Divinità e supermercati: lezioni di sostenibilità dai popoli indigeni

Consumo e risorse, un equilibrio precario. Nelle società capitaliste i consumi crescono a velocità spaventosa, mentre aumenta il divario con le risorse che li dovrebbero sostenere. La razionalità suggerirebbe di percorrere la strada della riduzione dei consumi, ma il paradigma capitalista non permette l’applicazione di questa banale logica. Al contrario il consumismo è proposto come modello di sviluppo, pure se divoratore cieco delle scorte di risorse che per il genere umano, e non solo, significano il futuro. In altre parole un sistema economico creato dagli uomini sta distruggendo le condizioni di vita degli uomini. Un corto circuito che pare non preoccupare né chi lo impone né chi lo riproduce. Certo, si parla di sostenibilità e di consumo sostenibile, parole che trovano declinazione e attuazione politica con estrema difficoltà.

Viene allora da chiedersi: Perché non riusciamo ad autoridurre il consumo? Che paradigma nuovo possiamo proporre, conciliabile con il nostro attuale ma rivolto alla conservazione o almeno alla riduzione dello sfruttamento delle risorse? La qualità della nostra vita davvero sarebbe così critica se cominciassimo a riconsiderare i rapporti tra gli uomini e i sistemi naturali? Davvero non abbiamo nulla da imparare dai popoli che per tanto tempo abbiamo disprezzato perché considerati, con arroganza, “non sviluppati”?

Difficile dirlo ma possiamo allargare il nostro sguardo, in considerazione di alcuni dati di fatto. I cosiddetti popoli indigeni, secondo la definizione del 1982 della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, sono “Comunità, popoli e nazioni indigene che, avendo una continuità storica con società precoloniali che si svilupparono sui loro territori prima delle invasioni, si considerano distinti dagli altri settori della società che ora sono predominanti su quei territori, o su parti di loro. Essi formano, attualmente, settori non dominanti della società e sono determinati a preservare, sviluppare e trasmettere alle future generazioni i loro territori ancestrali e la loro identità etnica quali basi della loro perdurante esistenza come popolo, in accordo con i propri modelli, istituzioni sociali e sistemi legislativi”.

Si calcola che la percentuale di popoli nativi rispondenti alla definizione, sparsi in tutto il globo, si aggiri intorno al 4-5 di quella mondiale, ma che detengano tra l’80 e il 90% della biodiversità, naturale e culturale, del pianeta. Come si interpretano questi dati? Le conclusioni portano a indicare come i popoli indigeni siano più bravi a operare sostenibilità, tutelando la natura e le sue risorse. Altra considerazione che ne consegue è che la maggior parte della popolazione mondiale presenta un grado altissimo di omologazione culturale. Tradotto in termini semplici, le società culturalmente ed economicamente egemoniche consumano, sfruttano, inquinano, distruggono, deforestano, producono rifiuti in enormi quantità e anidride carbonica in modo insensato, mentre a quelle che hanno cura dell’ambiente in cui vivono, che rispettano le regole naturali sfruttando le risorse in modo sostenibile, è affidato ormai il ruolo di “custodi” della natura.

Non si tratta di sviluppare una visione “romantica” dello stato di natura, e nemmeno soltanto di stabilire regole che proteggano gruppi umani sempre più minacciati nei loro diritti di sopravvivenza in favore del profitto ricavabile dai loro territori. Rifiutiamo anzi l’immagine, tutta nostra, di liberi e felici società incorrotte, armoniosamente integrate nel loro ambiente naturale, vicine alla natura e immuni dalla cultura corruttrice occidentale, perché l’approccio al problema non deve essere di tipo emozionale ma drammaticamente culturale e politico. Una società che ha declinato il ruolo dell’uomo con l’ambiente come asservimento e diritto allo sfruttamento selvaggio per la produzione di beni e di denaro, è destinata al fallimento. La società postindustriale dell’occidente ha messo l’uomo al centro del mondo, la tecnologia consente di creare le condizioni di vita agiata anche in caso di avversità naturali, in modo tuttavia sempre più instabile. Iperproduzione e capitalismo sono i primi responsabili del disastro ambientale, come riportato perfino dall’enciclica “Laudato si”, scritta nel 2015 da Papa Francesco.

Il tema della sostenibilità non può dunque prescindere dai comportamenti mentali e operativi, traendo ispirazione da quelli maggiormente virtuosi. Come entrare in contatto e quale utilità reciproca possono formulare i vari modelli di sviluppo culturale? È questa una delle nuove tematiche che stanno sempre di più coinvolgendo anche gli antropologi.

Un giorno un amico mi raccontò di essere stato molti anni fa in Chitral, Pakistan, presso una popolazione isolata geograficamente, i Kalasha. Il paesaggio era incantevole, le valli verdeggianti e paradisiache, tutto era splendido e le persone che vivevano lì erano ospitali e gentili. Il mio narratore e un amico che lo accompagnava scoprirono un fiume pescosissimo e cominciarono a pescare. I pesci abboccavano facilmente e i due, esaltati da tanta abbondanza, ne catturarono moltissimi. Si trovarono improvvisamente circondati da facce minacciose e arrabbiate che gli intimarono di rimettere in acqua i pesci e gli chiesero: siete in due, perché avere pescato tanto pesce, che non vi serve? State sfidando la divinità dei fiumi, che si arrabbierà.

Consumismo e sostenibilità. Si trattava di uno scontro culturale tra chi accumula scorte inutili credendo di poter approfittare di un’abbondanza gratuita e chi prende il cibo che la natura offre loro in modo misurato, con rispetto.

La gran parte delle culture che vive a contatto con la natura e le sue risorse, e ne dipende perché tecnologicamente poco attrezzata a contrapporsi alle difficoltà che ne possono derivare, finisce per sviluppare un rapporto spirituale con il sistema naturale. La potenza dei fenomeni della natura conferisce alle divinità che la rappresentano una forza straordinaria, di cui la comunità può giovarsi per sentirsi protetta e in sicurezza.

Presso alcune comunità siberiane il sistema tradizionale prevede riti di propiziazione, scuse e pantomime per ottenere benevolenza dagli spiriti della natura. Quando ad esempio viene ucciso un orso, che è una delle raffigurazioni della divinità della montagna, le comunità si adoperano per spiegare che i colpevoli vanno cercati al di fuori o che l’orso è morto per incidente. La divinità potrebbe sentirsi offesa e vendicarsi scatenando terribili tempeste di neve. Prima di tagliare un albero per servirsi della legna viene chiesto il permesso e il perdono per l’atto, giustificandone il motivo. Lo stesso fanno gli Ainu nell’estremo nord giapponese che, temendo le ire, dedicano alle divinità bastoncini intagliati con i simboli a loro dedicati, messaggeri tra uomini e dei. Vivendo in un territorio dal clima estremo, freddissimo in inverno, dove la natura domina completamente la scena, incontrollabile e immane, si impone la necessità di ottenerne la benevolenza. Ogni aspetto della vita degli uomini ha per loro una divinità responsabile, alla quale si deve rispetto. La natura, chiamata Iwal, è la madre che fornisce cibo ed energia. Ainu-Puri è la pratica quotidiana che salda la profonda amicizia dell’uomo con la natura, per la conservazione di un equilibrio perfetto. Gli animali, le piante, e perfino i sassi e le rocce sono per loro le divinità che hanno preso forma per controllare e vegliare sul comportamento della comunità.

Gli aborigeni australiani cacciano esclusivamente la quantità indispensabile per nutrirsi. La loro concezione del mondo deriva dal sogno (dreaming), vale a dire la creazione ad opera degli Spiriti Antenati che un tempo vennero sulla terra come umani, e che muovendosi su di essa avrebbero prodotto tracce, ora individuabili negli animali, nei fiumi, nei monti, nelle piante, nell’ambiente naturale nel suo complesso. Gli spiriti risiederebbero ancora nell’ambiente naturale, che dunque significa per gli aborigeni la definizione stessa della loro origine. La comunità che non segue le regole rituali del sogno trasforma la natura in qualcosa di crudele e la sua vendetta ricade su tutta la comunità.

Gli Yanomami della foresta amazzonica usano la parola Urihi, (traducibile con foresta-terra), per indicare tutte le forme di vita nella foresta, naturali, animali e umane. Urihi ha la voce della foresta dove il creatore degli Yanomami li ha collocati affinché uomini e foresta si prendano cura reciprocamente. La violenza contro Urihi rappresenta la violenza contro l’ambiente e contro la vita di ogni essere, animato e inanimato. Presso alcune etnie in Africa, alcune regole di “sostenibilità”, come le chiamiamo noi, vengono dagli spiriti degli antenati, a volte evocati per la consultazione sull’opportunità delle scelte degli uomini. E gli esempi sono tanti, come tante sono le comunità che, nei diversi continenti, vivono contesti sostenibili.

Come vediamo, ciò che potrebbe concorrere a promuovere un rapporto tra ambiente e uomo è riassumibile in due parole: rispetto e timore. La nostra ricca ed evoluta società ha dimenticato il rispetto e non conosce più la paura. La natura è quasi scomparsa dalla nostra complessità spirituale, abbiamo perso il contatto, se non per servircene a piacimento, sottomettendola. L’uomo è proprietario delle risorse naturali, le sfrutta a volontà e non teme né conseguenze né vendette. Dov’è finita la paura? Certo, è difficile avere paura o avvertire un timore reverenziale al supermercato! Siamo incoraggiati a inutili scorte, senza riuscire a chiederci quali torti siano stati fatti al sistema naturale per ottenere quella quantità spropositata di prodotti accattivanti sugli scaffali. Sappiamo che ci sono inquinanti allevamenti intensivi che producono carne in modo sovrabbondante rispetto al bisogno nutrizionale umano, oltre a infliggere torture agli animali. Mangiamo carne piena di ormoni, pesce allevato con antibiotici, verdure piene di pesticidi. Non abbiamo paura nemmeno di questo. E quando le scorte di cibo che abbiamo accumulato nei nostri raid al supermercato finiscono nella spazzatura pensiamo allo spreco in termini più economici che ambientali. Ciascuno di noi avrebbe la possibilità di autolimitarsi ma, al massimo, releghiamo i percorsi di sostenibilità ambientale e di preservazione della biodiversità alle popolazioni native nella foresta o tra i ghiacci o chissà dove.

In fondo siamo consapevoli che il paradigma capitalista è distruttivo ma siamo rassegnati all’idea che un cambio culturale è un processo molto lento e, probabilmente, perdente. Possiamo però prestare l’orecchio alle voci dei popoli indigeni che da anni denunciano le politiche di conservazione dell’ambiente naturale. Chissà che i loro saperi e le loro tradizioni millenarie non possano offrire suggerimenti alle cosiddette società avanzate su come salvarsi dalle piaghe che ci colpiscono, come inquinamento, effetti del surriscaldamento climatico, spreco alimentare, sfruttamento e aumento della povertà.