Sindrome Nimby. O i lumi della ragione nell’età dell’oscurantismo

La stampa italiana attribuisce alla “sindrome Nimby” – not in my backyard, non nel mio giardino – una parvenza scientifica, oggettiva: sindrome psicologica, male da curare, Nimby si ripresenta presso le popolazioni residenti ogni volta che opere infrastrutturali o progetti di grande impatto ambientale insidiano i loro ambienti di vita.

La patologia si manifesterebbe con un carattere psicologico morboso: la difesa della propria casa, territorio, comunità. Segni retrogradi di egoismo, di mancanza di senso civico e di disinteresse per l’interesse generale.

Nel dibattito sulla carta stampata, il nucleo del problema Grandi Opere sarebbe proprio l’opposizione civile alla compromissione dell’ambiente di vita. Il problema sarebbero proprio i cittadini che, in preda alla sindrome, impedirebbero alle imprese private di realizzare l’interesse pubblico o generale, magari in project financing. Magari con i soldi dello Stato, dei cittadini stessi.

Un ragionamento sovversivo. Sembra di vivere a rovescio.

Un dibattito siffatto elude esplicitamente i temi cruciali della questione dei progetti infrastrutturali in Italia. Esso non spiega le ragioni dello scarto tra la domanda di servizi reali per i cittadini – come i trasporti pubblici o la mobilità – e l’offerta, spesso disegnata da tecnici legati a doppio filo alle imprese private, priva di controlli e comparazioni da parte di uffici dell’autorità pubblica. Dove si ha bisogno di trasporto ordinario diffuso si propongono linee ad alta velocità, nuovi aeroporti a scarsa distanza da altri scali, dighe mobili mastodontiche, costosissime ed irreversibili per proteggere città da acque eccezionali.

Come ci ricorda il sociologo di Oxford Ben Flivbjerg nel suo Razionalità e Potere (studio pioneristico sulle grandi opere del 1988), anche per i casi più virtuosi, come il rinnovamento urbanistico di Alborg in Danimarca, gli studi e le previsioni fatti dalle imprese tendono necessariamente a proporre mastodontici interventi e a gonfiare i costi. D’altronde, come si diceva, le imprese operanti nel mercato questo devono fare, e altro dovrebbe fare l’autorità pubblica, ovvero controllare tali progetti e costi in maniera comparativa, facendo gli interessi dei cittadini.

Per l’appunto, persino in casi virtuosi come la Danimarca, paese del Nord Europa dove esistono comunque strumenti di concertazione più avanzata. L’Italia infatti, mentre tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila paesi vicini come Spagna, Germania e soprattutto Francia si dotavano di nuove forme di «democrazia della prossimità» (ovvero di consultazione dei territori), ha deciso di procedere in direzione ostinata e contraria. Così, un tale percorso autonomo e creativo diede luce alla «legge obiettivo» del 2001 che recentemente ha ricevuto il titolo di «legge criminogena» conferitogli dall’Autorità anti-corruzione.

È infatti uno strumento che ha il “merito” di concentrare numerosi livelli: allontana i processi decisionali dai territori attraversati dalle grandi opere; con la figura del general contractor, delega al privato il controllo sull’opera; rende la commissione VIA un esercizio para-accademico di curiosità intellettuale applicata. E le imprese fanno tutto ciò, rigorosamente “con i soldi degli altri”, parafrasando Luciano Gallino, ovvero quelli dei cittadini, sui cittadini stessi, mutando il valore e la vivibilità delle loro case e dei loro territori.

Ad ogni tornata elettorale si manifesta la riproposizione periodica di opere faraoniche (il Ponte sullo Stretto, la Torino-Lione e via discorrendo), con tutto il corredo lessicale pseudo-modernista che spazia dal volàno dell’economia alla competitività, passando per l’immancabile creazione di posti di lavoro.

Tra i molteplici aspetti che spiegano l’ordine del discorso sulle grandi opere c’è sicuramente poi una tendenza vaga al gigantismo, reale o strategico: in entrambi i casi fortemente deleterio per democrazia, legalità e sviluppo.

Il gigantismo è frutto di diverse tendenze attuali. Tra di esse spicca la decadenza del ruolo della politica nei suoi più diversi livelli. Laddove il gigantismo delle imprese è logica espressione del ruolo di massimizzazione dei propri profitti dell’attore privato – che però, almeno, dovrebbe rischiare con i propri soldi – esso ben si sposa con le aspirazioni di rappresentanti politici in cerca di gloria, visibilità ed interessi (direttamente o indirettamente economici) ben al di là delle reali competenze e capacità di visione politica.

Al tempo in cui la cultura politica è sempre più mediatica, piegata sull’esistente, votata all’autoriproduzione e all’autocelebrazione, con capacità progettuali limitate alle campagne elettorali, la grande opera è il marchio con cui assicurarsi finanziamenti – legali o illegali, visibili o occulti – e visibilità, con cui simulare progettualità, modernità o risultati.

Il gigantismo ha anche aspetti specifici pericolosi, non da ultimo l’opacità dei progetti, nonché, una volta iniziati, l’incontrollabilità dello stato d’avanzamento dei lavori stessi, materia di speculazione non solo materiale – aumento dei costi con varianti in corso d’opera – ma anche elettorale o mediatica bipartisan. In tale scenario poi, chiunque, nelle pieghe di burocrazia e procedure può dire di essere stato il primo a “sbloccare” qualcosa – altro concetto di cui diffidare e che spesso si lega alla abolizione o neutralizzazione di qualche necessario controllo pubblico, sia esso ambientale, sanitario o economico.

Se le opere infrastrutturali sono quindi viziate da questa pseudo-cultura del gigantismo, c’è tuttavia un altro elemento che le rende ancora più opache. In assenza di controlli tecnici, la comunicazione politica si ammanta di un discorso pseudo-scientifico – ce lo dicono i tecnici – unito a profetismo autoreferenziale – il nuovo che avanza – laddove la complessità tecnologica e incertezza sui rischi per l’ambiente di vita – ovvero la vita stessa – dei cittadini richiedono estensione della democrazia, moltiplicazione delle fonti di competenza, principio di precauzione e cultura della reversibilità (tutti principi che, finalmente per una buona volta, “ce lo chiede l’Europa”).

Se persino in una definizione minimale e procedurale come quella di Norberto Bobbio, la democrazia si lega al grado di trasparenza delle attività dei suoi decisori e alla possibilità di porre luce sulle stesse da parte di tutti gli appartenenti alla comunità politica, sulle grandi opere la democrazia è quasi sempre sospesa.

Proprio di fronte a complessità e incertezza, si può reagire in due modi. In maniera élitista, delegando il compito a una pluralità di esperti in grado di confrontarsi su di una controversia tecnico-scientifica per valutare la più razionale ed efficiente delle soluzioni. Oppure, in maniera democratica, allargando i processi decisionali al più ampio spettro di alternative tecniche e politiche.

Persino nella prima ristretta visione – oramai marginale nell’ampio dibattito sulla «democrazia tecnica» (si veda l’omonimo bestseller politologico del 2001 di Callon, Barthes, Lascoumes) – si richiede una diversificazione delle appartenenze esperte, ovvero almeno un confronto, comunque da definire, tra esperti pubblici e privati, che nei maggiori casi italiani è negli ultimi decenni sorprendentemente mancata.

Ad oggi, i più diversi formati, il débat public francese, la consensus conference danese, la Plannungszelle tedesca, solo per citarne alcuni, condividono un’evidenza fondamentale. L’apertura al confronto tra diverse posizioni dovute ad appartenenza, visione, interesse migliora sempre la qualità della deliberazione. È quindi laddove si invoca la delega ad oscure giurie di iniziati o portatori di saperi esoterici che deve nascere il dubbio di opacità, preambolo di scambi occulti di natura corruttiva.

Non è difficile cogliere come, al contrario, le decisioni migliori siano quelle più complesse, ovvero elaborate da una varietà di attori e pubblici portatori di una molteplicità di ipotesi e forme di discussione, vista la difficoltà di conoscere l’evoluzione di aree urbane o i bisogni di mobilità in tempi di rapida ed incerta innovazione tecnologica come la nostra.

Per fare questo, le odierne organizzazioni partitiche sono decisamente inadeguate, vista la loro deriva leaderistica, la cultura sondaggistica su cui si sorreggono e il ricorso a finanziatori privati con cui sostengono le proprie attività e campagne. La loro tendenza al breve termine, il loro essere divenute macchine autoreferenziali votate in primis alla propria sopravvivenza istituzionale, quando non alla distribuzione e al mantenimento delle rendite di posizione, li rende attori poco affidabili dal punto di vista sia del controllo democratico che della capacità di visione a lungo termine.

In tale quadro, i processi di progettazione e deliberazione su opere che incidono su ambienti di vita complessi e su generazioni di cittadini non possono riguardare pochi che in luoghi ristretti decidono attraverso procedure opache e frettolose.

Gli unici in grado di rianimare la democrazia sono i portatori di interesse pubblico – inteso nella sua massima estensione – ovvero i cittadini che vivono, conoscono il territorio e più di tutti hanno il sincero interesse a prendersene cura nel presente come nel futuro. “Dobbiamo curare il nostro giardino”, diceva uno dei primi affetti da sindrome Nimby della storia, Voltaire.

*Riccardo E. Chesta

[Il testo è la trascrizione dell’intervento alla conferenza “Ambienti di vita a rischio: Firenze, Roma, Venezia”, con Ilaria Agostini, Carlo Cellamare, Riccardo E. Chesta, tenutasi il 5 febbraio 2018 presso il Gabinetto Vieusseux (Firenze) nell’ambito di “Lo spazio della parola. Incontri di filosofia e letteratura” organizzati dal gruppo Quinto Alto]