Introduzione a “Magia e tecnica” di Federico Campagna

Questa è l’introduzione al libro di Federico Campagna “Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà” che pubblichiamo per gentile concessione della casa editrice Tlon. Dello stesso libro e in questo stesso numero di “La Città Invisibile” troverete un articolo nato dalle suggestioni che la lettura ha provocato. Una recensione atipica che non parla soltanto delle cose scritte nel libro ma anche di tutte quelle che il libro ha fatto venire in mente all’autore del articolo. Sperando che Federico Campagna ci scusi per l’uso improprio del suo testo, vi affidiamo alle sue parole che molto probabilmente vi daranno un’idea più precisa dei suoi intenti.

INTRODUZIONE

Questo è un libro per chi giace sconfitto dalla storia e dal presente. Non è un manuale per trasformare la disfatta in un futuro trionfo, ma piuttosto una leggenda su un passaggio nascosto all’interno del campo di battaglia, che si dice conduca a una foresta al di là di esso.[1] Ho cominciato a scrivere questo libro nel tardo autunno del 2016, quando il riemergere delle tendenze fasciste si stava unendo alla devastazione ambientale e alle biopolitiche capitaliste nel triste Valhalla delle forze che danno forma al mondo. Negli anni precedenti avevo creduto che il catalogo delle atrocità del nostro tempo richiedesse una forma di intervento che fosse essenzialmente politica. Pensavo: se i cambiamenti necessari hanno a che fare con la forma delle nostre istituzioni sociali, allora essi devono avere luogo a quel livello. Bisogna cambiare la nostra organizzazione dell’economia, della politica e del discorso sociale. Il resto verrà di conseguenza – o almeno, così credevo. Poi, il dispiegarsi degli eventi e l’apparente impossibilità di mettere un freno, sia al disintegrarsi delle istituzioni che avevano arginato il ritorno delle atrocità novecentesche, sia al percorso palesemente suicida della devastazione ambientale, avevano cominciato a instillarmi un dubbio. Era come se la portata del possibile si fosse drasticamente ridotta e la nostra capacità di agire diversamente, o persino di usare l’immaginazione in modo diverso da quello già inscritto nel presente, fosse stata soffocata una volta per tutte. Come molti altri della mia generazione, anch’io vivo questa paralisi. Che prenda la forma di un’impotenza politica o di una psicopatologia personale, il clima oppressivo della nostra epoca sembra avere il medesimo impatto su tutti noi. Ma anche se il presente aveva poco da offrire a chiunque fosse interessato a promuovere quella che un tempo era chiamata “emancipazione”, forse il futuro ospitava ancora la possibilità di un cambiamento di là da venire. Come chiunque abbia dei figli, anche io non volevo dire addio alla speranza di una svolta planetaria, per quanto improbabile, che puntasse verso una direzione differente. E non volevo rinunciare alla convinzione, opinabile, secondo cui ogni individuo può sempre contribuire, per quanto marginalmente, a trasformazioni sociali su larga scala. Ma per quanto fossero ostinate, tali speranze non riuscivano a mettere a tacere i miei dubbi. Innanzitutto, mi chiedevo, che cosa dovrei farne di me stesso durante il cupo tragitto di questi tempi penultimi? E, in secondo luogo, è proprio vero che basterebbe una rivoluzione sociopolitica per cambiare il corso degli eventi? O non sarebbe forse necessario che cambiasse qualcos’altro, a un livello differente?

Questa duplice questione – l’ansia per il mio benessere personale e una curiosità teorica sui meccanismi generali del cambiamento – mi ha portato a considerare il problema da un’altra angolazione. Mi sono chiesto, allora, se il cambiamento non ci sembri oggi impossibile proprio perché esso è in effetti tecnicamente impossibile. Non è forse il caso che l’immaginazione, l’azione o anche soltanto la vita o la felicità ci sembrano impossibili, poiché esse sono davvero impossibili, almeno all’interno dell’attuale configurazione della realtà?

Entrambe le questioni puntavano verso un elemento che rappresenta il cuore e il fondamento delle impostazioni culturali/sociali/politiche/economiche di quest’epoca. Forse è a quel livello che definiamo implicitamente cosa sia il possibile o l’impossibile all’interno del nostro mondo. Forse è a quel livello che decidiamo cosa sia il nostro mondo. Nel linguaggio filosofico tradizionale, quello è il livello della metafisica: il luogo in cui viene discusso cosa significhi esistere, quali tipi di cose esistano legittimamente, in che relazione si trovino l’una con l’altra, e così via. Decidere sulla metafisica, cioè decidere sulla composizione fondamentale del nostro mondo, significa implicitamente stabilire che tipo di cose possano o non possano avere luogo in questo mondo. In un linguaggio meno specialistico, possiamo dire che è a quel livello che viene definita la “realtà” stessa.

Al cambiare dei parametri di esistenza nel mondo, e in particolar modo di quelli che regolano l’esistenza “legittima”, cambia anche la composizione del nostro mondo. Lo spettro del possibile prende una nuova forma – e con esso anche il campo del “bene”, che è l’etica, quello della politica, ecc.

Si potrebbe certamente ribattere che la metafisica dovrebbe essere una scienza esatta, come si ritiene che lo siano le scienze “dure”, quali la chimica o la biologia. Ma questa obiezione presupporrebbe una fede nella nostra capacità, in quanto esseri umani, di apprendere l’esistente come esso autenticamente è: di accedere ai “fatti” nella loro forma pura e incontaminata. E, inoltre, di poter traslare questi fatti immacolati all’interno dei parametri di un linguaggio descrittivo, come un corpo che venga disteso sul marmo di un obitorio in modo da poterlo sezionare e studiare per com’è davvero. Una tale aspettativa, rispetto alla nostra abilità di conoscere e comunicare con esattezza la realtà dei fatti, echeggerebbe la richiesta al Man with the blue guitar (“L’uomo con la chitarra blu”) nell’omonima poesia di Wallace Stevens.

Dissero: «Hai una chitarra blu,

non suoni le cose come sono».

L’uomo rispose: «Le cose come sono

cambiano sulla chitarra blu».

Allora dissero: «Ma suona, devi,

una musica oltre noi, eppure nostra,

una musica sulla chitarra blu

delle cose precisamente come sono».

Non posso davvero dar vita a un mondo,

benché lo rappezzi come posso.

Canto una testa di eroe, occhi grandi

e barba di bronzo, ma non un uomo,

benché lo rappezzi come posso

e tramite lui arrivi quasi all’uomo.[2]

Tutto quello che possiamo apprendere e comunicare tramite il linguaggio descrittivo – tipico della storia, dell’economia, della scienza, della cultura, e così via – ci giunge già-sempre formato da criteri esterni a esso. Kant sostiene che il filtro attraverso cui l’esistente deve passare per poter raggiungere la nostra percezione è indivisibile dalla nostra natura umana. È inevitabile, per esempio, che percepiamo le cose nello spazio-tempo – sebbene queste dimensioni non si trovino da nessuna parte nella realtà, per come essa è in sé. Al di là delle considerazioni di Kant, anche il linguaggio gioca un ruolo cruciale nella nostra percezione delle cose e del mondo. Solo una determinata gamma dell’esistente può essere trasmessa attraverso i mezzi linguistici, così come solo una gamma dello spettro dei colori può essere percepita dall’occhio umano.

Per quanto possa essere mirabolante l’evoluzione delle nostre protesi tecnologiche, ci saranno sempre cose e ombre che rimarranno immuni al linguaggio e al nostro rilevamento dei colori. Attenzione però: quest’ultima affermazione è, di per sé, un assioma metafisico, ovvero un criterio che suggerisco di porre al fondamento della nostra comprensione di ciò che esiste. Anche il criterio opposto, cioè quello della capacità illimitata del linguaggio e della sua tecnologia di afferrare la verità dell’esistenza, è un assioma altrettanto legittimo. Entrambi trovano la propria legittimazione in null’altro che in se stessi. Da quando Dio è morto, siamo rimasti da soli a decidere l’assiomatica della nostra comprensione del mondo. Dobbiamo preparare noi il terreno su cui potremo collocare un’architettura di senso che ci dia un mondo abitabile. Nel libro chiamo questi assiomi impostazioni di realtà: le decisioni, consapevoli o meno e storicamente specifiche, su quali criteri usare per fare i conti con la sconcertante esperienza di esistere da qualche parte, in qualche tempo.

Ho iniziato a pensare che a questo livello assiomatico, forse, avrei potuto rilevare la costituzione attuale del nostro mondo e l’odierna gamma del possibile. Ho provato a chiedermi: quali sono i presupposti metafisici che definiscono implicitamente la nostra architettura della realtà e che strutturano la nostra esperienza esistenziale contemporanea? Che cosa definisce la peculiarità essenziale del nostro tempo presente, contrapposto per esempio a epoche precedenti, popolate da fantasmi e dèi? Ho cominciato a cercare degli indizi, esaminando una sezione trasversale della cultura, della politica e dell’economia contemporanee, in particolare nella loro forma occidentale globalizzata. La domanda che mi guidava era soprattutto di natura metafisica: quali sono i presupposti metafisici necessari affinché certe forme culturali o economiche abbiano luogo? Che tipo di fede nell’esistenza o nella non-esistenza di certe cose è necessaria perché si sviluppi una certa combinazione di pratiche sociali? Quale ontologia è necessaria per giustificare gli obiettivi etici che sono impliciti in tante delle istituzioni sociali attualmente dominanti? E così via. Si potrebbero tradurre tali questioni anche in termini architettonici. Immaginiamo di imbatterci in un edificio misterioso su un pianeta appena scoperto e di voler indagare la sua particolare architettura. Ancora prima di cercare il nome dell’architetto alieno, ci chiederemmo: che genere di materiali e di forze è necessario per sostenere questo tipo di struttura?

Ma allo stesso modo in cui un certo tipo di architettura necessita di un particolare insieme di materiali, così anche un certo tipo di materiali sembra implicare una selezione particolare di architetture possibili. Mentre continuavo a esplorare i presupposti metafisici a fondamento della forma del presente, ho cominciato a notare come al loro interno sembrasse inscritta, come una sorta di destino, una particolare forma di realtà e di mondo. La mia ricerca ha così preso una svolta morfologica: ero interessato non più soltanto al materiale grezzo di cui è costituito il nostro mondo contemporaneo, ma anche al destino che è specifico di questo tipo di mondo. Potremmo chiamare questo destino la forma cosmologica del mondo.

Ogni sistema metafisico è un insieme di decisioni sul modo migliore di dare ordine al caos della mera esistenza: è la forma di un particolare universo o cosmo. Cosmologia, il “discorso intorno all’ordine del cosmo”, mi è sembrato allora un termine più adatto, rispetto alla semplice metafisica, per definire l’oggetto della mia ricerca.[3] Come tutti i buoni miti ci insegnano, sotto ogni cosmologia c’è una cosmogonia: il processo di creazione di quel particolare universo. Ed è qui, al livello della cosmogonia, che i vari aspetti della mia ricerca finalmente hanno iniziato a fondersi. A questo livello, forse, avrei potuto riunirli nella cornice narrativa di una “storia plausibile” – un eikos mythos, come Platone fa definire a Timeo il proprio racconto cosmogonico.[4]

La mia “storia plausibile” si svolge come segue. Il carattere della nostra esperienza esistenziale contemporanea suggerisce la presenza di un certo ordine all’interno del mondo e di noi stessi in esso. Questo ordinamento si manifesta superficialmente come sociale, politico, economico, ecc., mentre di fatto deriva da un insieme di assiomi metafisici fondamentali. Questi assiomi si combinano in un sistema complessivo, che è il sistema di realtà della nostra epoca. Un sistema di realtà plasma il mondo in un certo modo e gli conferisce un particolare destino: esso è la forma cosmologica che definisce un’epoca storica. Al contempo, esso è però anche una forza cosmogonica: le sue impostazioni metafisiche e i suoi parametri creano effettivamente il mondo – se per “mondo”, come il greco kosmos o il latino mundus, intendiamo il risultato di un atto che mette ordine nel caos. Ecco l’aspetto mitologico del mio eikos mythos. È possibile, almeno narrativamente, presentare questa forza cosmogonica come un qualcosa la cui attività di costruzione del mondo è implicita nella sua struttura interna. In questo libro chiamo la forma cosmogonica della nostra età col nome di “Tecnica”.

Nel corso del secondo capitolo proverò a offrire una possibile anatomia della Tecnica, descrivendo le differenti parti che la compongono e che rappresentano le principali impostazioni di realtà del nostro tempo. Non si tratta, in questo caso, di un normale sistema di realtà, dato che una delle sue principali caratteristiche è che esso comporta una disintegrazione della realtà in quanto tale. Questa disintegrazione della realtà – che verrà discussa nell’intermezzo tra il secondo e il terzo capitolo – spiega la natura nichilistica della Tecnica. Tale nichilismo metafisico è il destino che la Tecnica inscrive nel proprio mondo. Lo si ritrova in forma pura nel cuore stesso della Tecnica, come il principio del “linguaggio assoluto”. Nel corso della mia analisi della cosmogonia della Tecnica, il linguaggio assoluto assumerà il ruolo di primo principio: il livello più interno, da cui tutti gli altri aspetti della Tecnica vengono emanati come luce da un sole inesorabile. In linea con il tentativo di svolgere la mia analisi in forma narrativa, quasi mitologica, ho scelto di prendere in prestito dalla filosofia neoplatonica l’uso di “ipostasi” per descrivere i vari livelli che compongono la forma complessiva della Tecnica. Ogni ipostasi agisce come una forza secondaria, che definisce uno strato specifico nella complessiva architettura cosmogonica attraverso cui la Tecnica struttura il proprio mondo. Ancora più mitologicamente, ho accostato a ogni ipostasi una “incarnazione archetipica”: una figura tratta dal nostro mondo quotidiano, che incarna le qualità principali di un particolare livello della Tecnica.

E tuttavia, la Tecnica è solo una possibile forza cosmogonica e solo una tra le tante forme di realtà possibili. Non c’è dubbio che goda oggi di uno status egemonico, e che sia proprio lei a formare il mondo e l’esperienza esistenziale di milioni di nostri contemporanei – ma questo non la rende in nessun modo meno contingente di ogni altra forma di realtà possibile. La seconda parte del libro sviluppa questa consapevolezza della mera contingenza della cosmologia della Tecnica, verso l’immaginazione di un mondo differente, basato su diverse impostazioni della realtà. Se l’architettura metafisica del mondo della Tecnica ha immiserito e addirittura annichilito la nostra esperienza esistenziale, sta a noi immaginare un nuovo insieme di principi di realtà che permettano l’emergere di una nuova gamma di possibilità.

È necessario a questo punto un chiarimento: il mio non è un tentativo di fornire il piano per un processo globale di rinnovamento della realtà. Questo libro non è un manifesto politico, né una chiamata alle armi. Più modestamente, è un promemoria del fatto che i sistemi di realtà sono soltanto conglomerati contingenti di assiomi metafisici, la cui modificazione rimane sempre aperta e possibile. Anche quando la storia ci paralizza e ci dichiara impotenti, possiamo comunque modificare le nostre personali impostazioni di realtà al di là dei diktat del nostro contesto sociale. Questo volume è pensato per tutti coloro che giacciono sconfitti, nel senso più tragico e completo, dalla storia e dal presente. A prescindere dalle circostanze storiche in cui ci si trova a vivere, e per quanto non si possa avere alcuna speranza di bilanciare le forze su scala macroscopica, restiamo sempre in grado di modificare le nostre impostazioni di realtà – fornendoci così di una realtà differente, di un mondo differente e di una diversa esperienza esistenziale al suo interno. Tutto ciò è pura illusione? Né più né meno di quanto lo sia una qualsiasi altra realtà o altro mondo che sia sufficientemente egemonico da imporre le proprie istituzioni sociali e metafisiche in un certo periodo storico.

È già necessario un secondo chiarimento: non sto proponendo di rinunciare a ogni coinvolgimento nelle attività mondane e nella politica. Sto indicando piuttosto due direzioni, una prepolitica e una postpolitica. L’accettazione di un certo sistema di realtà invece che un altro va a definire quali politiche sociali si ritiene che rientrino nell’ambito del possibile. Cambiare sistema di realtà è un requisito prepolitico cruciale per ogni ripensamento radicale della nostra vita politica e sociale. Ma il mio tentativo principale non è tanto di porre il terreno per una futura trasformazione sociopolitica, quanto di offrire un piano di emergenza che sia immediatamente utile a chi vive, adesso, nel peggiore scenario possibile. La mia preoccupazione maggiore è: com’è possibile continuare a vivere una vita dignitosa, quando sembra che ci sia stato portato via tutto? Questo libro suggerisce una possibile terapia alle malattie storiche che ci affliggono, oggi, come hanno afflitto e affliggeranno moltissimi altri prima e dopo di noi: precisamente, alla malattia di dover vivere all’interno della storia.[5]

Ho chiamato “Magia” quel percorso metafisico/terapeutico che consente di abbracciare un particolare sistema di realtà alternativo. Ancora una volta, si tratta di un tropo mitologico. Così come ho personificato il sistema di realtà attuale nella “Tecnica”, allo stesso modo ho chiamato “Magia” la cosmologia alternativa che vorrei proporre. Né la Tecnica né la Magia sono “cose” che possiamo incontrare fisicamente – assomigliano piuttosto a quegli “iperoggetti” descritti dal filosofo Timothy Morton come entità massicciamente distribuite eppure percepibili solo attraverso il segno che lasciano sul mondo.[6] Ho preferito definirle entrambe come “forze cosmogoniche”, quasi fossero divinità che potrebbero comparire nel poema mitologico di Esiodo. In un certo senso ho preso in prestito il metodo usato da Giordano Bruno nella sua opera del 1586 Lampas triginta statuarum – dove ogni principio cosmologico viene identificato con una “statua” e ogni raggruppamento di statue con personaggi mitologici originali quali Caos, Bestia, Notte, Luce e così via. Come afferma Bruno:

Tutte le cose possono essere agevolmente raffigurate in forma di statue, in quanto è possibile esplicare secondo ordine tutti i loro modi di essere certe configurazioni ipostatiche.[7]

Ho anche assegnato implicitamente una specifica geografia a ognuna di queste due forze cosmogoniche – per quanto si tratti, ancora una volta, di una geografia mitologica e metaforica piuttosto che fisica. La Tecnica rappresenta lo spirito di una forza del Nord, e infatti nei primi due capitoli, che le sono dedicati, si farà riferimento quasi esclusivamente a pensatori dell’Europa settentrionale. La Magia, al contrario, appartiene all’area del Mediterraneo. Ma si tratta di un Mediterraneo diverso da quello che incontriamo nelle mappe. Il secondo e il terzo capitolo (dove vengono analizzati la cosmogonia e il mondo della Magia) includeranno riferimenti che spaziano dall’Andalusia di Ibn Arabi all’India di Adi Shankara, passando per la Persia di Mulla Sadra. Come la Grecia “interiore” di James Hillman,[8] il mio Mediterraneo è più un luogo di immaginazione che un prodotto della cartografia. Il Mediterraneo della Magia e il Nord della Tecnica assomigliano a quelle città sacre che Henry Corbin colloca al livello del “mondo immaginale” (mundus imaginalis), dove le cose diventano forze e le idee si fanno modelli della nostra esistenza nel mondo. In questo senso il sistema di realtà della Magia non è “un’utopia”, ma piuttosto una forza che vive nel Nâ-Kojâ-Abâd, la “terra del non-dove”, che secondo il filosofo persiano Suhrawardi è sempre presente accanto al nostro mondo materiale, seppure invisibilmente.[9] Il Mediterraneo è una forma di realtà che echeggia solo metaforicamente i modi di vivere storicamente emersi lungo le coste dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia. Il mio Mediterraneo è una vasta area dello spirito che, come il mare a cui si richiama, sfida e trascende le divisioni linguistiche imposte dalla cultura e dalla politica essoterica (cioè pubblica, descrittiva).[10] È un’area di migrazioni e contaminazioni, dove la luce del sole non rivela soltanto le categorie e le qualità produttive delle cose, ma prima di tutto la loro dimensione ineffabile. Come l’ora del mezzogiorno in estate, il Mediterraneo che evoco è infestato da una temporalità innominabile, al di là delle unità di misura del tempo e dei libri di storia.[11]

La nozione di “ineffabile” costituisce il principio primo e originale all’interno della cosmogonia della Magia – in opposizione speculare al principio del “linguaggio assoluto” della Tecnica. La dimensione ineffabile dell’esistenza sfugge alla cattura da parte del linguaggio descrittivo e, di conseguenza, resiste a qualunque tentativo di metterla al “lavoro” – sia nelle serie di produzioni economiche che in quelle della cittadinanza, della tecnologia, della scienza, dei ruoli sociali e così via. Com’è stato recentemente notato da Massimo Donà:

Il pensiero magico vive tutto e sempre nello “scarto iniziale” di un processo cui mai sarà dato comprendersi in modo davvero completo. Magico è dunque il pensiero consapevole dell’eccedenza che sta alla base di ogni tappa del proprio pro-cedere; consapevole cioè dell’origine non ancora originante che ogni originato presuppone, senza farsi per ciò stesso suo necessario “effetto”.[12]

L’ineffabile dimensione dell’esistenza – che descriverò in quanto “vita” – emana a sua volta una serie di ipostasi che vanno a strutturare la realtà, in maniera simile e opposta a quanto accade con la Tecnica.

La specularità, o il rispecchiamento, tra i sistemi di realtà della Magia e della Tecnica percorre e struttura tutto il libro. Ho concepito questo volume come uno specchio pieghevole, in cui il primo e l’ultimo capitolo e i due centrali sono riflessi speculari l’uno dell’altro. Il primo capitolo “Il mondo della Tecnica” è il riflesso negativo del quarto, “Il mondo della Magia”. Allo stesso modo il secondo capitolo “Cosmogonia della Tecnica” è l’opposto speculare del terzo, “Cosmogonia della Magia”. Più nel dettaglio, le ipostasi specifiche delle cosmogonie di Magia e Tecnica sono poste in una relazione speculare e opposta: il primo principio di un sistema riflette ed è l’opposto dell’ultima ipostasi dell’altro sistema e viceversa, e così per ogni livello. A fare da cerniera tra le due superfici di Tecnica e Magia ho posto il breve intermezzo “Cos’è la realtà?”, dove cerco di chiarire la mia comprensione della realtà come tale e i meccanismi che regolano il suo funzionamento – indipendentemente dal fatto che siano modellati dalla Tecnica, dalla Magia o da qualunque altra forza cosmogonica. Mentre il resto del libro mira a funzionare da strumento terapeutico, la sezione-cerniera al suo centro cerca di sistematizzarne la principale proposta metodologica.

Prima di concludere questa introduzione, vorrei ringraziare le persone che mi hanno aiutato a scrivere il libro. Un ringraziamento speciale va a Giuseppina Sciurba e a Luciano Campagna per il loro aiuto eccezionale con la revisione dell’edizione italiana del libro. Grazie a Teodora Pasquinelli per avermi accompagnato durante tutte le fasi di scrittura e per avermi aiutato a chiarire diversi concetti e scelte stilistiche. Grazie anche al professor Gaitanidis per il suo decisivo supporto durante il lavoro di scrittura. Grazie alla casa editrice Bloomsbury per aver creduto nella mia proposta e in particolar modo al mio editor Frankie Mace – e grazie a Edizioni Tlon per aver voluto tradurre il libro in italiano. Grazie ai peer reviewer per i loro commenti e ai miei cari amici Franco Berardi, Saul Newman, Adelita Husni-Bey, Manlio Poltronieri e Francesco Strocchi per il loro supporto e i suggerimenti. Grazie infinite al mio amico Timothy Morton per avermi onorato con la sua prefazione. Grazie alla mia famiglia, come sempre, e a Rain Wu veramente per tutto. Infine, grazie a mio figlio Arturo per confermarmi ogni giorno che, nonostante la sua desolazione, il mondo ospita ancora un meraviglioso tesoro.

  1.  «Siamo ripiombati in una di quelle epoche che al filosofo non chiedono né di spiegare né di trasformare il mondo, ma unicamente di costruire rifugi contro l’inclemenza del tempo» (N. Gomez Davila, In margine a un testo implicito, Adelphi, Milano 2015, p. 28).
  2.  W. Stevens, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2015.
  3.  L’ispirazione dietro questa decisione stilistica viene, in parte, da C. Sini, Raccontare il mondo. Filosofia e cosmologia, Cuem, Milano 2001.
  4.  Cfr. Platone, Timeo, 29d. Sull’interpretazione dell’eikos mythos nel Timeo platonico, cfr. M.F. Burnyeat, Eikos Mythos, in «Rhizai», 2, 2005, pp. 7-29; G. Reale, “Introduzione”, in J.N. Findlay, Platone: le dottrine scritte e non scritte, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. xxiv-xxv; E. Berti, “L’oggetto dell’eikos mythos nel ‘Timeo’ di Platone”, in T. Calvo, L. Brisson, Interpreting the Timaeus-Critias, Academia, Sankt Augustin 1997, pp. 119-131.
  5.  Voglio seguire il Mr. Cogito di Z. Herbert, il quale «accetterà un ruolo da comprimario / non indugiando nella storia» (Mr Cogito’s Game, in Z. Herbert, The Collected Poems, Atlantic Books, London 2014, p. 328), in particolare per evitare la brutalità della storiografia descritta da Herbert in Sequoia: «Uno spaccato di un albero il tronco ramato dell’Occidente / con anelli immisurabili e regolari come i cerchi nell’acqua / e una venatura trasversale che uno sciocco scrisse in date di umana storia / […] L’albero di Tacito fu un ispettore che non aveva aggettivi / nessuna sintassi che esprimesse terrore non conosceva nessuna parola / così contò gli anni accumulati e i secoli come se dovesse dire / nient’altro che nascita e morte nient’altro che nascita e morte / e all’interno la polpa sanguinolenta della sequoia» (Sequoia, ivi, p. 296). Nel far ciò, voglio in parte esprimere sostegno anche per l’attitudine espressa da Adam Zagajewski, quando scrive: «Un giorno le scimmie presero il potere / […] Non lo notammo, poiché eravamo intenti ad altre occupazioni: chi leggeva Aristotele, chi proprio allora viveva un grande amore. / […] Le scimmie, a quanto pare, avevano preso il potere» (Le Scimmie, in A. Zagajewski, Dalla vita degli oggetti, Adelphi, Milano 2012, p. 100), seppur con alcune riserve discusse nell’introduzione.
  6.  Cfr. T. Morton, Iperoggetti, Not, Roma 2018.
  7.  G. Bruno, Lampas triginta statuarum, in Opere Magiche, Adelphi, Milano 2000, p. 1393.
  8.  «Questa “Grecia” rimanda a una regione psichica storica e geografica, a una Grecia fantastica o mitica, a una Grecia interiore della mente che è soltanto indirettamente connessa con la geografia e la storia effettive» (J. Hillman, Saggio su Pan, Adelphi, Milano 1977, p. 15).
  9.  Cfr. S. Suhrawardi, A Tale of Occidental Exile, in The Mystical and Visionary Treaties, Octogon Press, London 1982, pp. 100-108; cfr. anche H. Corbin, Nell’Islam iranico: aspetti spirituali e filosofici. Sohrawardi e i platonici di Persia, vol. 2, Mimesis, Milano 2015.
  10.  La mia concezione di Mediterraneo richiama anche la figura del dio greco-egizio Serapide, invenzione poetico-religiosa del iii secolo a.C. creata da Tolomeo i d’Egitto. Come quella di Serapide, la mia idea di Mediterraneo è una finzione mitopoietica che desidera integrare diversi fili di pensiero attraverso una forma di sincretismo che presenti delle forti connotazioni esoteriche. Per un’interpretazione accademica della figura di Serapide cfr. J. Campbell, “Serapis: The Universal Mystery Religion”, in The Mysteries: Papers from the Eranos Yearbook, Princeton University Press, Princeton 1978, pp. 104-115. Dove non diversamente specificato, la traduzione delle citazioni è a cura dell’autore. [N.d.R.]
  11.  In un certo modo richiama alla mente la Sicilia di Zagajewski: «Navigavamo nella notte lungo le ombrose, / misteriose coste. Le grandi foglie dei promontori fluttuavano lontano / pigre come i sogni di un gigante. / Le onde si frangevano sul legno della barca, / baciava le vele un vento caldo, / le stelle alla rinfusa / cercavano di narrare la storia del mondo. / Questa è la Sicilia, sussurrò qualcuno, / la Trinacria, il respiro della civetta, / il sudario dei morti» (A. Zagajewski, Questa è la Sicilia, in op. cit., p. 130).
  12.  M. Donà, Magia e filosofia, Bompiani, Milano 2004, p. 173.

Federico Campagna è filosofo e scrittore.
Ha trascorso più di vent’anni a Milano, dove è stato attivo nelle reti anarchiche/autonomiste e ha co-fondato il collettivo di poesia di strada Eveline. Nel 2007 si trasferisce a Londra, dove vive. Nel 2009 ha iniziato una collaborazione a lungo termine con il filosofo dell’Autonomia italiana Franco Berardi ‘Bifo’. Nello stesso anno ha co-fondato la (ora defunta) piattaforma multilingue per la teoria critica attraverso l’Europa.
Gli ultimi libri di Federico sono Prophetic Culture: recreation for adolescents (Bloomsbury: 2021), Technic and Magic: the reconstruction of reality (Bloomsbury, 2018), and The Last Night (Zero Books, 2013)
Federico ha un dottorato di ricerca presso il Royal College of Art di Londra, con una tesi su Metaphysics and Metaethics in the Design of Strategy Video Games
(disponibile qui ) ; ha un Master e una Laurea in Economia e Management delle Arti presso l’Università Bocconi di Milano e un Master in Studi Culturali presso la Goldsmiths University di Londra. Lavora come docente e tutor nel MA NonLinear Narrative presso KABK (Koninklijke Academie van Beeldende Kunsten), Den Haag , Paesi Bassi, e come direttore del dipartimento per i diritti di Verso Books.
È l’ospite del podcast Overmorrow’s Library , prodotto dal Centre d’Art Contemporain Genève.
È il philosopher in residence al Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli (Torino) per l’anno 2022.