Un tradimento inammissibile: Trump e i curdi del Rojava

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Appena pochi giorni fa, il 4 ottobre, veniva comunicato su Twitter il successo della terza operazione di pattugliamento di terra congiunto tra soldati statunitensi e turchi nel nord della Siria (Rojava), al confine con la Turchia. Una Task force speciale, costituita ad hoc, aveva tra le altre cose verificato che le milizie curde delle YPG e YPJ si fossero effettivamente ritirate dall’area, portando via tutta l’artiglieria pesante, ed avessero rimosso ogni tipo di struttura difensiva (trincee, casematte, fortificazioni, ecc).

Sono stati i curdi stessi a rimuovere tali postazioni, proprio mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan minacciava di invadere la regione, per dimostrare di non avere intenzioni bellicose ma anzi, di essere fermamente risoluti a trovare soluzioni pacifiche al conflitto. Cosa molto difficile visto che la Turchia combatte da decenni una guerra interna contro i curdi del PKK e vede con molta preoccupazione la nascita di una regione amministrata dai curdi filo-PKK proprio lungo i propri confini (vi è anche un secondo motivo, che ha a che fare con la volontà della Turchia di espandere la propria egemonia sull’area mediorientale in contrasto all’Iran). Ciò che reggeva in piedi la baracca era la garanzia statunitense, alleati dei curdi in Siria, che avrebbero difeso la regione da una eventuale invasione Turca.

L’accordo era stato raggiunto il 7 agosto; anche in quei giorni sembrava ormai imminente l’avvio delle operazioni militari turche e gli Stati Uniti avevano dovuto esercitare non poche pressioni per raggiungere un’intesa. Questa prevedeva appunto un’area cuscinetto interamente in territorio siriano larga tra i 5 e i 14 chilometri e lunga 115 che si sarebbe espansa via via fino a 18 chilometri di larghezza e 480 chilometri di lunghezza, dal fiume Eufrate fino al Tigri, al confine con l’Iraq. Le FDS (Forze Democratiche Siriane) avrebbero rimosso le fortificazioni di confine e ritirato le proprie truppe YPG e YPJ. Venivano previste ispezioni congiunte tra Stati Uniti e Turchia per verificare i progressi e la possibilità della Turchia di sorvolare l’area con i droni (come è effettivamente avvenuto in più occasioni) ma non con aerei militari. C’era poi una parte che prevedeva che alcuni rifugiati siriani attualmente residenti in Turchia sarebbero stati rimpatriati nella zona. E fino a pochi giorni fa sembrava che l’accordo stesse effettivamente funzionando, nonostante le ripetute dichiarazioni di esponenti del governo turco contro i curdi (considerati “terroristi”).

Ma a un certo punto qualcosa nel meccanismo si è rotto: il 5 ottobre, appena un giorno dopo il terzo pattugliamento congiunto, Erdogan ha dichiarato che un’invasione turca su vasta scala della Siria settentrionale sarebbe potuta iniziare il giorno stesso o l’indomani, l’esercito turco era pronto per l’invasione ed aveva ricevuto istruzioni al riguardo. Ironicamente l’operazione si chiamerebbe “peace spring” (primavera di pace).

Rojava
Il Rojava allo stato attuale: in verde le zone controllate dalle FDS, in rosso le zone invase dalla Turchia, in arancione quelle controllate dal governo siriano

L’invasione interesserebbe una striscia di “almeno” 32 chilometri e larga dal Tigri all’Eufrate (come inizialmente aveva chiesto la Turchia, prima dell’accordo) ed inoltre potrebbe prevedere il rimpatrio forzato di 2 o 3 milioni di profughi (quei profughi per cui l’Unione Europea ha regalato milioni alla Turchia affinché non li facesse arrivare nei propri paesi). Le SDF hanno immediatamente dichiarato che qualunque attacco della Turchia provocherà una guerra totale lungo l’intero confine. Ma considerando la situazione nella zona (il ritiro delle truppe e la rimozione delle strutture difensive) e ricordando a come è andata nel cantone di Afrin (conquistato dalla Turchia in meno di due mesi nonostante una eroica resistenza delle FDS) ci sono pochi dubbi sull’esito del conflitto (anche se storie come l’assedio di Kobane insegnano che non si deve mai sottovalutare i curdi).

Dunque perché dovrebbero interessarci le sorti di un conflitto ancora non scoppiato e dal risultato abbastanza prevedibile? Innanzitutto per l’importanza del modello di confederalismo democratico con cui viene amministrato il Rojava, che vede i popoli e religioni della zona convivere e collaborare con entusiasmo, dando centralità a temi come l’ambiente, il femminismo e la giustizia sociale. Un modello che potrebbe essere un esempio per tutto il resto del mondo. 

Ma anche se fosse altrimenti c’è un altro fattore che richiama la nostra attenzione tanto lontano da casa nostra: negli ultimi anni le FDS hanno combattuto più di chiunque altro contro lo Stato Islamico, lasciando sul terreno migliaia di martiri (come Lorenzo Orsetti, partito da Firenze per unirsi alla causa) fino ad arrivare alla vittoria a fine marzo 2019. Bene: esiste ora un grave rischio di rinascita dello Stato Islamico in quanto i curdi dovrebbero ritirarsi dalle ex-roccaforti dell’Isil (comunemente noto come Isis) per fronteggiare l’invasione. Già in questi due giorni molte milizie curde sono state trasferite da Raqqa e da Deir ez Zor verso il confine turco (Raqqa è l’ex capitale dello Stato Islamico, Deir ez Zor l’ultima regione siriana controllata dallo Stato Islamico e conquistata proprio dai curdi a marzo 2019). Parliamo di circa 12 mila prigionieri dell’Isil tra i quali 2.500 foreign fighters e decine di migliaia di loro famigliari (!).

Vignetta satirica che recita “vediamo chi è che vende armi ai terroristi dell’ISIL in Siria, Iraq, Nigeria..”

E qui è avvenuto l’evento che ha lasciato molti di stucco: dopo una telefonata tra il presidente statunitense Trump e quello turco Erdogan, il 7 ottobre la Casa Bianca ha annunciato tramite un comunicato stampa il ritiro delle proprie truppe di fronte alla minaccia di invasione. Proprio quelle truppe che dovevano servire come garanzia contro l’invasione! Il comunicato affermava che il presidente Trump avesse dato il via libera all’offensiva turca dopo che il presidente Erdogan gli aveva assicurato che la Turchia avrebbe assunto la detenzione dei prigionieri dell’Isil detenuti nelle prigioni delle FDS. Il colmo, considerando che esistono numerose testimonianze e prove dell’appoggio che la Turchia ha dato allo Stato Islamico per combattere i curdi e il regime siriano. La Turchia dovrebbe in sintesi tenere prigionieri a sue spese gli uomini che ha addestrato e armato negli ultimi anni!

Le dichiarazioni di Trump nelle ore successive hanno raggiunto picchi di cinismo. Il 7 ottobre, in un tweet ha scritto “Gli Stati Uniti dovevano stare in Siria solo 30 giorni, poi sono rimasti per anni. […] I curdi hanno combattuto con noi, ma sono stati pagati con enormi somme di denaro ed equipaggiamenti per farlo. I curdi combattono la Turchia da decenni. Ho portato avanti questa lotta per quasi 3 anni ma adesso è arrivato il momento per noi di sfilarci da ridicole guerre senza fine, molte delle quali tribali e di riportare i nostri soldati a casa. COMBATTEREMO SOLO DOVE CI CONVIENE E COMBATTEREMO SOLO PER VINCERE”. La decisione è stata accolta in modo molto critico negli Stati Uniti, con membri del Congresso repubblicani precedentemente lealisti che promettevano di unire le forze con i democratici dell’opposizione per approvare una risoluzione al Congresso degli Stati Uniti per invertire la decisione del presidente Trump. 

Nel frattempo le FDS hanno espresso l’intenzione di negoziare con il presidente siriano Bashar al-Assad al fine di ottenere un accordo che potrebbe vedere l’ingresso delle unità dell’esercito siriano nei territori detenuti dalle FDS, nella speranza di prevenire l’invasione turca o almeno per difendere le roccaforti dell’Isil dopo il trasferimento dei curdi al confine. Non si hanno notizie ufficiali ma pare che persino il Pentagono e gli ufficiali statunitensi sul terreno siano molto irritati dalle dichiarazioni di Trump, rischiando di veder svanire in un baleno il risultato di 8 anni di guerra e al tempo stesso di perdere il proprio miglior alleato nel paese (le FDS, che oltretutto controllano in questo momento gran parte del paese).

A quel punto, l’8 ottobre, il presidente degli Stati Uniti ha twittato una specie di minaccia alla Turchia in cui affermava che “Potremmo star abbandonando la Siria ma in nessun modo stiamo abbandonando i nostri alleati curdi, che sono persone speciali e combattenti straordinari. Allo stesso modo le nostre relazioni con la Turchia, un partner NATO e commerciale, sono sempre state molto buone. […] La Turchia capisce benissimo che qualsiasi attacco non necessario sarà devastante per la propria economia e per la propria fragile moneta. Stiamo aiutando i curdi finanziariamente/con armi”. E così l’amministrazione americana sembrerebbe aver fatto retromarcia e nelle ultime ore sono arrivate le prime smentite: un alto funzionario dell’amministrazione americana ha affermato che “tra 50 e 100 soldati delle forze speciali statunitensi saranno ritirati dalla zona cuscinetto di 30 km al confine, ma non lasceranno la Siria: saranno riassegnati in posizioni più sicure all’interno del paese.”  

Guerrigliere curde

Insomma: non è ancora chiaro cosa stia avvenendo e cosa succederà in Rojava. Sembrerebbe che la decisione di Trump, un evidente errore strategico non condiviso né dal Pentagono né da molti membri del suo partito, fosse solo una sparata elettorale su cui ha dovuto in parte fare dietro front.
Una cosa però è certa: se gli Stati Uniti si ritirassero sarebbe l’ennesimo tradimento alla causa curda, come quando invitarono i curdi alla rivolta contro Saddam Hussein in Iraq nel 1991 (per poi lasciarli massacrare) o come quando hanno ostacolato una collaborazione ad Afrin tra i curdi e il presidente siriano (per impedire che quest’ultimo espandesse la propria influenza), salvo poi assistere senza muovere un dito all’invasione del cantone da parte della Turchia e dei suoi alleati (gennaio-marzo 2018, Operazione “Ramoscello di Ulivo”).

Un tradimento che, in cambio di qualche voto alle elezioni statunitensi, comporterebbe un grave rischio per la sicurezza internazionale con migliaia di combattenti Isil rimessi a piede libero, l’intensificarsi dello scontro Turchia-Iran, l’espandersi del potere regionale di un personaggio autoritario come Erdogan e la messa in discussione della formidabile esperienza di autogoverno del Rojava.

*Thomas Maerten

Aggiornamenti:

  • In tutto il mondo ci si prepara alla mobilitazione: a Firenze è stato lanciato una manifestazione per giovedì 10 ottobre alle 18:00, che partirà da Santa Maria Novella per dirigersi verso il consolato statunitense sul lungarno.
  • Secondo fonti sul terreno più di 50 militanti delle cellule dormienti del califfato (militanti Isis che dopo la sconfitta si sono mimetizzati tra i civili) avrebbero lanciato stanotte (9 ottobre) un attacco nel centro di Raqqa per prendere il controllo della base di AlBasel e di altri punti strategici della città. Si sono sentite almeno 6 forti esplosioni e colpi d’arma da fuoco. La corrente elettrica in città è saltata.
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Thomas Maerten

Thomas Maerten, classe 1988, è cresciuto tra sud America, Africa ed Europa. Attualmente vive a Firenze, lavora con i migranti e scrive per passione. Partecipa attivamente ai Clash City Workers e alle attività dello Spazio Inkiostro.

1 commento su “Un tradimento inammissibile: Trump e i curdi del Rojava”

  1. Alessandro De Angeli

    Ma è mai possibile che nella giornata di sabato 12 a Firenze non ci sia nessuna mobilitazione? Limitarsi al giovedì fatto di fretta e furia con pochi partecipanti mi sembra un po’ poco…

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