Coalizione TESS: idee per un piano di transizione energetica

  • Tempo di lettura:10minuti

Nel mese di ottobre la coalizione Tess (Transizione energetica senza speculazione) ha presentato il documento Per un piano nazionale di transizione energetica a zero consumo di suolo che si può leggere qui.

Fanno parte di Tess un numero impressionante di associazioni e comitati (qui l’elenco). E’ importante sapere che hanno aderito a Tess gran parte delle forze che guidano la resistenza all’occupazione industriale con aerogeneratori giganti e strade annesse dei crinali appenninici e della Maremma e contro immensi impianti di agrivoltaico della Maremma e di altre campagne, e tra queste forze il Comitato Crinali Liberi mugellano e la sezione di Italia Nostra di Firenze.

Tess è presente soprattutto nell’Italia centrale e meridionale, il suo radicamento attuale va considerato in parallelo con quello, per esempio, del movimento Confluenza, che invece ha le sue radici primarie in Piemonte, e che è mosso da motivazioni simili: cioè evitare che la necessaria transizione dalle fonti energetiche fossili alle rinnovabili coincida con un nuovo ciclo di devastazione del territorio al servizio di interessi privati colonizzatori e, invece, andare nella direzione opposta, quella di rispettare la naturalità residua e il paesaggio e democratizzare la questione energetica.

Oggi la forza degli investitori privati, oltre che nella disponibilità di capitale, nelle dottrine neoliberiste, negli agganci politici, nella normativa delle autorizzazioni più volte modificata a scapito delle leggi di tutela del territorio, sta in una narrazione molto sicura di sé. E’ una narrazione tecnofila, e facile da veicolare, che attribuisce quasi solo al successo delle tecnologie energetiche, digitali, minerarie ecc. (di cui una parte non ancora esistenti) la capacità di rispondere all’aumento di CO2 in atmosfera, senza rinunciare alla crescita, anzi rilanciandola proprio grazie agli investimenti “verdi”. Questa narrazione mette in ombra la complessità della questione ecologica, dimenticando la lista dei limiti planetari che l’umanità sta superando, e propone anzi un di più di artificializzazione del pianeta.

Questo apparato ideologico non è solo un accompagnamento sullo sfondo, anzi è tradotto in normativa che scende dall’alto in basso, dalla Commissione Europea giù fino all’ultimo Comune e ormai fa parte integrante della routine burocratica che regola le dichiarazioni ufficiali di “utilità pubblica” dei progetti e avvia gli espropri. Per questo motivo quando si annuncia un progetto impattante su un territorio, alla sorpresa angosciosa succedono per forza l’opposizione e la riflessione insieme, e la vicenda locale assume così rapidamente una dimensione più generale, di scontro tra due visioni scientifiche, tecniche, economiche ed etiche della crisi ecologica e delle risposte da dare.

La prima visione, quella degli investitori, sembra già validata dalla maggioranza delle strutture della tecnoscienza e tradotta in risposte lineari, in realtà è piuttosto il frutto del pensiero ristretto degli economisti neoliberali che per esempio dominano per ora il terzo gruppo di lavoro dell’IPCC (International Panel on Climate Change).

L’altra visione invece è ancora vulcanica, resistenziale e da sviluppare. Infatti ottime idee generali alternative a quelle degli speculatori nascono sì spontaneamente dall’intelligenza delle persone coinvolte in queste esperienze, ma proposte di piani veri e propri, articolati e scientificamente dimostrati, potenzialmente operativi a livello più ampio, non potrebbero essere prodotte da un singolo comitato nemmeno se fosse tutto composto di scienziati.

Così anche il movimento di resistenza alla speculazione cerca di crescere non solo in quantità, facendo rete, ma in qualità, e questo significa che cerca di dotarsi dotarsi di strumenti conoscitivi, idee e progetti per la risposta al problema climatico, ma anche al problema ecologico più generale (infatti una delle caratteristiche degli speculatori è quella di separare in modo non innocente la questione climatica dagli altri aspetti della crisi ecologica). In queste crescita di reti e insieme di idee si inserisce il documento di cui stiamo parlando prodotto ora da Tess e che cercherò almeno in parte di presentare e commentare.

Documento che non è ancora, sia ben chiaro, un piano energetico, o meglio un piano nazionale di transizione energetica vero e proprio, ma un materiale preparatorio che definisce una direzione strategica.

E vediamone i contenuti principali.

Il documento di Tess propone un piano di transizione energetica verso lo scenario 2030 previsto dal PNIEC a “consumo di suolo zero”, fondato sull’impiego diffuso del fotovoltaico su superfici già artificializzate (tetti, aree dismesse, cave, infrastrutture) e sulla promozione di comunità energetiche. Questo schema non è certo nuovo in linea generale, sono queste le proposte che si sentono agitare da anni nell’ambito dei movimenti e di quelle associazioni ambientaliste che, a differenza di Legambiente, non hanno sposato la causa dell’eolico e del fotovoltaico dappertutto, quindi l’originalità e la credibilità del piano (o meglio del progetto di piano) di Tess va valutata soprattutto sulla base delle sue articolazioni concrete e dei calcoli energetici che lo sostengono.

Un concetto preliminare del documento è che la crescita economica non è compatibile con gli equilibri ecosistemici poiché – come noto e confermato dalla stretta correlazione fra PIL, impronta materiale globale, ed emissioni di gas serra, la crescita economica è strettamente legata a incrementi della produzione e del consumo di materia ed energia. È evidente come questo renda impossibile il cosiddetto “disaccoppiamento” fra crescita economica, esaurimento delle risorse naturali e impatto ambientale. Premessa importante ma che non viene poi molto declinata e richiamata nel resto del documento, e rimane un po’ staccata dalle proposte concrete che vengono fatte.

Invece l’obiettivo fondamentale esposto, tutt’altro che utopico secondo gli autori del documento, è di creare le condizioni affinché le comunità locali possano realizzare i propri impianti di generazione elettrica e di stoccaggio, progettati secondo criteri di integrazione nel paesaggio e di sostenibilità ambientale ed economica, e gestiti in modo che i benefici economici derivanti dalla vendita di energia e di servizi alla rete rimangano alla comunità. Tutto ciò per raggiungere in modo alternativo a quello attualmente usato gli obiettivi del PNIEC e forse fare anche un po’ meglio. Gli obiettivi del PNIEC al 2030 ricordiamolo sono concentrati in due cifre essenziali, 39,40% di energia primaria e 63% di energia elettrica prodotte mediante fonti rinnovabili.

La pars destruens cioè la critica del modo attuale di sviluppo delle rinnovabili occupa le prime 28 pagine del documento e si raccomanda per la nitidezza e anche per la messa a fuoco di alcuni aspetti finora meno discussi, come l’irrazionale e ingiusta distribuzione tra le varie regioni italiane dell’onere di ospitare impianti di rinnovabili industriali, conseguenza della ricerca immediata di maggior profitti al di fuori di una pianificazione energetica pubblica. Viene anche accennato al problema della formazione dei prezzi nella borsa elettrica mediante il cosiddetto sistema del prezzo marginale che rappresenta per i produttori di elettricità da rinnovabili la forma più formidabile di incentivo nascosto e generatore di sovraprofitti, a spese del consumatore. La descrizione delle magagne strutturali del mercato liberalizzato dell’energia elettrica avebbe meritato a dire il vero di essere più sviluppata. Ma andiamo oltre, non senza raccomandare ai nostri lettori tutta questa parte critica, che rappresenta quasi un manualetto di riferimento.

Segue nel documento la parte propositiva che si fonda essenzialmente sui dati dell’ultimo rapporto ISPRA SPNA sul consumo di suolo (relativo al periodo 2006-2023).

L’ISPRA infatti, meritoriamente, non si limita a certificare i danni accumulati, ma fa precisi calcoli per verificare la possibilità di andare in una direzione diversa.

Nel report ISPRA-SNPA vengono presi in considerazione i tetti e le coperture degli edifici e fabbricati riportati nella carta del suolo consumato 2023, indicando i criteri di selezione che individuano unicamente le superfici effettivamente disponibili per la collocazione dei pannelli fotovoltaici. La percentuale dei tetti adatti a ospitare impianti fotovoltaici varia, a livello europeo, tra il 49 e il 64%. Un’ulteriore riduzione del 60% di superficie utilizzabile dipende da fattori di ordine tecnico come la necessità di riservare spazio per la manutenzione dei pannelli. Dal computo l’ISPRA esclude inoltre i centri storici dei principali comuni e tutti i centri e agglomerati urbani minori, in cui l’installazione dei pannelli può essere inopportuna o soggetta a vincoli di natura storico-paesaggistica.

Al netto delle suddette limitazioni tecniche e di ulteriori fattori restrittivi e limiti prudenziali delle previsioni, i risultati della ricerca ISPRA mostrano che la superficie netta disponibile sui tetti civili può variare da 760 a 992 km2.

Ipotizzando tetti piani e la necessità di disporre di 10,3 m2 per ogni kW installato, si stima una potenza variabile dai 74 ai 96 GW che sarebbe possibile installare su fabbricati esistenti. Ipotizzando inoltre che su oltre il 5% dei tetti sia già installato un impianto, si può concludere che, sfruttando gli edifici disponibili, ci sarebbe posto per una potenza fotovoltaica aggiuntiva compresa fra 70 e 91 Gigawatt, un quantitativo già sufficiente da solo a coprire l’aumento di energia rinnovabile complessiva previsto al 2030 dal PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima).

Altre e ancor più vaste superfici che potrebbero essere utilizzate per la produzione di energia fotovoltaica senza alcun incremento di consumo di suolo sono le aree industriali e commerciali dismesse. ISPRA non dispone di dati specifici sull’estensione delle aree dismesse, ma secondo le statistiche ISTAT nel nostro Paese rappresentano circa il 3% del territorio nazionale corrispondente ad una superficie di 9000 km2. Considerando idoneo per la collocazione di pannelli fotovoltaici anche solo il 10% delle aree dismesse già oggi censite e disponibili, la superficie utile risulta di 920 Km2, pari a 82,9 GW di potenza installabile.

Il ragionamento di ISPRA (e quindi di Tess) continua poi in modo analogo per quanto riguarda le aree impermeabilizzate/pavimentate non edificate (con esclusione della rete viaria), le aree estrattive non rinaturalizzate e le discariche, porti, aeroporti, sede ferroviaria, infine la sede stradale extraurbana/autostradale.

In consuntivo, la superficie reale di tetti, o di aree dismesse o degradata o industriale o stradale disponibile in Italia calcolata in modo prudenziale risulta globalmente essere di 2106 kmq, sui quali si potrebbero installare pannelli fotovoltaici per una potenza di ben 191,4 Gigawatt. Il PNIEC, nel suo aggiornamento di giugno 2024, prevede che al 2030 siano installati 131 GW di impianti a fonti rinnovabili (di cui circa 80 GW fotovoltaici e circa 28 GW eolici), con un incremento di capacità di circa 74 GW rispetto al 2021. Quindi secondo i calcoli sopra riportati sarebbe possibile con il solo FV installato in aree non di pregio raggiungere e superare ampiamente questo obiettivo del PNIEC.

Il resto della parte propositiva del documento affronta quattro altre questioni principali, quella dei costi economici di una simile transizione, quella delle comunità energetiche, quella dei progressi tecnologici prevedibili e quindi della produttività futura del FV, e quella del risparmio energetico e dell’efficientamento. Questa parte del documento non ha la stessa organicità sistematica di quella relativa al calcolo delle superfici degradate da riservare al FV, ma fornisce una messe di spunti che vanno in qualche modo a completarla. Grazie a questo completamento si può dire che non siamo di fronte a un diverso tipo di utopia tecnologica, benché alternativa a quella dominante, ma a una visione che tiene conto delle forme di aggregazione sociale sul territorio e del tema della complessità ecologica.

Diverse questioni (e alcune sono immense) restano aperte o meno chiare e ci sarà da capirle meglio. Che rapporto geografico esiste tra i luoghi (degradati ecc.) dove installare i pannelli FV e i luoghi invece dove c’è bisogno di energia, e quindi come si configureranno le reti? Come e dove si risolverà la questione dell’accumulo e con quale consumo di materiali, scavi minerari ecc.? Dove sono le competenze degli Enti locali, e dove sono gli installatori, per gestire l’immenso lavoro dell’installazione capillare dei pannelli?

Ci si chiede poi che fine faranno in questa visione i produttori privati di energia, la borsa elettrica, e come si rifornirà di energia ad alta intensità e voltaggio l’industria media e grande, e come si farà a stabilizzare la frequenza della rete se non esisteranno più macchine rotanti di grande massa a immettere corrente. Forse questo progetto sottintende che le grandi centrali (ma di che tipo?) continueranno in parte ad esistere, ma questo allora è un punto importante da esplicitare.

Una caratteristica di fondo di tutto questo documento, certo non casuale, è quella di non mettere in discussione la strategia europea e quindi nazionale di decarbonizzazione in quanto tale, il PNIEC viene assunto anzi come frequente punto di riferimento anche perché prescrive (in teoria) di privilegiare l’installazione degli impianti in aree degradate. Quello che viene proposto è quindi un modo alternativo per raggiungere gli stessi obiettivi del PNIEC, mentre lo scenario decisivo per la crisi ambientale che è quello post-2030 (ammesso che gli obiettivi 2030 PNIEC vengano raggiunti) rimane impregiudicato e non discusso. 

Sicuramente questa adesione al PNIEC (quindi agli obiettivi di transizione UE 2030) rappresenta per Tess anche un modo per evitare i pericoli di una filosofia minoritaria, troppo utopistica, e per fornire soprattutto ai sindaci che sul territorio si oppongono ai progetti devastanti delle indicazioni alternative concrete, immediatamente traducibili in atti amministrativi. La scelta di Tess sta in una ricerca di concretezza operativa, concentrata sull’obiettivo di spostare gli sforzi, gli incentivi e quindi gli investimenti pubblici e privati dagli impianti di energia rinnovabile industriali impattanti e coloniali, agli impianti di energia rinnovabile locali, sostenibili, diffusi e gestiti democraticamente.

 

The following two tabs change content below.

Paolo Chiappe

Paolo Chiappe, fiorentino, ex insegnante, da molti anni vive soprattutto nella campagna di Vicchio. Redattore di riviste della scuola, editore del cabreo mugellano dei Georgofili, ha partecipato a diversi movimenti della scuola, politici e del territorio e ora fa parte di uno dei gruppo di cittadini che elaborano le osservazioni al progetto Giogo di Villore.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Captcha *