Se le donne pagano la crisi

Il coro dei media, accorso ad elogiare Mario Draghi non appena il Presidente della Repubblica Mattarella ha fatto il suo nome, non ci ha risparmiato neppure il santino della moglie Serena Cappello. Nobile, discendente dei Medici, il marito che la descrive come quella che ne sa di più, salvo zittirla con un “Dai, sta’ zitta” di fronte alle domande dei giornalisti, insomma la classica grande donna che sta dietro ad un grande uomo.

In mezzo a questa beatificazione del futuro liquidatore d’Italia, che non conosce differenze di pensiero tra giornali di destra e di area PD e renziana, il ritrattino anni ‘50 sulla moglie potrebbe sembrare un particolare secondario da cronaca rosa, ma non lo è affatto. E’ piuttosto un campanello d’allarme sul nostro futuro. Quale sarà il ruolo delle donne in questa crisi? Chi pagherà l’austerity che ci verrà imposta per la restituzione del debito? Su chi ricadranno i tagli ai servizi pubblici: dalle scuole alla sanità? La risposta è una sola: sulle classi più deboli e al loro interno ancora di più sulle donne. E ancora, chi tornerà a casa se mancherà il lavoro? Gli uomini o le donne?

Proviamo a mettere in fila un po’ di dati degli ultimi mesi da quando le conseguenze della crisi economica dovuta al lockdown e alla pandemia hanno iniziato a emergere.

Cominciamo con gli ultimi dati Istat relativi al mese di dicembre 2020, secondo cui gli occupati sono diminuiti di 101.000 unità. Tra chi ha perso il lavoro solo 2.000 sono uomini, le restanti 99.000 sono donne.

A inizio dicembre 2020 erano arrivati i dati ufficiali della Fondazione studi consulenti del lavoro a certificare, con un confronto tra il secondo trimestre 2019 e lo stesso periodo del 2020, che erano 470.000 le lavoratrici che avevano perso il lavoro su un totale di 841.000 neodisoccupati. Quindi su 100 posti di lavoro perduti, il 55,9% apparteneva a una donna.

Dati questi numeri, e con 30.000 posti di lavoro a rischio, è semplice immaginare cosa accadrà dopo il 31 marzo con lo sblocco dei licenziamenti, tanto invocato da Confindustria. La storia ci viene in aiuto e ci conferma che sono le donne a pagare in prima persona le crisi economiche.

Nel 1945, subito dopo la guerra in un paese stremato fu stabilito un blocco dei licenziamenti, allora come oggi gli industriali non ne erano affatto contenti e ottennero la possibilità di licenziare solo per alcune categorie particolari come i lavoratori “con altre risorse familiari”, ergo le donne sposate. Non sorprende quindi che la maggior parte dei quasi due milioni di disoccupati del 1947 fossero donne.

Aggiungiamo un ultimo tassello grazie a Save The Children e all’undicesima edizione del suo Atlante dell’infanzia, uscito a novembre 2020, e non a caso intitolato “Con gli occhi delle bambine”.

Secondo Save the Children circa 1 milione e 140 mila ragazze tra i 15 e i 29 anni rischiano, entro la fine dell’anno di ritrovarsi senza un futuro, poiché non studiano, non lavorano e non sono inserite in nessun tipo di percorso formativo. E questo non accade solo nelle regioni più povere, basti pensare che in Trentino Alto Adige in quella fascia d’età i Neet sono il 7,7% dei ragazzi, mentre tra le ragazze il 14,6%. Inoltre, tra neolaureate e neolaureati è aumentata la differenza tra chi trova lavoro e chi no nei primi sei mesi dopo la laurea e sussiste una differenza di retribuzione del 19% tra donne e uomini al momento del loro ingresso nel mondo del lavoro.

“Bambine e ragazze che in Italia pagano sulla loro pelle disuguaglianze di genere sistematiche e ben radicate nella nostra società, che si formano già nella prima infanzia, che le lasciano indietro rispetto ai coetanei maschi e che, con la pandemia, sono deflagrate” mette nero su bianco Save the Children.

Di nuovo lo spettro del secondo dopo guerra quando l’analfabetismo femminile toccava in alcune zone d’Italia punte vicine al 30%.

Il rischio è quello della perdita di un’intera generazione di ragazze che non saranno in grado di entrare nel mercato del lavoro nel momento in cui volessero farlo, proprio perché non hanno studiato e non hanno nessun tipo di preparazione.

Che si parli di Neet, di lavoratrici o di laureate il rischio concreto è che la crisi butti fuori le donne dal mondo del lavoro e le costringa a tornare a casa. Anche nel momento in cui l’occupazione dovesse risalire, se lo stato sociale sarà stato pesantemente tagliato, le donne non torneranno a lavorare perché dovranno essere loro il welfare mancante.

I prossimi mesi saranno fondamentali per evitare di trovarci catapultate negli anni 50, alcune a fare lavoretti malpagati a casa (già oggi lo smartworking riguarda più le donne degli uomini), altre schiacciate tra lavoro a casa e fuori, altre ancora senza problemi economici ma private di qualsiasi libertà di scelta.

 

In un celebre film di Douglas Sirk del 1955 intitolato Secondo amore (All that heaven allows) la protagonista, giovane ve

dova nell’America di Eisenhower, si trova ingabbiata in una vita impostale dalla società perbenista e dai suoi figli, imbevuti di quello stesso perbenismo. Al posto della vita, a cui è costretta rinunciare, le regalano una televisione nel cui schermo la donna si specchia come imprigionata.

Riprendiamoci al più presto le piazze perché la crisi non la paghino i poveri, la classe media e soprattutto le donne. La costrizione nelle nostre case causata da una politica incapace di trovare soluzioni alla pandemia dura da quasi un anno. Rischiamo di uscirne quando fuori non ci sarà più nulla per noi e saranno altri, come Draghi e una classe politica che non rappresenta più il paese reale, ad aver già deciso il nostro futuro al posto nostro.