisogno di altre categorie di lettura: a cominciare con quella di classi subalterne a centri internazionali di potere che utilizzano gruppi regionali, etnici, identitari, religiosi per vincere la loro guerra. Una guerra che, ancora una volta, dietro lo sventolare di bandiere di fede o appartenenza etnica, nasconde una lotta feroce per impadronirsi di risorse strategiche e accumulare ricchezza e profitto.

Ma anche chi non cavalca direttamente le spinte più retrive della xenofobia e del razzismo, ma si limita all’espressione di una superficiale solidarietà alle vittime di questo atto feroce, si unisce al coro ipocrita di chi vuol vedere il dito e non la luna. O di chi piange per i migranti morti nel Mediterraneo ma non è disposto a cambiare niente di uno stile di vita privilegiato che presuppone il saccheggio delle regioni di provenienza di quei morti, e si rende corresponsabile della povertà e delle guerre da cui fuggono.

Quella stessa ipocrisia che risultava evidente nelle immagini grottesche dei capi di stato alla manifestazione di Parigi, fintamente a capo di un corteo di popolo ed invece soli ed in posa per un selfie di gruppo. Gruppo di cui fanno parte, fra l’altro, alcuni dei potenti della terra responsabili di uccisioni di giornalisti o di scelte che la libertà di espressione la calpestano e la offendono quotidianamente.

Non facciamo di Charlie Hebdo il simbolo di tale ipocrisia, Charb, Wolinsky e gli altri non lo meritano, e non ce lo perdonerebbero.

* Ornella De Zordo, laboratorio politico perUnaltracittà