Costruttori di fortini, conquistatori di quartieri

«Ogni passo che una città fa per limitare il predominio del traffico automobilistico la rende più accessibile ai bambini. E al contempo rende la vita più tollerabile per ogni altro cittadino» (Colin Ward, 2018).

Ho la fortuna di abitare in un quartiere fiorentino con molti spazi verdi, piccoli giardinetti sparsi tra le case in cui i bambini e le bambini possono giocare sotto casa e gli adulti fermarsi a fare due chiacchiere. Sono convinto che gli architetti che disegnarono questo quartiere popolare, nato negli anni Cinquanta grazie al piano INA-Casa, organizzarono gli spazi proprio per creare reti e aggregazione sociale. Il nido e le scuole dell’infanzia e primaria si trovano su una montagnola e sono collegate alla piazza attraverso una passerella e un viale pedonale tra alberi, siepi, panchine per sostare e spazi verdi per giocare. Lungo questo viale si trovano il circolo degli anziani, il parco giochi recintato per i bambini più piccoli e la parrocchia. Il viale è perciò il principale luogo d’incontro del quartiere, dove i bambini e le bambine amano ritrovarsi. Murray Bookchin in Una politica per il ventunesimo secolo (1998) notava che «il “quartiere” non è semplicemente il posto dove le persone costruiscono le loro case, allevano i figli e acquistano gran parte dei loro beni. Da un punto di vista politico, per intenderci, un quartiere può includere gli spazi vitali dove le persone possono riunirsi per discutere di questioni politiche e sociali. Infatti è proprio la possibilità di discutere apertamente dei temi che interessano ai cittadini, che veramente si definisce il quartiere come un importante spazio politico e di potere» (Bookchin, 2018, p. 67).

Durante la chiusura per il Covid nella primavera 2020, insieme ai miei due bambini abbiamo passato molto tempo sotto casa, dove non si creano mai pericolosi assembramenti, a godere della compagnia degli alberi e delle piante che giorno dopo giorno si riempivano di foglie e di fiori. Abbiamo giocato a lungo a “un, due, tre stella!” nella versione personalizzata in maniera molto divertente da mia figlia di sei anni, o a “lupo mangia frutta”, ottimo per sgranchirsi le gambe rincorrendo il figlio di nove. Le poche relazioni che avevamo erano con alcuni vicini di casa, noi di qua e gli altri di là dalla siepe. Poi, pian piano, altri bambini e bambine del vicinato hanno iniziato a giocare negli spazi verdi sotto le nostre case. I bambini/e hanno rivalutato gli spazi sotto casa e se ne sono appropriati. Anche tra genitori si sono create amicizie più strette che hanno portato a piccole azioni di mutuo aiuto. A maggio, dopo le prime aperture, i bambini hanno preparato il campo con un paio di pannelli di legno e organizzato una guerra con delle pistole con proiettili morbidi intorno al nostro isolato, mentre le bambine stavano tranquillamente a conversare e a giocare. Nei giorni seguenti però hanno preferito tornare nel viale dei Bambini per ritrovare gli amici, scorrazzare in bicicletta e fare giochi di movimento.

Durante il mese di giugno mio figlio insieme a due suoi compagni di classe hanno iniziato a costruire, sotto casa nostra, un fortino cercando intorno ai cassonetti cuscini, mobiletti, cassette della frutta, una serranda rotta, un tappeto. Nel frattempo altri bambini si sono uniti. Era bello vedere le trasformazioni del fortino, l’aggiunta di nuovi elementi, l’invenzione degli arredi, alcuni anche molto funzionali. Hanno stabilito delle regole d’accesso al fortino: «dovevi essere agile, “rubare” e, se dimostravi di esser bravo, ti meritavi un tappo di una bottiglia. Con due tappi eri un capo. Dovevi esser d’aiuto a prendere le robe, a spostarle e trovare le cose che servivano», così mi ha spiegato mio figlio. Quel rubare voleva dire prendere le cassette della frutta dal furgoncino dell’Alia, l’azienda di smaltimento rifiuti, e portarle nel fortino. Hanno inoltre organizzato una colletta a offerta libera per comprare patatine e dolciumi, uno di loro è stato nominato cassiere.

Colin Ward scriveva come i bambini utilizzino per i loro giochi l’intero ambiente, che lo si voglia o meno. Chi ama l’infanzia non può non ammirare un gioco come questo e l’organizzazione che si danno i bambini «per via della loro irresistibile ingegnosità, per il modo sottile in cui inventano regole destinate più a dare a tutti un’opportunità che a esacerbare la competizione, come avviene invece nei giochi di squadra concepiti dagli adulti. E tutto questo richiede un equipaggiamento minimo […]. Inoltre sfruttano ogni elemento che l’ambiente urbano mette a loro disposizione» (Ward, 2018, p. 117). Il gioco del fortino col passare dei giorni si è esaurito, per quattro-cinque giorni nessun bambino si è più dedicato al gioco. Nel frattempo un’amica del quartiere ci dice che su un gruppo Facebook alcune persone stavano apprezzando il gioco dei bambini, mentre altre si stavano lamentando della «discarica a ciel aperto da diversi giorni. Qualcuno mi potrebbe spiegare perché?» Ward cita un passo molto bello di John Holt (1977) tratto da Bisogni e diritti del fanciullo. Fuga dalla prima età: «c’è sicuramente una grossa differenza emotiva tra l’esplorare una città o un paese in quanto territorio proibito [dagli adulti], oppure esplorarlo considerandolo il proprio quartiere che diventa progressivamente più vasto: la propria città, il proprio paese, il proprio mondo» (Ward, 2018, p. 140). L’infanzia è l’età del gioco e ogni sistema comunitario che lo ignora educa in maniera errata, sosteneva Alexander Neil (2012, p. 89). Forse dovremmo dedicare del tempo a osservare i giochi dei bambini e delle bambine nelle strade e nelle piazze, fermarsi a una certa distanza per osservarli meglio e non condizionarli con la nostra presenza e staccarsi per un po’ dai nostri dispositivi elettronici.

Niccolò Budini Gattai

Riferimenti bibliografici

Murray Bookchin (2018), La prossima rivoluzione, Pisa, BFS.

John Holt (1977), Bisogni e diritti del fanciullo. Fuga dalla prima età, Armando, Roma.

Alexander Neil (2012), I ragazzi felici di Summerhill, Milano, Red.

Colin Ward (2018), L’educazione incidentale, Milano, Elèuthera.