La RSU della Regione Toscana in sostegno della lotta del Collettivo di Fabbrica ex GKN e di Fridays for Future. Per un rapporto sinergico fra lavoro e ambiente

La RSU delle lavoratrici e dei lavoratori della Regione Toscana condivide e sostiene le istanze di lotta del collettivo ex-GKN, attraverso una richiesta inviata il 18 aprile 2024 ai Presidenti di Giunta e Consiglio, affinché la Regione possa finalmente dotarsi di una legge che permetta la Costituzione e il funzionamento dei Consorzi di sviluppo industriale.

 La lettera inviata a Giani e Mazzeo è la seguente:

 Il collettivo di Fabbrica ex-GKN propone che la Regione Toscana si doti di una legge relativa a ‘Costituzione e funzionamento dei Consorzi di sviluppo industriale finalizzati alla realizzazione di un polo di eccellenza nel settore della mobilità leggera e delle rinnovabili. Strumenti per il sostegno al recupero cooperativistico d’impresa e del tessuto economico e sociale del territori’.

 Questa legge favorirà l’intervento pubblico a favore della re-industrializzazione della ex GKN e garantirà il sostegno alle iniziative delle lavoratrici e dei lavoratori.
La RSU delle lavoratrici e dei lavoratori
 della Regione Toscana sostiene e condivide la proposta di legge elaborata dal Collettivo di Fabbrica GKN, come sostiene la loro ammirabile lotta iniziata il 9 luglio 2021, perché ritiene di grande importanza e rilievo il fatto che in tutte le proposte del Collettivo la salvaguardia dell’ambiente e del lavoro coesistano in modo sinergico invece di essere contrapposte come avviene ancora troppo spesso. Finalmente la produzione è chiamata a preservare il patrimonio territoriale come bene comune, come prescritto nella Lr 65/2014 Norme sul Governo del territorio. Non è casuale che in questa proposta le lavoratrici e i lavoratori avranno un ruolo centrale”.

La lettera è stata consegnata dalla RSU al Collettivo di Fabbrica ex-GKN durante il presidio “Riprendiamoci il futuro sciopero globale per il clima” del 19 aprile 2024 di fronte al Consiglio Regionale, via Cavour 2 Firenze, indetto da Fridays for Future e Collettivo di Fabbrica ex GKN.

 Perché è necessario un immediato intervento pubblico per la transizione ecologica: la produzione della base materiale necessaria alla nostra vita deve essere strettamente condizionata al rispetto e alla riproduzione della natura non umana e deve finalmente essere destinata a rispondere alla domanda sociale di valore d’uso e non a produrre merci per chi può pagare finalizzate al solo valore di scambio.

 Salvaguardia del lavoro e dell’ambiente devono essere strettamente connessi ed in armonia: la convergenza fra movimento operaio e movimento climatico rivendica “benessere reale, psicologico, climatico, salariale, posti di lavoro”. Ci vogliono “climate jobs”, cioè lavori creati dalla transizione ecologica radicale e reale.

 La Regione Toscana è dotata di una innovativa legge sul governo del territorio e di un piano paesaggistico fondato sulla convinzione della necessità di modificare radicalmente una economia che ha prodotto distruzione della natura non umana e alienazione della natura umana. Il piano chiede di sostenere una economia differente, attenta al territorio nei suoi valori materiali (strutture fisiche di paesaggio e ambiente, territorio come prodotto del rapporto fra insediamenti umani e ambiente) e immateriali (memorie, capacità, saper fare, solidarietà, cooperazione), e quindi in grado di riprodurre i valori ambientali, paesaggistici del territorio, che comprendono i valori immateriali di cui sono portatori i soggetti sociali che sostengono la nuova economia. Chi meglio del Collettivo di Fabbrica con le sue proposte di produzione di mobilità leggera e delle rinnovabili, incarna questa cittadinanza attiva che il piano chiede di sostenere e di promuovere. Chi meglio dei Fridays for Future la incarna.

 E’ urgente un investimento pubblico da parte della Regione e dello stato che sostenga queste iniziative che sono davvero rivoluzionarie perché vertono su un tema cruciale della urgente trasformazione che è necessaria: produrre la base materiale della nostra società creando una nuova sinergia e non più un conflitto, con la natura non umana. Parliamo di natura non umana perché anche quella umana è natura a tutti gli effetti.

 L’area della ex GKN deve essere il luogo della produzione in sinergia e sostegno della natura, umana e non umana.

La storia ci insegna che una delle iniziative più appetitose per le imprese che si trovano in un’area in fase di valorizzazione immobiliare, come è tutta l’area metropolitana fiorentina, è dismettere per poi intervenire con una speculazione immobiliare. E’ quello che è successo per la FIAT di Novoli che è stata liberata dalla fabbrica FIAT che è stata rilocalizzata a Campi Bisenzio in un’area inedificata e allora ben meno pregiata dal punto di vista dei valori immobiliari, cioè proprio in quella oggi ex GKN. Il gioco della speculazione deve essere impedito anche attraverso il sostegno pubblico alle proposte del Collettivo di Fabbrica ex GKN. Il momento è adesso.

 


Collettiva La Magni*fica: vivere, occupare, immaginare lo spazio pubblico

Per il mio lavoro di tesi sullo spazio pubblico a Firenze, sulle realtà informali che lo attraversano, sulle pratiche di resistenza e sulla creazione di immaginari “altri”, ho incontrato la collettiva “La Magni*fica”. Chiamerò X la persona che ho intervistato. Il nostro discorso si è addentrato nelle modalità di appropriazione dello spazio pubblico (non solo fisico, ma anche sociale, relazionale e politico) da parte della collettiva queer e transfemminista, nata quattro anni fa.

DT – Come presenteresti “la Magni*fica” a chi non la conosce?

X – La collettiva Magni*fica nasce a Firenze nel 2020, a seguito di un’occupazione della palazzina di via Lorenzo il Magnifico che abbiamo chiamato Casa delle Donne di Firenze, servizio inesistente a Firenze. Abbiamo sentito l’esigenza di uno spazio queer, transfemminista, uno spazio liberato da maschi etero-cis, che si facesse carico delle esigenze di persone che avevano vissuto episodi di violenza. Dopo appena un paio di giorni c’è stato lo sgombero; abbiamo portato avanti altri due tentativi di occupazione che non sono andati a buon fine. Comunque, la collettiva ha tenuto, e da quattro anni si occupa di molteplici argomenti. Da un lato continua a costruire una realtà comunitaria per persone che – fuori dalla collettiva – vivono la marginalizzazione; iniziative anche culturali, anche rilassate come un cineforum, possono essere momenti di aggregazione, appunto. Comunque è rimasto il lato, diciamo, più esplicitamente politico. Credo che, anche nel creare uno spazio comunitario in cui le persone si sentono al sicuro, ci sia molta politica. Ci sono stati presìdi e manifestazioni, insomma, si è dato il via appunto a “Favolosk3” che poi è l’Assemblea che sta gestendo il Pride autogestito a Firenze.

La Magni*fica ha cercato e cerca di essere uno spazio per persone che sopravvivono alla violenza machista, di genere o di matrice omofoba. Questo è un altro aspetto molto importante. E da poco, insieme a “Favolosk3”, abbiamo aperto una cassa di sorellanza in cui versiamo una parte di quello che riusciamo a ricavare. La cassa di sorellanza aiuta nelle spese che possono riguardare le conseguenze di episodi di violenza personale: come le visite da professioniste della salute mentale, o un appoggio medico, o un percorso di transizione medicalmente assistito, o farmaci per la terapia ormonale, come il Sandrena, aumentato di costo del 250%, o farmaci salvavita.

DT – Quali principi portate avanti nell’azione della Magni*fica? Verso quali obiettivi?

X – Diciamo che la Magnifica è una collettiva anarchica, di principi quindi antistatali, antimilitaristi, antirazzisti, antispecisti, insomma c’è un po’ di tutto, ecco. Penso che l’obiettivo principale di Magni*fica sia aprire questa benedetta Casa delle donne e delle persone frocie a Firenze. Dal punto di vista istituzionale, qualcosa si sta muovendo: c’è comunque l’intenzione di fare una casa delle donne a Firenze. Le Zorras hanno seguito più da vicino questa situazione. Secondo noi è un progetto che non rispecchia le esigenze reali delle persone che dovrebbero accedere a questi servizi. È vero che, a quanto sembra, verrà fatta in modo che una serie di associazioni possano avere fondi per i loro progetti. Ma ci chiediamo quanto sarà efficiente nella realtà. Diciamo, quindi, che l’obiettivo forse principale della Magni*fica è proprio quello di avere uno spazio separato, dove le persone si possono sentire al sicuro, uno spazio liberato, lo ho già detto, dai maschi etero-cis.

DT – E avete già in mente quale possa essere il luogo fisico per dare attuazione a tutto ciò?

X – No, purtroppo no.

DT – All’interno della Magni*fica ci sono ruoli ben precisi, c’è una gerarchia?

X – No, essendo una collettiva anarchica non ci sono ruoli, cioè ognuno fa quello che si sente di fare, quello che ha voglia di fare. Non crediamo nelle gerarchie. Cerchiamo di scardinare in ogni modo i rapporti di potere all’interno del collettivo.

DT – Secondo te, in che direzione si sta muovendo Firenze su temi di inclusività e accessibilità. Se si sta muovendo, insomma.

X – Distinguerei due livelli: la politica istituzionale e la politica dal basso. A parte le elezioni che ci saranno a giugno, sulle quali non so come esprimermi in termini, appunto, di destra/sinistra, sul livello istituzionale notiamo un progressivo inasprimento delle misure repressive nei confronti di realtà di aggregazione, che provengono dal basso. È preoccupante perché comunque si tratta di realtà che riescono a provvedere a una serie di bisogni che le situazioni più istituzionalizzate non riescono a prendere in considerazione. Un’altra cosa che abbiamo notato è che, bene o male, vince sempre il PD, ma comunque nei fatti il nostro rapporto con la città “rossa” si risolve sempre nella repressione. La prima occupazione di Magni*fica fu sgomberata il giorno in cui venne eletto Giani, presidente regionale. Diciamo che in quell’occasione non abbiamo riscontrato un grande interesse nei confronti della costruzione di una Casa delle donne o dei temi dell’inclusività.

Quello che mi preoccupa, sul livello istituzionale, sono il pink-washing e il rainbow-washing. Si pensi al fatto che al Toscana Pride del luglio 2023, organizzato anche ad Arcigay, sono stati invitati vari rappresentanti politici. È preoccupante, perché poi sono le stesse persone che sgomberano, le stesse che stanno a capo dell’apparato securitario di Firenze: si pensi a Nardella che inaugura la Smart control room. La presenza al Toscana pride della politica istituzionale confligge con la partecipazione di persone marginalizzate, magari prive di documenti, che insomma vivono quotidianamente una realtà di abuso.

Dall’altro lato, quello della politica del basso, secondo me Firenze mostra dei segnali positivi, per ora. L’anno scorso, ad esempio, è nata una collettiva che si occupa della gestione della Pride, e di portare una Pride non istituzionalizzata anche nelle città italiane, diciamo, meno centrali. Ma i passi avanti che tentiamo di fare, in termini di inclusività, purtroppo vengono repressi, in un modo o in un altro.

DT – Quali pensi che siano i lati positivi e quelli negativi della città?

X – I lati negativi, purtroppo, mi vengono più spontanei. Uno dei problemi più grossi di Firenze è la gentrificazione, gli sfratti all’ordine del giorno, le persone allontanate dalle zone centrali. E sostanzialmente la mistificazione massiccia che vediamo, sostanzialmente voluta da Nardella, dalle istituzioni. Secondo me, anche in termini di inclusività, la situazione è problematica e rende invivibile la città, la sua parte più bella, quella che dovrebbe essere la più accessibile. Un punto di forza è, invece, la presenza di molte realtà autogestite sul territorio e il tentativo di comunicare tra vari collettivi, tra varie situazioni occupate. E anche la presenza di collettivi studenteschi, ad esempio il Collettivo Mantide di studentesse liceali. Insomma, dal punto di vista delle politiche dal basso Firenze è una città molto viva, o che comunque cerca di essere molto viva.

DT – Con quali realtà fate rete?

X – Facciamo rete con altri collettivi transfemministi e con spazi occupati della città. Recentemente è nata un’altra collettiva transfemminista, in Valdarno, si chiama Pinkabbomba: cerchiamo di avere rapporti con loro perché crediamo che nelle zone esterne alla città, dove ci sono meno centri di ascolto e forse meno possibilità di fare rete tra persone, sia molto importante che arrivino messaggi di transfemminismo.

DT – Che rapporti avete con “NonUnaDiMeno”, importante realtà transfemminista in città? E con altre realtà attive a Firenze?

X – Con “NonUnaDiMeno”, anche dopo la piazza dell’8 marzo, rimaniamo aperti sostanzialmente a un confronto. Conosciamo molte persone valide in NUDM Firenze, quindi anche se il rapporto è un po’ travagliato, esiste. Su Firenze, mi viene da pensare ai centri sociali, all’occupazione di via del Leone, all’occupazione di via Incontri. Ci piace l’Emerson. Ora mi viene da pensare a queste. Poi anche ad altre realtà, magari diverse, come Love My Way.

DT – Per quanto riguarda il modo in cui vivi, o vivete gli spazi, come persone queer, notate delle differenze tra determinate parti della città? Lo spazio urbano vi sembra omogeneo o diversificato? Come lo vivete?

X – Parlo della mia esperienza, in questo caso. Devo dire che, da quando ho conosciuto la Magni*fica, il mio senso di sicurezza è molto aumentato. Prima ho vissuto varie situazioni in cui, in varie zone della città, non ci siamo sentiti al sicuro. Vivere la città in modo comunitario, uscire con le mie sorelle, con le mie compagne, mi dà sicuramente molta più sicurezza in molte zone di Firenze. Penso anche alla stazione di Santa Maria Novella che, soprattutto in alcuni orari, non è molto facile, diciamo, da navigare, e soprattutto per una persona femminilizzata.

DT – E oltre alla stazione?

X – Altra zona difficile è quella delle Cascine. Il problema è che al posto di mettere in atto programmi di aiuto si preferisce insistere sul securitarismo. Le persone che si trovano in queste aree sono, magari, migranti con un passato di tratta che hanno vissuto violenze inimmaginabili e non hanno nessun tipo di accoglienza, nessun tipo di appoggio, né aiuto, e magari costrette a esercitare attività che li costringono in situazioni veramente pericolose, difficili. E così, al posto di programmi di aiuto, si preferisce mettere solo più polizia. Questo vale per le Cascine vale per la stazione dove ormai c’è una camionetta dei carabinieri praticamente fissa. Quando vedo la polizia non mi sento rassicurato, anzi aggrava il pericolo per persone come posso essere io: la vivo più come un’ulteriore presenza di maschi armati in un posto dove già mi sento in difficoltà.

DT – C’è una ragione particolare che vi ha portato a scegliere la sede attuale della Magnifica? Oppure semplicemente avete pensato “abbiamo trovato questo spazio qui, per ora ci va bene e teniamo questo”?

X – Noi purtroppo non abbiamo una nostra sede: manca ancora una Casa delle donne per Firenze. In questo momento ci appoggiamo a vari spazi e cerchiamo di essere presenti in vari spazi, per portare un po’ di comunità, un senso di appartenenza in varie situazioni a Firenze. Ora stiamo facendo l’assemblea di Magni*fica in via degli Incontri. Poi dobbiamo vedere dove ci porterà il vento.

 

Firenze, 21 marzo 2024

 

 


TAV alla sbarra. Guardare al passato per capire il futuro

Il 9 aprile 2024 si è tenuta al Tribunale di Firenze l’udienza, con la lunga arringa del Pubblico Ministero Giulio Monferini, del processo nato dalle due inchieste che hanno interessato il progetto di sottoattraversamento TAV di Firenze. È stato ricostruito come siano state violate le norme ambientali nella realizzazione dell’opera, come si siano avuti fenomeni di corruzione, truffa, infiltrazioni mafiose, insomma il racconto “un’opera che non fa onore all’Italia” come ebbe a dire l’allora presidente dell’ANAC Raffaele Cantone.

Oggi tutto pare rimesso a pulito con l’affidamento del proseguimento dei lavori del Passante TAV al nuovo general contractor Pizzarotti Saipem attraverso la controllata Consorzio Florentia. Tanta è stata la pubblicità per far dimenticare il verminaio che è prosperato dai cantieri cittadini fino alla politica locale e nazionale. La parte riguardante quest’ultimo aspetto è stata trasferita a Roma e forse era la più importante per aver fatto emergere la rete capillare di controllo, di favori reciproci e di favoreggiamento dei costruttori; la famosa “squadra” dell’allora Presidente di Italferr Mariarita Lorenzetti (nel frattempo prosciolta dalle accuse) che addomesticava i pareri tecnici, minacciava o blandiva i funzionari, arrivava a modificare la legislazione ambientale. Una “squadra” che oggi pare dissolta, ma tutti i presupposti che l’hanno fatta nascere non sono solo sopravvissuti, ma cresciuti; probabilmente altre “squadre”, magari più prudenti, sono all’opera, ma dubitiamo che siano svanite; le cronache dal Terzo Valico, dalla linea Torino Lione, dallo Stretto di Messina ci dicono di come queste megaopere alimentino gli appetiti del sistema che vive di grandi opere, soprattutto quelle inutili.

A Firenze oggi tutto luccica, il Presidente della Regione Eugenio Giani finanzia spot pubblicitari in cui si vedono treni che corrono, gallerie che paiono salotti; si inneggia al futuro in cui Firenze sarà condotta con questi nuovi tunnel, si profetizza su quanto sia strategica quest’opera, si vaticina di come questi due tunnel “libereranno i binari per i treni regionali”.

Intanto nessuno vuol ricordare che il sistema che nascerebbe, se quest’opera arrivasse alla fine, non risolverebbe i più gravi problemi di traffico (che sono a sud di Firenze), ma sarebbe addirittura un grave danno per Firenze e la Toscana con due stazioni scollegate e la creazione di rotture di carico che probabilmente sarebbero fatali per un uso razionale del trasporto pubblico, con la necessità di realizzare un people mover che ha già dato prova di costi esagerati e inefficienza a Pisa e a Bologna.

Soprattutto nessuno vuol ricordare una anomalia evidentissima: quello dell’aumento vertiginoso dei costi. Da un preventivo iniziale di 1,2 miliardi si è passati progressivamente a 1,8 miliardi per arrivare, con l’ultimo appalto, a 2,735 miliardi; quando gli esperti del Comitato dicevano che i costi avrebbero superato i 3 miliardi venivano accusati di terrorismo finanziario, oggi l’ineffabile Presidente Giani ringrazia le Ferrovie per aver più che raddoppiato l’importo dell’appalto per renderlo ancora più appetibile al costruttore.

Che tali anomalie non suscitino qualche dubbio, ma si parli solo con spot pubblicitari, non è un buon viatico per il futuro di Firenze, quel futuro cui, sempre Giani, ci vuol condurre con lo scavo dei tunnel.

In realtà un pezzo di futuro è già esistente, visibile e odorabile, ma non viene mai ricordato nelle odi ai tunnel: lo “scavalco” a Castello, il “lotto 1” del Passante di Firenze, quel ponte ferroviario già ultimato, già in esercizio, ma non ancora collaudato perché con gravissimi difetti di progettazione ed esecuzione, costantemente allagato dalle infiltrazioni della falda che riducono la durabilità e porteranno presto a dovervi rimettere la mani con ulteriori costi sempre a carico della collettività; dalle informazioni riportate da Idra pare che le acque siano addirittura contaminate da batteri fecali.

Il futuro è già qui, ma meglio non vederlo o sentirlo, puzza di fogna.

 

Le foto sono della galleria inferiore dello “scavalco”


La letteratura Working Class nell’America degli anni ’30

Quando si pensa agli anni Trenta del Novecento, un decennio tra i più difficili della storia degli Stati Uniti sul piano economico e sociale, si tende a collegare la “grande depressione” che lo ha caratterizzato al crollo di Wall Street del ‘29 e alla crisi finanziaria che ne seguì.

Certamente il crollo della borsa, con il tristemente noto black tuesday – tutto precipitò martedì 29 ottobre – ebbe un effetto devastante sull’economia, e non solo statunitense. Perché la globalizzazione ha anche questi effetti: come le pedine di un domino, le crisi si ripercuotono a catena fino a far cadere l’intera filiera.

Si chiudeva, in quel fine ottobre, un boom speculativo che aveva portato centinaia di migliaia di statunitensi a investire pesantemente nel mercato azionario. Quando Wall Street in quel giorno chiuse con una perdita di circa10 miliardi di dollari, fu un colpo durissimo non solo per la grande finanza, ma anche per la piccola e media borghesia che aveva basato l’economia familiare su prestiti e ipoteche con le banche e che si ritrovò a non avere più niente, anticipando su larga scala e con le dovute varianti quello che abbiamo visto accadere nel 2008.

Ma questa è stata solo una delle cause del disastro, la più nota. Altri comparti dell’economia entrarono in crisi, tanto da poter dire che in questi anni il sistema capitalista stava mostrando tutte le sue debolezze strutturali, causate dalla rincorsa inarrestabile e obbligata al profitto e dallo sfruttamento intensivo di qualunque tipo di risorse.

Infatti anche il settore primario, lagricoltura e l’allevamento, pilastri dell’economia statunitense, aveva fatto il “passo più lungo della gamba”; negli anni precedenti si era fatto ricorso ad uno sfruttamento scriteriato del suolo non alternando le varie colture e per di più estendendo a dismisura le aree destinate agli allevamenti intensivi di bestiame.

Il risultato fu che in vastissime aree centrali non c’era più erba, ma solo grano. La scomparsa dell‘erba, fondamentale per l’idratazione della terra, causò l’impoverimento nel suolo e, complice anche un periodo di siccità, fece sì che in immense distese di stati come Kansas, Oklahoma, Colorado, Texas e New Mexico, quella che prima era terra fertile in poco tempo divenne polvere. Una fascia enorme di territorio chiamata non a caso Dust Bowl, la “conca di polvere”.

Quando poi sopraggiunsero le stagioni dei temporali, tali ingenti ammassi di polvere vennero trasportati dal forte vento, generando colossali nubi nere (tempeste passate alla storia come le black blizzard) che nel giro di una notte erano capaci di sommergere intere cittadine, dalle grandi pianure centrali verso est, fino a Chicago e all’oceano Atlantico.

Nel periodo di tempo tra il 1932 e il 1939 furono più di 300 le grandi tempeste di sabbia che misero in ginocchio intere popolazioni. Così milioni di braccianti e agricoltori si trovarono senza nulla da coltivare o allevare, e tanti di questi disperati finirono per lasciare la casa e spostarsi in altre città o addirittura cambiare Stato. Molti dei “reduci della Dust Bowl” partirono per la California, dove le prospettive di vita pareva che fossero migliori, e dove il sogno di poter ancora coltivare un pezzo di terra teneva in vita la speranza di famiglie che spesso non arrivavano a destinazione.

La situazione era disperata: un terzo degli abitanti degli USA era disoccupato. Un terzo aveva lavori saltuari. C’era una fame endemica, decine di migliaia di senza casa migravano in cerca di lavoro, uno qualsiasi pur di non morire di fame. Lo sfruttamento del lavoro era estremo, con una offerta di mano d’opera praticamente inesauribile.

Fu un decennio di miseria e sopraffazione, ma anche di rabbia e di reazione, che vide montare un’ imponente ondata di attivismo politico e sociale da parte della Working Class.

Il capitalismo sembrava vacillare, il nazifascismo era in ascesa in Europa, e i principi del comunismo soppiantarono i più moderati ideali socialisti e fecero presa sulle classi più povere. Scioperi, proteste, manifestazioni, azioni di massa anche violente infiammavano città e villaggi. Un clima che emerge bene nel singolare e interessante Dynamite, storie di violenza di classe in America, dell’immigrato sloveno Louis Adamic, un testo prezioso curato e tradotto per la prima volta in edizione integrale da Andrea Olivieri per Alegre.

E’ in questo contesto che emergono inedite forme di letteratura working class, con molteplici categorie di lavoratori e lavoratrici che esprimono in un linguaggio spesso colloquiale la loro condizione, ma soprattutto il bisogno e la voglia di riscatto.

Chi scriveva era diverso per razza, genere, cultura e religione: mezzadri neri, contadini, migranti del Dust Bowl, lavoratori nell’industria automobilistica di Detroit e del legname per costruzioni, donne dell’industria conserviera e raccoglitrici nei campi, minatori. Voci non solo del proletariato industriale di cui ancora si sa poco, ma numerosissime, come testimonia l’Antologia American Working Class Literature, pubblicata nel 2007 dalla Oxford Univ Press, che propone brani di più di 150 autori e autrici.

La loro scrittura rappresentava l’intera gamma di generi letterari: narrativa, poesia, teatro, memorie, reportage, oratori, manifesti. Lettere, storia orale, testi di canzoni. E altre forme di espressione ibride, difficilmente classificabili.

Alcuni sono poi diventati noti, pubblicati e tradotti in altre lingue, come Upton Sinclair, Dos Passos, Steinbeck, Muriel Rukeyser, Tillie Olsen, ma molti e molte restano del tutto sconosciuti. Erano scrittori e scrittrici che facevano emergere il costo umano e sociale della great depression, criticavano il sistema che l’aveva prodotta, e in modo anche molto esplicito invocavano un cambio radicale.

Molti di loro vennero pubblicati nella rivista mensile New Masses, uscita a New York tra il 1929 e il 1934 e sostenuta dal partito comunista, con l’obbiettivo di creare nuovi lettori e anche nuovi scrittori. Nascono riviste come Blast, Dynamo, Challenge, Anvil: Stories for Workers

Sono testi in cui la classe si intrecciava alla razza e al genere, come scrive Paula Rabinowitz in Women’s Revolutionary Fiction in Depression America, “la narrativa rivoluzionaria femminile degli anni ’30 racconta la classe come un costrutto fondamentalmente di genere e il genere come un costrutto fondamentalmente di classe”.

Tra i molti esempi di questa letteratura proletaria citiamo le “Voci dagli Appalacchi”, le cui poesie e canzoni erano scritte prevalentemente da donne, mogli e madri di minatori che morivano o rimanevano menomati in un altissimo numero di incidenti. Tra queste Aunt Molly Jackson, ostetrica, organizzatrice sindacale, figlia, moglie e madre di minatori di carbone della Contea di Harlan nel Kentucky, dove vi fu uno sciopero represso duramente.

Sarah Ogan Gunning, del Kentucky, anche lei figlia e moglie di minatori, il cui figlio muore di fame e i cui canti parlano di miseria, morte, sfruttamento. Florence Reece che incita i minatori a lottare per paghe migliori e orario ridotto, e su un pezzo di carta strappato da un calendario scrive “Which side are you on”: “Svegliatevi, svegliatevi, lavoratori. Cos’è che vi fa dormire in modo così profondo?..Stanno venendo per dar fuoco alle vostre case, arrivano con fucili e dinamite per cercare di uccidervi mentre dormite, voi che avete scioperato a Harlan”.

Anche il tema razziale si intreccia a quello di classe. Richard Wright, afroamericano nato in una piantagione in Missisipi, corrispondente da Harlem per il partito comunista, scrive poesie, racconti come Uncle Tom’s Children, che raffigurano la vita dei neri e l’autobiografia Black Boy.

Sono voci di provenienze diverse: Pietro Di Donato, nato da immigrati italiani approdati nel New Jersey, a 12 anni cominciò a lavorare nell’edilizia, dopo che il padre era stato ucciso in un incidente sul o meglio dal Lavoro. Nel racconto Geremio fa rivivere in modo molto efficace la scena dell’incidente della squadra di operai, tutti italiani, travolti dal crollo dell’impalcatura su cui lavoravano (ci ricorda qualcosa accaduto proprio qui a Firenze il 16 febbraio nel cantiere Esselunga di via Mariti). Il lavoro stesso diventa un mostro rapace che trae profitto da tutto, anche dalla mancanza di sicurezza di impalacature malfatte.

In Blood on the Forge William Attaway fa rivivere quel che accadde durante il Great Steel Strike, il grande sciopero dei lavoratori dell’acciaio del ‘19. Una restrospettiva scritta alla fine degli anni ‘30 in cui emergono gli eventi principale della storia dei lavoratori dell’acciaio di quegli anni, visti dalla prospettiva di diverse esperienze e provenienze, gli immigrati dall’Europa dell’est e gli afroamericani degli Stati del sud che venivano trasportati a Pittsburgh in camion per sostituire gli operai in sciopero.

Meridel Le Sueur, giornalista, attivista, comunista animatrice di scioperi, amica della radicale Emma Goldman, scrive per riviste come The Workers e New Masses.

Jack Conroy, originario del nord del Missouri, in quell’area denominata “Monkey Nest Coal Camp”, in una comunità di minatori di carbone descritta magistralmente nel romanzo autobiografico The Disinherited (1933). Si unisce ai Rebel Poets, un gruppo di scrittori in collegamento con The Industrial Workers of the World, diventa editor della rivista The Anvil dal 1933 al 1936, e in quel ruolo invita a pubblicare le loro opere scrittori working class tra cui Sanora Babb, Joseph Kalar, and Richard Wright.

E poi ancora Joseph Kalar, del Minnesota, figlio di immigrati sloveni e lavoratore delle cartiere che scelse di pubblicare le sue poesie solo su riviste operaie. Kenneth Patchen, originario della zona industriale Mahoning River Valley in Ohio, che nel 1936 con Before the Brave fu nominato “poeta proletario dell’anno” dalla casa editrice Random House. Tom Kromer che in Waiting for Nothing racconta la vita da disoccupato negli anni della grande depressione. Sanora Babb il cui romanzo, Whose Names Are Unknown, è ambientato durante il disatro delle tempeste di sabbia nelle grandi pianure che costrinse gli agricoltori a migrare verso la California.

Decine e decine di voci ignorate dall’industria editoriale del tempo -e non solo – la cui scrittura era atto politico, la cui sofferenza diventava volontà di riscossa e creazione di un immaginario in cui la Working Class si poteva riconoscere come parte viva, attiva di una società da cambiare. E che coglieva l’invito di Mike Gold, editor della rivista New Masses, che nell’editoriale “Go Left, Young Writers! scriveva: Non siate passivi. Scrivete. La vostra vita in miniera, stabilimento, fattoria è di interesse assoluto nella storia del mondo. Parlatecene con lo stesso linguaggio che usate nello scrivere una lettera. Potrebbe essere letteratura. Spesso lo è. Scrivete. Lottate.

Un invito valido anche oggi che è risuonato nelle tante voci che hanno animato i tre giorni del Festival della letteratura Working Class alla GKN di Campi Bisenzio. Perché. Come si è detto “La classe può ritornare al centro della narrazione. Può prendere parola, e anche la penna.”

*L’articolo riprende l’intervento introduttivo alla sessione “La letteratura proletaria degli anni ’30 in America” al Festival della letteratura Working Class tenutosi dal 5 al 7 aprile alla GKN di Campi Bisenzio.


L’orizzonte della notte di Carofiglio

Era un po’ che aspettavamo Gianrico Carofiglio con il suo avvocato Guido Guerrieri, e finalmente ci siamo. Con lui ritroviamo anche luoghi, e persone, legati ai romanzi precedenti: come ad esempio l’ Osteria del Caffellatte, libreria aperta dalle 22 alle 6; o la personificazione del sacco da pugilato, che diviene l’amico immaginario e che porta il pugilato ad essere preferito alla psichiatria; e non c’è solo il pugilato, perché quando si tratta di liberare la testa dai pensieri Guerrieri ricorre alla ginnastica, alle camminate di buon passo, alla bicicletta ed alle lunghe nuotate d’estate. Troviamo anche l’investigatore Tancredi che si fa portatore dello strumento più potente a propria disposizione che è il silenzio, strumento necessario per mettere in campo, nell’investigazione, l’arte dell’osservare lentamente; e, a questo proposito, va aggiunto il barbiere, che è anche filosofo e psicologo.

Ma sono soprattutto i modi di agire di Guerrieri che attraggono il lettore, il suo non abituarsi ad accettare il fatto di doversi rapportare con chi dovrà vivere in prigione, non a caso non festeggerà mai la condanna di qualcuno, con il ” fine pena mai “; i suoi scontri caratteriali con il pm, anche se in questo caso si rivela essere amico, o il capo della mobile di turno; a lui non piace che i sottoposti agli interrogatori siano fatti innervosire senza motivo alcuno, se non quello, recondito, di ottenere informazioni utili conseguenti ad un crollo psicologico.

Un avvocato che si pone mille domande rispetto al proprio modo di affrontare il suo lavoro come quando, nel caso di queste 277 pagine, si pone il dilemma tra legittima difesa o omicidio premeditato, e questo non è niente rispetto al dubbio se sia meglio sapere o non sapere; che lascia che le cose accadano attraverso una sorta di anestesia delle emozioni, consapevole di doversi rapportare al bisogno, sempre più diffuso, di sicurezza tra i cittadini, e si confronta con la propria, presunta, violazione delle regole in modo tale da crearsi l’opportunità di cessare un’attività che ormai fa fatica a proseguire con tranquillità.

Guerrieri, incredibile ma vero, si trova ad avere a che fare con i sospetti su una donna afflitta da presunta amnesia dissociativa. In L’orizzonte della notte siamo di fronte ad un vero e proprio manuale di giurisprudenza, dove, tanto per cambiare, è il rito abbreviato ad essere il più approfondito. Ma anche la sequela di reati sono materia con la quale Guerrieri deve rapportarsi: dalle lesioni personali ai reati contro il patrimonio; dall’appropriazione indebita alla truffa di finti incidenti per incassare l’assicurazione. Sempre, instillare il ragionevole dubbio risulta l’arma migliore a disposizione della difesa, arma che Guerrieri è bravissimo ad usare. Un armamentario giudiziario, che ha nei processi in corte d’assise il luogo deputato per essere affrontato, si dispiega in processi ai quali, ci fa notare con ironia Carofiglio, c’è una presenza abituale: quella dei pensionati che li preferiscono alle partite a carte o a guardare i lavori in corso.

Gianrico Carofiglio, L’orizzonte della notte, Einaudi, Torino 2024, pp.288, euro 18


A proposito dei due camini dell’inceneritore di San Donnino

“L’abbattimento dei due camini del vecchio inceneritore di San Donnino ha un  significato fortemente simbolico ed assai controverso. Di  fatto esso chiude al passato (della dissipazione) e  apre al futuro ( della conservazione) ma ciò non  basta a comprendere le ragioni della  scelta che lo  toglie dallo spazio pubblico. E’ di certo l’eliminazione della  testimonianza fisica di un  conflitto tra la periferia e la città  che portò alla sua chiusura dopo tredici anni dalla entrata in funzione, lasciando un territorio inquinato per  più di un lustro, centinaia di migliaia di tonnellate di scorie tossiche e  gravi implicazione sulla salute degli  abitanti. Di questa testimonianza  Alia  non ha ritenuto di farsi carico. Troppo ingombrante per l’ operato dell’azienda  solo a considerare che essa , in coerente continuità , ha strenuamente difeso fino a ieri, in tutte le sedi – amministrative e giudiziarie-  la realizzazione di un nuovo inceneritore nella Piana. A questo si sono adeguate le istituzioni cittadine.

Da ora  in poi spetterà  alla popolazione della Piana , alle sue rappresentanze associative e,  non in ultimo, anche a quelle  istituzionali,  coltivare in modo più attivo la memoria del grande contributo di partecipazione e di idee  che, di gran lunga, anticipò il cambiamento epocale, interpretato con  molto ritardo e molte riserve, dalle sedi  politiche.

C’è piuttosto da auspicare che l’atteggiamento di separatezza che, anche in questa circostanza, l’azienda  ha tenuto nei confronti delle popolazioni della periferia –  per  nulla coinvolte  nel progetto –  lasci il posto ad un fertile sistema di relazioni con il territorio che la ospiterà nella  nuova missione. Questo potrebbe consentire la  restituzione  alle popolazioni attuali di quanto è stato sottratto a quelle di ieri.

 

 


Whistleblower, quinto appuntamento del laboratorio di mediattivismo

Quinto appuntamento per il Laboratorio di Mediattivismo dedicato a chi si impegna nei movimenti sociali, nei gruppi, nelle associazioni, nei comitati, proposto dal mensile dei senza dimora fiorentini Fuori Binario e perUnaltracittà, editrice della rivista La Città invisibile.

Dopo gli incontri dedicati all’accesso libero dei dati della pubblica amministrazione con il giornalista Marco Renzi e al funzionamento della propaganda israeliana sui media occidentali con la giornalista Francesca Conti giovedì 11 febbraio l’appuntamento, dedicato alla figura del whistleblower, sarà tenuta da Marco Renzi.

Il Laboratorio è dedicato a Julian Assange ed è a partecipazione gratuita, grazie alla disponibilità di chi interviene e della Casa del Popolo di San Niccolò (via di San Niccolò 33r), Al termine degli incontri chi vorrà potrà continuare a ragionare all’aperitivo del circolo.


Stop alla cooperazione con Israele, lettera-appello di 200 docenti, ricercatori e dipendenti dell’Università di Firenze

Gentile Rettrice, gentili colleghe e colleghi, rappresentanti del SA e del CDA,

vi scriviamo, nella vostra qualità di massimi rappresentanti del nostro Ateneo, per chiedervi che la comunità accademica fiorentina prenda una posizione chiara in merito alla partecipazione al bando pubblicato dal MAECI in attuazione dell’accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia e Israele. In una recente lettera-appello, sottoscritta da quasi 2000 accademici italiani, si sottolinea che i progetti finanziabili dal bando possono avere un’applicazione militare (linea 3) oppure sono funzionali alle politiche di oppressione verso i Palestinesi (in particolare la linea 2, dedicata alla gestione delle risorse idriche, da cui le comunità palestinesi sono sistematicamente escluse). Nella lettera si richiede al MAECI la sospensione del bando non solo per ragioni morali, ma anche perché le istituzioni italiane hanno l’obbligo di prevenire e di non essere complici in atti di genocidio secondo la Convenzione ONU del 1948 e, collaborando con le istituzioni israeliane, si potrebbero esporre ad una accusa di complicità alla luce dell’ordinanza cautelare della Corte internazionale di giustizia che ha ritenuto plausibile il rischio di genocidio a Gaza.

Crediamo che questo appello debba essere preso in seria considerazione e che richieda una presa di posizione conseguente, come è accaduto pochi giorni fa all’Università di Torino, dove il Senato Accademico ha approvato una mozione in cui si giudica non opportuna la partecipazione al bando MAECI, visto il protrarsi della situazione di guerra a Gaza e della catastrofe umanitaria che ne consegue. Vi chiediamo pertanto di valutare le forme e i modi per seguire questo importante esempio. Crediamo che, come donne e uomini impegnati nell’educazione, nella scienza e nella cultura, sia nostra responsabilità non abdicare ai fondamentali valori di umanità e solidarietà di fronte ad una strage ripugnante che si sta svolgendo, giorno dopo giorno, proprio sotto i nostri occhi. Siamo fermamente convinti che le generazioni future ci chiederanno conto di quanto ciascuno di noi ha fatto, o non ha fatto, di fronte all’orrore della violenza fratricida di cui siamo oggi testimoni. Per evitare che il mondo precipiti in una spirale di violenza senza fine, in cui sia messa a rischio la stessa sopravvivenza dell’umanità, occorre oggi che ciascuno di noi si impegni per imporre la pace contro la follia della guerra. Per questo è urgente far giungere a Israele e al nostro Governo un segnale forte di dissenso verso la prosecuzione dell’aggressione contro la popolazione palestinese. Abbiamo solo questa flebile speranza per evitare un’escalation che rischia di essere senza ritorno.

Contiamo sulla vostra sensibilità e siamo certi che prenderete in seria considerazione le nostre parole. Allo stesso tempo invitiamo tutti i colleghi dell’Ateneo a sottoscrivere questa lettera e a opporsi all’approvazione di eventuali progetti redatti in risposta al bando MAECI nei propri Dipartimenti.

Con i nostri migliori saluti.

Seguono firme.


Forbes: “Tutti i miliardari under 30 hanno ereditato la loro ricchezza.” Il segreto per diventare ricco? Avere i genitori ricchi.

Il segreto per diventare ricco? Avere i genitori ricchi. Non conta l’impegno o il merito. È quanto emerge dall’ultima ricerca pubblicata da Forbes. Secondo i dati in essa contenuti, per la prima volta in 15 anni tutti i miliardari under30 hanno ereditato i loro ingenti patrimoni.

Secondo Forbes si tratta dei primi segnali di un enorme quanto inevitabile processo di trasferimento della ricchezza: nei prossimi 2 anni soltanto 1.000 persone trasmetteranno più di 5,2 trilioni di dollari ai loro eredi. In un contesto così diseguale, ove l’ascensore sociale è ormai stato manomesso e risulta impossibile invertire la rotta, appellarsi al mito della meritocrazia risulta quanto mai utopistico.

Secondo la società di consulenza Ferilli Associates nei prossimi 20 anni 84.000 miliardi di dollari passeranno di generazione in generazione. Fattore, quest’ultimo, che non investe unicamente il trasferimento della ricchezza di padre in figlio ma anche – e soprattutto – un’ereditarietà della povertà. In parallelo ai dati finora menzionati, infatti, la stagnazione dei salari e il progressivo smantellamento dei diritti della classe lavoratrice rappresentano lo sfondo sul quale avviene un’epocale processo di concentrazione dei capitali nelle mani di pochi e grandi soggetti. 

La domanda, dunque, sorge spontanea: si tratta di un nuovo feudalesimo? 

Tra i giovani miliardari citati da Forbes vi sono l’irlandese Firoz Mistry, 27 anni, e suo fratello Zahan, 25 anni, detentori di circa 4,9 miliardi di dollari derivanti dalle loro partecipazioni in Tata Sons, una società che possiede marchi automobilistici tra cui Jaguar e Land Rover. Firos e Zahan hanno ereditato queste cifre nel 2022 a seguito della morte del padre Cyrus Mistry.

Al secondo posto troviamo la diciannovenne brasiliana Livia Voigt, che gode di un patrimonio che ammonta a 1,1 miliardi di dollari. Ma come ha fatto a guadagnare così tanti soldi? Semplice, non li ha guadagnati. Livia infatti detiene una partecipazione di minoranza nell’azienda specializzata nella produzione di apparecchiature digitali Weg, fondata da suo nonno.

Anche in Italia – ovviamente – vi sono noti esponenti di tale fenomeno. Il diciannovenne Clemente Del Vecchio, ad esempio, a seguito della morte del padre ha riscosso una rilevante quota di partecipazione in Loxottica che lo ha coronato come il più giovane miliardario al mondo. Spoiler: senza aver mai lavorato un giorno.

Anche in una città come Firenze il fenomeno del trasferimento generazionale della ricchezza produce notevoli conseguenze. Nel capoluogo toscano, infatti, le famiglie più ricche del rinascimento risultano essere le più ricche nella Firenze di oggi. Insomma, la ricchezza è sempre nelle mani delle stesse famiglie. Uno studio condotto da Guglielmo Barone e Sauro Micetti, due economisti della Banca d’Italia, prendendo in esame il censimento del 1427, ha evidenziato come chi ha un determinato cognome abbia preservato la propria ricchezza familiare nell’arco di 600 anni. Una tale conservazione mette in luce non solo come la ricchezza sia stata tramandata di generazione in generazione, ma anche come siano rimaste inalterate le medesime disuguaglianze sociali nel corso dei secoli. In poche parole, neanche 25 generazioni hanno determinato un cambiamento in termini di rapporti di potere nella città toscana.

In 600 anni, dunque, non è cambiato nulla.

Coloro che si trovavano ai vertici della gerarchia sociale nel 1427 hanno mantenuto intatta la loro posizione. Il caso fiorentino incarna le tendenze degenerative di un fenomeno che gradualmente si appresta a divenire globale. Trattasi di un sistema feudale che si autoriproduce nel corso dei secoli e che non ammette mutamenti. Lo scenario che emerge è paradossale: come se esistesse un principio che impedisce ai ricchi di scivolare nei gradini più bassi della gerarchia sociale.

La conclusione è semplice: non solo i ricchi sono sempre più ricchi. Ma i ricchi sono sempre gli stessi.

 


Come nasce un personaggio working class

Domenica si è concluso il secondo Festival di Letteratura Working Class, organizzato dal Collettivo di Fabbrica Gkn, Edizioni Alegre, Soms Insorgiamo con la collaborazione di Arci Firenze. La riflessione del personaggio di uno dei romanzi presentati: “La fabbrica dei sogni” di Valentina Baronti, Edizioni Alegre.

Sono nata il 7 aprile del 2024. Sono nata su un palco operaio ricavato sul cassone di un camion. In un piazzale di asfalto davanti a una fabbrica. Sono nata in mezzo a migliaia di persone arrivate da tutta Italia e anche dall’Europa: lì, in quella periferia commerciale, e non più industriale, dove il capitalismo morde e ci entra sotto pelle. Lì, dove si compie il miracolo di pannelli fotovoltaici che fanno mille chilometri per illuminare un presidio sindacale, messo in ginocchio da un atto criminale. Sono nata tra gli applausi e le grida di incitamento. Tra le carezze e le attenzioni di chi accoglie le emozioni e se ne prende cura.  Sono nata nel dolore e circondata da amore.

La mia è stata una gestazione lunghissima. Tre anni mi ci sono voluti per uscire dall’utero e respirare. Tre anni nei quali la mia mamma non aveva il coraggio di lasciarmi andare: o respirava lei o respiravo io. E io allora l’ho lasciata respirare e ho aspettato che arrivasse il momento.

La mia ora è scattata nel pomeriggio dell’ultimo giorno del festival di letteratura working class. Alla fine di tre giorni di riflessioni, risate, entusiasmo, cultura, musica, teatro, mobilitazione, cortei, relazioni. Tre giorni in cui ho sentito il battito del cuore della mamma salire e scendere, il respiro farsi corto. L’ho sentita ridere e piangere, parlare e fingersi calma, arrabbiarsi, preoccuparsi, emozionarsi e sognare. Ancora una volta. Ci sono momenti in cui l’ho sentita davvero tanto stanca. Momenti in cui l’ho accompagnata a rifugiarsi nel centro commerciale lì davanti, come se avesse bisogno di un non luogo, per scacciare per un attimo tutte quelle emozioni e calmare il respiro. Io ero sempre con lei, anche se non lo sapeva. Non l’ho lasciata mai sola. Sapevo che tutto quel dolore erano le doglie del parto, che tutta quella paura arrivava dalla consapevolezza inconscia che era giunta l’ora di tagliare il cordone.

Poi a un certo punto l’ho sentita tremare e abbiamo salito insieme le scalette del camion e quando si è seduta ho sentito l’odore acre dell’adrenalina e il cuore farsi improvvisamente calmo. Così mi sono accoccolata nella sua pancia, per godermi gli ultimi istanti di quel silenzio ovattato. Ero pronta. Sono uscita sotto un meraviglioso sole di aprile, proprio mentre lei stava dicendo: “Oggi, su questo palco, le persone in carne e ossa che hanno ispirato i personaggi di Agata e Lorenzo, muoiono. Vivono invece i due personaggi, che ci rappresentano tutte e tutti noi solidali e tutti loro operai. È questa per me l’essenza dell’io che diventa noi”.

Improvvisamente, su quel piazzale, era calato un silenzio surreale, eppure il vagito che mi ha messo al mondo non l’ha sentito nessuno. Ma la mamma sì. Lei l’ha sentito. Ed era felice. Felice per quei tre giorni di festival, per quei tre anni di lotta, per quelle palle lanciate sempre più lontano dal Collettivo di Fabbrica Gkn, per quella speranza che ogni volta rinasce dalla cenere, per quell’affetto, per la cura che ha ricevuto. Era così felice che non mi ha sentito mentre mi allontanavo da lei e mi mescolavo tra la folla.

Io, nata già adulta, mi sono unita a tutte le altre e sono ancora lì, davanti a quei cancelli, pronta a difenderla questa fabbrica dei sogni che mi ha messa al mondo.

Agata


Una nuova strada di scorrimento attraverso il parco di Sal Salvi: uno scempio da scongiurare

Fra le peggiori conseguenze che ci consegna il Nuovo Piano Operativo (POC), lo strumento che detta le regole urbanistiche del Comune di Firenze, c’è senz’altro da annoverare il progetto infrastrutturale di una nuova viabilità nell’area di San Salvi, che partendo da via del Mezzetta raggiunge l’anello viario che circonda il complesso monumentale dell’ex ospedale psichiatrico ed esce su via Andrea del Sarto, costituendo un vero e proprio asse di penetrazione e scorrimento che non potrà che compromettere irrimediabilmente , con il suo devastante impatto, il già problematico assetto del parco storico di San Salvi.

A nulla sono servite le richieste delle associazioni e dei comitati per l’eliminazione del progetto presentando le Osservazioni al POC, sulla base della sua evidente incompatibilità con il parco pubblico, né l’opposizione degli stessi cittadini che nel recente “Percorso partecipativo per la rigenerazione urbana del complesso di San Salvi” hanno ribadito, nei vari tavoli tematici, il rifiuto della nuova strada ,sollecitando nel contempo una drastica riduzione delle troppe auto attualmente in sosta e in circolazione dentro l’area che nei giorni feriali è ridotta ad un immenso parcheggio, con centinaia di auto che vanno e vengono, non sempre rispettando i limiti di velocità. Un problema che che secondo l’Amministrazione, va risolto, non limitando e regolamentando il flusso veicolare dentro San Salvi per renderla finalmente compatibile con le esigenze di sicurezza di un parco pubblico, ma fluidificando il traffico con l’apertura di nuovi punti di accesso e di uscita collegati a via del Mezzetta e via Andrea del Sarto. Un provvedimento che non farà che richiamare più auto, più congestione e più inquinamento, stravolgendo la funzione del parco quale oasi di pace e quiete, separata dal traffico convulso della città, dai suoi rumori e veleni e dai suoi sempre incombenti pericoli.

San SalviInoltre, se verranno incentivate la libera circolazione e la sosta in San Salvi, come si potrà impedire che i futuri abitanti dei nuovi alloggi di Edilizia Residenziale Sociale previsti nel padiglione interessato dal cosiddetto “ Progetto di rigenerazione urbana” non pretendano dei parcheggi pertinenziali per le abitazioni, sottraendo ulteriore spazio al parco, in una logica privatistica ed esclusiva. Con questa dissennata scelta viabilistica, che conferma l’intoccabile autocrazia dell’automobile, viene naturale chiedersi quanto sia reale e coerente l’obiettivo strategico perseguito dall’Amministrazione comunale di ridurre il traffico privato a beneficio del trasporto pubblico, se anche in un’area di pregio a vocazione naturalistica, come San Salvi, dalle dimensioni limitate e attraversabile in tempi brevi anche a piedi, non possa essere, se non nell’immediato, in un prossimo futuro liberata quasi totalmente dal traffico. Sarebbero necessarie, prioritariamente, delle misure di pianificazione trasportistica per ridurre progressivamente la dipendenza dal mezzo privato, e spostare le esigenze di mobilità dall’automobile al mezzo pubblico, per decongestionare non solo l ‘area ma anche la stessa viabilità di contorno. Si pensi, a tale fine, alle potenzialità offerte dalla stazione ferroviaria a San Salvi, prevista da decenni e ancora da realizzare o all’opportunità di un servizio di minibus per gli scolari della scuola elementare Andrea del Sarto per eliminare le tante auto che entrano quotidianamente in San Salvi per accompagnare e riprendere i bambini fino al cancello della scuola; così come della necessità di parcheggi esterni al perimetro dell’area per la quota di coloro che gravitano per lavoro su San Salvi e non possono rinunciare all’auto, o per i suoi futuri locatari di cui si è sopra accennato.

Infine per completare l’informazione su San Salvi ci sembra utile riportare le proposte da noi formulate nella Osservazione al POC, in ordine ad una viabilità alternativa al suo interno.

“Onde rispettare le finalità istitutive del parco e garantire ai suoi fruitori di circolare liberamente al suo interno, a piedi o in bicicletta e per attività motorie e sportive, nella massima sicurezza possibile, in particolare tutelando le fasce più vulnerabili come i bambini, i disabili e gli anziani, si rende necessario, nel caso specifico del complesso di San Salvi che per l’insieme di funzioni e servizi in esso presenti non può essere totalmente interdetto alla circolazione veicolare, i seguenti accorgimenti :

  1. limitare rigorosamente l’ingresso, con sistemi adeguati di controllo, esclusivamente ai mezzi di servizio logistico di rifornimento, e al trasporto di alcune particolari categorie di utenti, come gli anziani e i disabili, delle strutture sociosanitarie in esso presenti;
  2. ridurre con opportuni dissuasori, la velocità dei veicoli circolanti a passo d’uomo, dando la precedenza assoluta a bambini e pedoni,
  3. vietare la sosta permanente nell’area, limitare quella temporanea alle strette esigenze del servizio che deve essere svolto. I due parcheggi che si prevede di realizzare all’esterno del parco devono avere la funzione primaria di decongestionare l’area, di liberarla progressivamente dalle auto e dal loro inquinamento acustico e atmosferico.”

Come era prevedibile la promessa di migliorare il nuovo strumento urbanistico, anche sulla spinta delle Osservazioni presentate al POC, mettendo al centro le esigenze della persona e dell’ambiente, è stata disattesa. Per questo continueremo a batterci come comitati e come cittadini, anche mediante un’opera di sensibilizzazione con la raccolta di firme per una petizione (anche online: https://www.change.org/p/salviamo-il-parco-di-san-salvi) contro la nefasta strada di scorrimento dentro San Salvi, fino a quando il suo parco pubblico non sarà restituito al pieno godimento del suo legittimo destinatario: la collettività.

Comitato San Salvi chi può

 


La città e il carcere: il volto meschino di Sollicciano

Cappellano del carcere fiorentino per vent’anni, Vincenzo Russo ne denuncia la disumanità. E accusa chi sta fuori: dalla politica a chi è schiavo di vili interessi. A pagare sono i poveri e i fragili. Da Fuori Binario / Aprile 2024

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In questi ultimi tempi, tra le pagine dei giornali, si legge spesso del carcere e della drammatica condizione in cui si trovano a vivere le persone detenute. A muovere questo interesse, solitamente assente, fatti recenti che hanno raggiunto la spesso sopita attenzione dell’opinione pubblica. Mi riferisco, particolarmente, alla decisione di un giudice del Tribunale di sorveglianza di Firenze che ha accolto il ricorso di un ex detenuto dell’Istituto penitenziario fiorentino di Sollicciano, il quale denunciava il trattamento inumano della detenzione subita. Fuori Binario ne ha parlato nel febbraio scorso. Ebbene, il giudice ha riconosciuto la ragione di questo ricorso e appurato il “trattamento inumano e degradante” che va in scena in quel carcere, concedendo così un importante sconto di pena al facente ricorso.

Quale impressionante lontananza tra quanto accertato dal Tribunale e quella storia e cultura toscane così intrise di umanesimo, spesso vantate come uniche e attuali! Quanto accade nel carcere fiorentino dimostra invece un volto diverso, meno bello e anzi meschino, capace di gettare via in un colpo di spugna secoli di storia e tradizione umanistica. L’opinione pubblica sembra essersi un po’ destata, incuriosita. Ma a parte questo cosa succede in concreto? Non basta un vago e formale principio di solidarietà, uno scontato giudizio di disapprovazione. Occorre molto di più, perché realmente si inizi a farsi carico della vita di tutte quelle persone che sono gettate dietro le sbarre, pigiate in una povertà che rovina e affligge. Si afferma, da parte di alcuni, che il carcere sia un “male necessario”, quasi inevitabile. Ciò appare una semplificazione di comodo, la giustificazione per un successivo non far nulla.

Sollicciano, il carcere intollerabile

Tutti siamo interpellati di fronte a ciò che accade oggi nelle carceri. Ciò che emerge inequivocabile circa quello fiorentino di Sollicciano, è intollerabile. La lista è lunga e deplorevole. I suoi ambienti degradati, pieni di muffe e umidità, le celle piccole e malmesse abitate da cimici e altri parassiti, il tempo vuoto che scorre ferendo e affossando, l’assenza di veri percorsi di recupero e socializzazione, la condizione di tante persone lì recluse che vivono un disagio mentale o vere e proprie malattie psichiche, lo scontro fra gruppi etnici animato dal controllo dello spaccio che lì avviene abbondantemente e avviluppa in una morsa senza fine i tanti tossicodipendenti presenti. Tutto questo non può essere considerato conseguenza inevitabile e necessaria di ogni società umana. Direi, piuttosto, che ne è il frutto, anzi lo specchio. La società è dormiente ed in balìa di istinti, non prende coscienza che anche questa città è un carcere a cielo aperto. Lo spaccio che abbondante si svolge all’interno dell’istituto è parte di una rete che viene da lontano, dall’esterno.

Fuori dalle mura della bellezza

Fuori da quelle mura, nella Firenze delle bellezze artistiche e dalla storia importante, dilagano in modo crescente situazioni di povertà. La disoccupazione fa la sua parte ed è ancora più pesante perché spesso legata a ciniche decisioni di delocalizzazione da parte delle aziende. Tante famiglie sono allo stremo e sempre più sole ad affrontare gravi problemi, tra cui quello abitativo. Cosa dire poi dell’insicurezza che aumenta di fronte ad una criminalità sempre più vasta e subdola, quasi invisibile, che sfrutta storie disgraziate di miseria e pesca a piene mani nel destino tragico di tanti invisibili e disperati, molti dei quali provenienti da un sistema di accoglienza che si rivela fallimentare?

La comunità deve saper opporsi

Occorre prendere coscienza come comunità, reagire, opporsi. Il carcere è il problema oggi ma è parte di un problema più grande, è solo la punta dell’iceberg. La città e il carcere sono indissolubilmente legati, nonostante si voglia, ad ogni costo, separarli. Ciò che accade al di qua e al di là di quelle mura è reciprocamente influenzato, connesso. Ciò che rattrista e risulta incomprensibile è il non capire questo e il separare nettamente i due luoghi. Si pensa, infatti, che il carcere non debba essere affatto considerato parte della città, ma sua estrema periferia, quasi invisibile! Ciò che avviene dentro non deve essere conosciuto fuori, perché turba, danneggia il quieto vivere. Ricorderebbe a questa società distratta che c’è tanta povertà, tanta ingiustizia, tanta contraddizione al suo interno. Tale separazione diventa incomunicabilità. Ma allora sorge, inquietante, un interrogativo. Come possono, dietro quelle sbarre, rigenerarsi vite che devono reinserirsi proprio in quella società che si tiene così lontana e si mostra, al limite, giudicante? Evidentemente c’è qualcosa che non torna e la realtà è un’altra. Sollicciano, come ogni altro carcere, è parte integrante della città e della sua comunità e per quanto lo si tratti da periferia, esso è, in verità, assai legato alla realtà che lo circonda. Ne è il segno, in parte il frutto, l’esemplificazione e l’eco.

Niente di buono nasce in carcere

Se vogliamo dirla tutta, il carcere in sé è qualcosa che non funziona e che difficilmente produrrà qualcosa di buono e si dimostrerà utile. Ma indubbiamente, e a maggior ragione, esso deve almeno garantire condizioni di piena giustizia e di diritto. Ciò che è e sarà dipende e dipenderà molto dalla società fuori, dalla città di cui fa parte. Se vogliamo sperare in un qualche cambiamento, andando a ritroso ed uscendo dalle mura degli Istituti di pena, si deve trovare anzitutto una città non più ingabbiata come adesso, non più schiava di vili interessi. Soprattutto con una coscienza libera, attenta e sul pezzo.

Basta con la politica dei proclami

Non è più tempo di proclami, di sterili contestazioni, di demonizzazione dell’avversario al fine di imporre sé stessi. Non fa intravedere soluzioni una pur affabulante ricerca di nuovi assetti o curiosi accordi di gestione e potere, che copiosi ci sono presentati in questo tempo di promesse e campagne elettorali. Nessuno può attendersi veri cambiamenti da una politica sempre più spettacolarizzata e interessata all’immagine, frutto di visioni e interessi di parte. Eppure, è tempo di agire, urgentemente: non contro ma per, con impegno. L’intera società civile, tutti noi, dobbiamo quindi mettere a disposizione la testa, il cuore, le mani e le braccia per costruire una nuova dimensione di comunità, nella quale l’oltraggio alla persona, che avviene nelle carceri, non abbia mai più cittadinanza.

Vincenzo Russo è stato cappellano del carcere di Sollicciano fino al 2023. Casa Caciolle, sita a Firenze tra Novoli e Ponte di Mezzo, ospita persone detenute con pena alternativa al carcere.
Info su www.casacaciolle.it.


 La città pornografica

 

Una società della trasparenza, sommersa da una informazione che si consuma nell’istante della sua novità, da una pioggia di videocamere, da dispositivi di intelligenza artificiale che registrano la memoria dei cittadini, e da altri dispositivi che riescono a controllarli ad un livello pre-riflessivo. Smontando e rimontando vari pezzi dell’ultimo libro di Byung-Chul Han La crisi della narrazione, (d’ora in avanti in corsivo), immaginiamo una città pornografica, ogni riferimento a Firenze, alla deriva securitaria della città attuale fatta solo con videocamere, con l’esercito, con la repressione dei più deboli, non è casuale.

In un’intervista Paul Virilio menziona una breve storia di fantascienza nella quale viene raccontata l’invenzione di una telecamera estremamente minuscola. Essa è così minuscola e leggera da poter essere trasportata finanche da un fiocco di neve. Un numero enorme di queste microcamere viene mischiato con la neve artificiale e sparso nel mondo da aeroplani. Gli esseri umani pensano che stia nevicando ma in verità il mondo viene infestato da queste microcamere e così diventa completamente trasparente. Nulla resta più nascosto. Non ci sono più punti ciechi.

Ma non basta l’abbuffata di telecamere di videosorveglianza, per placare il delirio securitario (200 agenti in più e Firenze diventa la città dei tuoi sogni. Garantito da Dario), anche il singolo cittadino deve essere trattato per rendere la città trasparente. L’odierno disincanto è il risultato dell’informatizzazione del mondo e il suo modello di riferimento è la trasparenza. Essa disincanta il mondo riducendolo a dati e informazioni. […]  In questa società trasparente ciascuno ha un dispositivo impiantato dietro l’orecchio che archivia qualsiasi cosa abbia visto o vissuto. In questo modo tutto può essere riprodotto o direttamente negli occhi di coloro che hanno questo dispositivo o su monitor esterni, senza alcuna lacuna. […] Non vi è più alcun segreto. Per i criminali è impossibile nascondere i loro crimini. [Ma] L’essere umano è, per così dire, imprigionato nei suoi stessi ricordi.

Le piattaforme digitali, l’intelligenza artificiale, hanno anche la possibilità di conoscere i dati riguardanti i desideri e le inclinazioni, inconsce dei phono sapiens, sottomessi al dominio smart dell’informazione intrecciata di neoliberismo, che pretende da noi che comunichiamo senza sosta le nostre opinioni, i nostri bisogni e le nostre preferenze, [che] ci chiede di raccontare le nostre vite, di postare, condividere, mettere like. […] Tanto più la coscienza è assente, quanto più la qualità dei dati è migliore. Questi dati permettono l’accesso alle sfere dell’agire e del pensare che si sottraggono alla coscienza, offrendo alle piattaforme digitali la possibilità di ottenere una radiografia della persona e di controllare i suoi comportamenti a un livello pre-riflessivo. […]  Nella società dell’informazione e della trasparenza la nudità si accentua ulteriormente, fino a diventare oscenità. Non abbiamo a che fare, però, con una oscenità che riguarda ciò che è rimosso, proibito o nascosto, ma con la fredda oscenità della trasparenza, dell’informazione e della comunicazione. […] l’informazione in quanto tale è pornografica poiché è esposizione integrale.

La città così divenuta pornografica, potrebbe far parte del  film di animazione Anomalisa di Charles Kaufman [che] illustra la logica del potere smart. La pellicola presenta un mondo nel quale tutti gli esseri umani hanno la stessa voce. Un mondo che rappresenta l’inferno neoliberista dell’Uguale […]  Michael  Stone, il protagonista, è un motivatore di successo che, un giorno, prende coscienza di essere una marionetta. La bocca gli cade dal viso e lui si trova a tenerla tra le mani. Quando la bocca, che si è staccata ed è caduta, continua a blaterare da sé, è terrorizzato.

Ai poveri abitanti della città pornografica non resterà che asportarsi l’orecchio e non solo quello, con la lama del rasoio.

Byung-Chul Han, La crisi della narrazione, Einaudi, Torino, 2024, pp.111, euro 13,00

 


L’assedio di Gaza, genocidio di un popolo. La Palestina deve vivere. Di chi sono le responsabilità?

Le risoluzioni ONU in merito sono sempre state disattese e l’opinione pubblica è sempre più omertosa sulla questione palestinese anche perché vige il ricatto subdolo della retorica perversa di potere vantata e perpetrata dal governo di Israele. È doveroso e quanto mai necessario esporre una denuncia molto dura e serrata per tenere desta l’attenzione sulla questione palestinese, su quello che sta avvenendo in questi giorni a Gaza e in Palestina. Ennesimi bombardamenti israeliani sul popolo Gazawi brutalmente sottomesso e di cui nessuno parla per paura di ritorsioni e ricatti e denunce.

La mistificazione e la propaganda di guerra

I massmedia e mainstream ortodossi tacciono o meglio mistificano in una terribile propaganda di guerra le verità sulla Palestina e sul suo popolo martoriato.

Si tacciono le operazioni militari di Israele contro il popolo palestinese: un autentico stillicidio, un massacro, un genocidio.

E’ necessario che tutti gli attivisti e gli intellettuali prendano ferma convinzione e posizione

Un attacco militare da parte del governo israeliano che perpetua un meditato genocidio su un popolo e sulla frangia più indifesa e fragile della popolazione come i bambini e perlopiù affetti da rare e gravi patologie. È utile e necessaria una importante presa di posizione da parte di tutti gli attivisti per la pace e la nonviolenza per mantenere desta l’attenzione di questo nostro segmento di storia contemporanea, questa guerra ininterrotta e infinita che si perpetua di generazione in generazione dal 1948.

Le disattese risoluzioni delle Nazioni Unite

Le risoluzioni ONU in merito sono sempre state disattese e l’opinione pubblica è sempre più omertosa sulla questione palestinese anche perché vige il ricatto subdolo della retorica perversa di potere vantata e perpetrata dal governo di Israele.

Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele

Embargo contro Israele, un dossier a cura di BDS Italia. Con il sostegno di PeaceLink e con la collaborazione del collettivo A Foras. Israele applica un regime di apartheid nei confronti della popolazione palestinese, violandone i diritti umani e politici.

Mosaico di Pace presenta: Recensione al Dossier Embargo militare contro Israele 

Embargo militare contro Israele. Dossier a cura di BDS Italia. Con il sostegno di PeaceLink. Con la collaborazione del collettivo A Foras.

La raccolta di voci autorevoli contro l’occupazione

Il libro-dossier Embargo militare contro Israele raccoglie voci autorevoli del pacifismo italiano che denunciano un aspetto geopolitico storico molto rilevante, ossia la durata e l’estrema difficoltà della resistenza palestinese di fronte a un’aggressione coloniale di insediamento, così determinata, durevole, violenta e spietata senza precedenti nella storia recente e contemporanea.

L’occupazione dei territori palestinesi da parte di un aggressore razzista e suprematista

Questa occupazione avviene inoltre da parte di un aggressore così razzista, suprematista e così tanto superiore negli armamenti e nella volontà di deportazione e di autentico e lento sterminio e stillicidio di un presunto nemico, in realtà innocente, mite, pacifico, colpevole esclusivamente di vivere tranquillo in quella terra che con sottile inganno chi vuole rubarla e derubarla a mano armata pretenderebbe di definire contesa.

Un dossier molto importante

Questo dossier è a cura di BDS Italia, con la collaborazione del collettivo A Foras e con il sostegno dell’associazione PeaceLink – Telematica per la Pace. La sapiente postfazione è di Giorgio Beretta. Coordinatore del progetto è Raffaele Spiga.

Perché tutte queste realtà e tutti noi attivisti per la pace nel mondo e Amnesty International e molti governi chiediamo l’embargo militare totale nei confronti di Israele? 

Questo embargo militare è volto alla cessazione e al blocco degli scambi commerciali, scientifici, accademici di tipo militare e securitario con Israele. Il governo di Israele spende una grandissima parte del suo prodotto interno lordo per il settore militare. Tutto questo complesso di difesa e il sistema militare e il quantitativo in armi vengono veicolati e utilizzati per commettere gravissime infrazioni dei diritti politici e umani, in violazione con il diritto internazionale, nei confronti del popolo palestinese e a perpetuare un regime di discriminazione e segregazione, un’imposizione di durissimo Apartheid contro i palestinesi.

In Palestina l’Apartheid come in Sud Africa. La necessità di sanzioni e disincentivi e disinvestimenti

Come avvenne ai tempi dell’Apartheid in Sudafrica, nei primi anni ’80 del secolo scorso, la mobilitazione dei vari governi e il diritto internazionale hanno tutta la possibilità e potenzialità di contribuire a destituire e rovesciare, anche con sanzioni e disincentivi e disinvestimenti, il sistema coloniale e il regime di segregazione che Israele impone ai palestinesi.

Le connivenze dell’Occidente con il regime di Israele

L’Italia e l’Unione Europea sono purtroppo conniventi con Israele e coinvolte nell’interscambio di tecnologie nei sistemi di sicurezza e a uso bellico, tramite manovre di collaborazione in settori strategici e con finanziamenti, mentre gli Stati Uniti forniscono sostegni, incentivi e investimenti a tutto il settore militare israeliano per decine di milioni di dollari al giorno.

E’ necessario un embargo contro il governo israeliano

Per tutte queste motivazioni risulta quanto mai urgente attivare un embargo militare totale contro Israele, fino a quando questo governo infame non riconoscerà l’uguaglianza dei diritti umani a tutti gli abitanti della Palestina storica.

Le complicità dell’Unione Europea e degli Stati Uniti e il servilismo del governo italiano

Israele dovrà ritirarsi da tutti i territori occupati e dovrà liberare tutti i prigionieri politici detenuti nelle sue famigerate carceri e dovrà permettere il ritorno di tutti i profughi. La società civile palestinese chiede da molto tempo un embargo militare contro Israele finalizzato a porre un divieto e una fine alla complicità tra le potenze militari dell’Unione Europea, degli USA e dell’Italia.

Un popolo distrutto dallo strapotere di un governo occupante e criminale

E’ necessario un embargo militare per rendere sempre palese e evidente la responsabilità del governo di Israele in tutti i suoi crimini di guerra che ledono pesantemente la dignità degli essere umani e per porre finalmente la parola ‘fine’ nella storia alla violenza perpetrata dal governo militare di Israele contro il popolo palestinese.

L’attivismo per la Palestina. Una speranza inestimabile e sempre attuale

Gaza vive ancora grazie a questo Mosaico di Pace attivista e alle tante associazioni filopalestinesi che spendono e dedicano la vita a una causa nobile come è la sopravvivenza ed esistenza del popolo palestinese e di tutti i popoli del mondo, nel filo rosso dell’amore per l’umanità intera.

L’attivismo per la pace messo a dura prova dalle condizioni attuali di genocidio a Gaza

L’impegno civile e l’attivismo sociale dell’associazionismo filopalestinese si pongono il nobile intento di solidarizzare e aiutare e soprattutto di cercare di salvare un popolo da una condizione di brutale e indescrivibile oppressione da parte di una nazione occupante e di una situazione perversa di dominio da parte di uno strapotere prepotente e assassino.

Un Mosaico di pace di attivisti e volontari e intellettuali “per ricomporre l’infranto”

Gaza vive ancora grazie a questo Mosaico di Pace attivista e alle tante associazioni filopalestinesi che spendono e dedicano la vita a una causa nobile e meritevole come è la sopravvivenza ed esistenza del popolo palestinese e di tutti i popoli del mondo, nel filo rosso dell’amore per l’umanità intera. L’impegno filopalestinese è un’attività costruttiva perché si prodiga e volge verso gli altri e lotta per difendere la vita sopra ogni altra cosa e per creare solidarietà e cercare voci, braccia, menti, cuori e persone al plurale evitando il soggettivismo e l’individualismo.

Tutti uniti ci si salva e non da soli

Perché “solo tutti insieme ci si salva e non uno per uno”. E un ‘assolo’ riceverebbe più forza e spinta vitale compartecipando in percorsi collettivi e plurali con tutti coloro che sono impegnati nella causa più alta della salvezza dell’umanità. 

La controinformazione e l’informazione vera e autentica e sincera dell’attivismo per la Palestina

Le associazioni a favore della Palestina fanno informazione e controinformazione, in quanto vi è necessità di raccontare la Palestina, sfidando censure e compensando ciò che dovrebbero fare i grandi media.

Il sostegno a Gaza è una realtà umanistica ancor prima che umanitaria

L’attivismo per la Palestina è una realtà umanitaria e anche umanistica, in quanto riguarda l’essere umano, la sua vita, la cultura, le sue radici. È volto a convertire l’io in un noi pluralista e solidale con tutti. Declinando il singolo al plurale per vivere il dono dell’azione non alla maniera individualistica di una sfida personale, ma come progetto compartecipato di trasformazione che accomuna e rende liberi e felici e uguali, in cui anche il singolo nutre gli ideali e l’animo più nobili, in quanto elimina l’egoismo che vive in natura. 

La salvezza di un popolo depredato e dimenticato e umiliato

Una realtà importante insieme al mosaico di pace di tutti gli attivisti impegnati per le cause della salvezza dei popoli dell’umanità e in particolare di un popolo umiliato e depredato e sottomesso e massacrato come quello palestinese.

Un popolo distrutto dallo strapotere di un governo occupante e criminale.

Ma la Palestina e Gaza hanno le risorse per R-esistere e gli attivisti per la Palestina sono tra queste grandi opportunità.

Sitografia per approfondire:

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Bibliografia essenziale:

  • Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Resistenza e nonviolenza creativa, Mimesis Edizioni.
  • Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Memoria e futuro, Mimesis Edizioni. Con scritti e partecipazione di Vittorio Agnoletto, Moni Ovadia, Alex Zanotelli, Giorgio Cremaschi, Maurizio Acerbo, Paolo Ferrero e altr*

 

 

 

 


La geotermia in Amiata non è sostenibile

Lettera aperta al Presidente Eugenio Giani in occasione della giornata “Geotermia” di giovedì 21 marzo 2024 nell’ambito del primo Festival dell’Identità Toscana

La montagna è un territorio complesso e delicato dai cui equilibri dipendono interi territori a valle. Va protetta, tutelata nelle sue acque, nella biodiversità, nei suoi boschi elementi fondamentali all’interno dei mutamenti climatici. Rappresenta un luogo dove nascono e prendono vita progetti di qualità, molte realtà sono parchi naturali, regionali o nazionali. Per L’Amiata, montagna a tutti gli effetti, deputata a diventare in passato un parco naturale, avete disegnato un altro percorso, quello dello sfruttamento geotermico a fini elettrici. Ed allora le parole a tutela delle zone montane appaiono lontane e inconsistenti.

La stampa si guarda bene dall’informare sul disastro ambientale che si sta realizzando in Amiata, solo notizie per rassicurare: nessun rischio per le acque, i nuovi impianti migliorano la qualità delle emissioni; non è attività pericolosa. Per far digerire la distruzione del paesaggio montano e rurale del comprensorio amiatino state coniando “il paesaggio geotermico”. Ci dica caro Presidente: cosa c’è di rinnovabile in una energia che, con le attuali tecnologie, si esaurisce in tempi brevi; cosa di sostenibile in una attività che sta prosciugando uno tra i più importanti bacini idrici del centro Italia, i sondaggi piezometrici hanno confermato l’abbassamento della falda acquifera di oltre 200 metri. Per non parlare del serio rischio sismico e del fenomeno della subsidenza. Corrisponde al concetto di energia pulita emettere nell’aria tonnellate di mercurio, idrogeno solforato, ammoniaca, radon, arsenico … un mixer di sostanze definite “pericolose per la salute umana e il territorio circostante”. Avendo a riferimento i valori medi dal 2002 al 2016 riportati nello Studio a firma Ferrara, Basosi, Parisi “Data analisys of atmospheric emission from geothermal power plants in Italy (Analisi dei dati delle emissioni atmosferiche dalle centrali geotermiche italiane)”, pubblicato il 30/07/2019, si ricavano, per la produzione geotermica del 2019 pari a 6.074,9 GWh, le emissioni di 8.140 tonnellate di Acido solfidrico, 2.934.000 tonnellate di Anidride carbonica, 43.132 tonnellate di Metano, 7.473 tonnellate di Ammoniaca, 301 tonnellate di Monossido di carbonio, 12 tonnellate di Anidride solforosa, 2.260 Kg di Mercurio, 243 Kg di Arsenico, 249 Kg di Antimonio. Gli studi epidemiologici non convincono davvero. Chi crede più ormai “al tutto è a posto”, ai toni rassicuranti. Non sarà certo per gli stili di vita, come è stato ripetuto più volte negli studi che gli amiatini sono sottoposti ad ammalarsi per un 30% in più rispetto alla media regionale.

Il nostro territorio si sta svuotando, l’immagine dell’Amiata è sempre più debole, le ferite al territorio e alle risorse sempre più pesanti, le abitazioni hanno perso valore nel mercato. Il Paer del 2015 fissava a 100 MW il limite della produzione di energia geotermica sul Monte Amiata per tutelare la vocazione naturale del territorio e la sua economia. La produzione è oggi a 121 MW. Lei parla di raddoppiare la produzione geotermoelettrica in Toscana grazie al Monte Amiata e di creare il 2°Polo industriale geotermico. Quante ulteriori centrali? Dieci, quindici, venti?

Lei, qualche tempo fa, si è rivolto ai giovani per spingerli a tenere gli occhi sempre aperti, li invitava a ritrovare le ali, a essere cittadini e non sudditi. A noi, caro Presidente, avete tarpato le ali nel momento in cui ci avete imposto lo sfruttamento geotermico; ai nostri giovani non consegnerete un futuro, ma una terra defraudata delle sue risorse. Molti se ne vanno, altri rimangono ed hanno amore per la loro terra. Non hanno certo partecipato alle scelte di sviluppo del territorio. Come del resto anche noi, cittadini adulti, ne siamo rimasti esclusi. L’Amiata ha radici profonde, identità forti che nonostante tutto mantiene, un forte senso di appartenenza alla terra. Ed è per questo che la difendiamo. La tutela del territorio è la premessa indispensabile per avviare un nuovo modello di sviluppo. Non crediamo che quello che la regione propone per l’Amiata, nella sostanza, possa definirsi tale.

RETE NAZIONALE NOGESI

SOS GEOTERMIA

COMITATO SALVAGUARDIA AMBIENTE DEL MONTE AMIATA


Tutti contro il cemento a Rimezzano. Le ragioni del ricorso

Il Comune di Bagno a Ripoli è riuscito in un’impresa non facile. Ha fatto compattare in gruppo tre categorie spesso in contrasto tra loro: residenti, ambientalisti e cacciatori. Tutti fermamente contrari alla previsione che rende edificabile un terreno agricolo nella magnifica valle di Rimezzano. Beneficiario del provvedimento, inserito nel POC (Piano Operativo Comunale) approvato nel luglio del 2023, è la scuola americana che ha sede in una villa della zona.

Al coro unanime si è aggiunta una voce forte e autorevole, quella di Padre Bernardo Gianni. In occasione di un recente incontro pubblico sull’invasione della striscia di Gaza, l’Abate di San Miniato ha condannato la speculazione edilizia, accostando il progetto di Rimezzano al grave incidente avvenuto poche settimane fa nel cantiere di via Mariti a Firenze.

La valle fa parte del territorio dell’Antella, che unisce tra Firenze al Chianti. Nel Trecento i contadini chiamavano per la sua bellezza “il paradiso degli Alberti”, signori della zona. Tanto che per raggiungerlo si può ancora oggi percorrere via del Paradiso, una tipica strada toscana con i muri a secco. Poco lontano, nel Pian di Ripoli, si trovava “l’orto dei Medici”, ettari di buona terra coltivata, abbellita da distese di alberi da frutto, recentemente trasformati in un centro sportivo. L’incanto dei luoghi suggerì agli Alberti (la loro passione per l’architettura sarà poi esaltata dal grande Leon Battista) di far edificare nella valle, lungo la strada che dalla Vecchia Aretina porta alla piana ovest, un oratorio dedicato a Santa Caterina.

Tra queste colline così amate dagli stranieri un istituto culturale straniero ha chiesto di costruire un edificio di 12.000 mq. su due piani con posteggi interrati. Saputa la notizia non si sono ribellate solo le associazioni ambientaliste, Legambiente e Italia Nostra, ma anche i residenti e i cacciatori. Questi ultimi tengono in ordine la più grande area di ripopolamento della provincia, che include Rimezzano. Il Comitato di gestione della riserva ha scritto una lettera di protesta al presidente della Città Metropolitana.

I residenti, radunati in un gruppo spontaneo, hanno invece inoltrato il ricorso in via amministrativa al Presidente della Repubblica. Il documento si basa sulla relazione tecnica di un architetto urbanista che ha individuato nell’atto amministrativo cinque punti di criticità. Innanzitutto il provvedimento non pare conforme al PIT (Piano di Indirizzo Territoriale) della Regione Toscana che regola la gestione del territorio. Non è stato presentato il piano della viabilità, pur necessario. In caso di realizzazione dell’opera aumenterebbe il rischio idrico che riguarda la frazione di Ponte a Ema, situata nel Comune di Firenze e già alluvionata nel 1991. Inoltre il traffico generato in caso di realizzazione dell’opera, un edificio per ottocento studenti, porterebbe al superamento dei parametri previsti per le aree agricole in termini di inquinamento acustico. Infine il progetto non ha alcuna utilità sociale e presenta al contrario evidenti ricadute negative sulla comunità locale.

Il ricorso è stato presentato poche settimane fa al teatro di Pone a Ema in un incontro pubblico a cui hanno partecipato circa 250 persone. Hanno illustrato la situazione architetti, esponenti politici locali e fiorentini, e molti residenti. Uno di loro, nato e cresciuto nella valle dove la sua famiglia abita da cinque generazioni, ha fatto l’intervento più breve e commovente. “Se il progetto dovesse essere realizzato spero di morire prima”, ha detto tra gli applausi del pubblico.


Divinità e supermercati: lezioni di sostenibilità dai popoli indigeni

Consumo e risorse, un equilibrio precario. Nelle società capitaliste i consumi crescono a velocità spaventosa, mentre aumenta il divario con le risorse che li dovrebbero sostenere. La razionalità suggerirebbe di percorrere la strada della riduzione dei consumi, ma il paradigma capitalista non permette l’applicazione di questa banale logica. Al contrario il consumismo è proposto come modello di sviluppo, pure se divoratore cieco delle scorte di risorse che per il genere umano, e non solo, significano il futuro. In altre parole un sistema economico creato dagli uomini sta distruggendo le condizioni di vita degli uomini. Un corto circuito che pare non preoccupare né chi lo impone né chi lo riproduce. Certo, si parla di sostenibilità e di consumo sostenibile, parole che trovano declinazione e attuazione politica con estrema difficoltà.

Viene allora da chiedersi: Perché non riusciamo ad autoridurre il consumo? Che paradigma nuovo possiamo proporre, conciliabile con il nostro attuale ma rivolto alla conservazione o almeno alla riduzione dello sfruttamento delle risorse? La qualità della nostra vita davvero sarebbe così critica se cominciassimo a riconsiderare i rapporti tra gli uomini e i sistemi naturali? Davvero non abbiamo nulla da imparare dai popoli che per tanto tempo abbiamo disprezzato perché considerati, con arroganza, “non sviluppati”?

Difficile dirlo ma possiamo allargare il nostro sguardo, in considerazione di alcuni dati di fatto. I cosiddetti popoli indigeni, secondo la definizione del 1982 della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, sono “Comunità, popoli e nazioni indigene che, avendo una continuità storica con società precoloniali che si svilupparono sui loro territori prima delle invasioni, si considerano distinti dagli altri settori della società che ora sono predominanti su quei territori, o su parti di loro. Essi formano, attualmente, settori non dominanti della società e sono determinati a preservare, sviluppare e trasmettere alle future generazioni i loro territori ancestrali e la loro identità etnica quali basi della loro perdurante esistenza come popolo, in accordo con i propri modelli, istituzioni sociali e sistemi legislativi”.

Si calcola che la percentuale di popoli nativi rispondenti alla definizione, sparsi in tutto il globo, si aggiri intorno al 4-5 di quella mondiale, ma che detengano tra l’80 e il 90% della biodiversità, naturale e culturale, del pianeta. Come si interpretano questi dati? Le conclusioni portano a indicare come i popoli indigeni siano più bravi a operare sostenibilità, tutelando la natura e le sue risorse. Altra considerazione che ne consegue è che la maggior parte della popolazione mondiale presenta un grado altissimo di omologazione culturale. Tradotto in termini semplici, le società culturalmente ed economicamente egemoniche consumano, sfruttano, inquinano, distruggono, deforestano, producono rifiuti in enormi quantità e anidride carbonica in modo insensato, mentre a quelle che hanno cura dell’ambiente in cui vivono, che rispettano le regole naturali sfruttando le risorse in modo sostenibile, è affidato ormai il ruolo di “custodi” della natura.

Non si tratta di sviluppare una visione “romantica” dello stato di natura, e nemmeno soltanto di stabilire regole che proteggano gruppi umani sempre più minacciati nei loro diritti di sopravvivenza in favore del profitto ricavabile dai loro territori. Rifiutiamo anzi l’immagine, tutta nostra, di liberi e felici società incorrotte, armoniosamente integrate nel loro ambiente naturale, vicine alla natura e immuni dalla cultura corruttrice occidentale, perché l’approccio al problema non deve essere di tipo emozionale ma drammaticamente culturale e politico. Una società che ha declinato il ruolo dell’uomo con l’ambiente come asservimento e diritto allo sfruttamento selvaggio per la produzione di beni e di denaro, è destinata al fallimento. La società postindustriale dell’occidente ha messo l’uomo al centro del mondo, la tecnologia consente di creare le condizioni di vita agiata anche in caso di avversità naturali, in modo tuttavia sempre più instabile. Iperproduzione e capitalismo sono i primi responsabili del disastro ambientale, come riportato perfino dall’enciclica “Laudato si”, scritta nel 2015 da Papa Francesco.

Il tema della sostenibilità non può dunque prescindere dai comportamenti mentali e operativi, traendo ispirazione da quelli maggiormente virtuosi. Come entrare in contatto e quale utilità reciproca possono formulare i vari modelli di sviluppo culturale? È questa una delle nuove tematiche che stanno sempre di più coinvolgendo anche gli antropologi.

Un giorno un amico mi raccontò di essere stato molti anni fa in Chitral, Pakistan, presso una popolazione isolata geograficamente, i Kalasha. Il paesaggio era incantevole, le valli verdeggianti e paradisiache, tutto era splendido e le persone che vivevano lì erano ospitali e gentili. Il mio narratore e un amico che lo accompagnava scoprirono un fiume pescosissimo e cominciarono a pescare. I pesci abboccavano facilmente e i due, esaltati da tanta abbondanza, ne catturarono moltissimi. Si trovarono improvvisamente circondati da facce minacciose e arrabbiate che gli intimarono di rimettere in acqua i pesci e gli chiesero: siete in due, perché avere pescato tanto pesce, che non vi serve? State sfidando la divinità dei fiumi, che si arrabbierà.

Consumismo e sostenibilità. Si trattava di uno scontro culturale tra chi accumula scorte inutili credendo di poter approfittare di un’abbondanza gratuita e chi prende il cibo che la natura offre loro in modo misurato, con rispetto.

La gran parte delle culture che vive a contatto con la natura e le sue risorse, e ne dipende perché tecnologicamente poco attrezzata a contrapporsi alle difficoltà che ne possono derivare, finisce per sviluppare un rapporto spirituale con il sistema naturale. La potenza dei fenomeni della natura conferisce alle divinità che la rappresentano una forza straordinaria, di cui la comunità può giovarsi per sentirsi protetta e in sicurezza.

Presso alcune comunità siberiane il sistema tradizionale prevede riti di propiziazione, scuse e pantomime per ottenere benevolenza dagli spiriti della natura. Quando ad esempio viene ucciso un orso, che è una delle raffigurazioni della divinità della montagna, le comunità si adoperano per spiegare che i colpevoli vanno cercati al di fuori o che l’orso è morto per incidente. La divinità potrebbe sentirsi offesa e vendicarsi scatenando terribili tempeste di neve. Prima di tagliare un albero per servirsi della legna viene chiesto il permesso e il perdono per l’atto, giustificandone il motivo. Lo stesso fanno gli Ainu nell’estremo nord giapponese che, temendo le ire, dedicano alle divinità bastoncini intagliati con i simboli a loro dedicati, messaggeri tra uomini e dei. Vivendo in un territorio dal clima estremo, freddissimo in inverno, dove la natura domina completamente la scena, incontrollabile e immane, si impone la necessità di ottenerne la benevolenza. Ogni aspetto della vita degli uomini ha per loro una divinità responsabile, alla quale si deve rispetto. La natura, chiamata Iwal, è la madre che fornisce cibo ed energia. Ainu-Puri è la pratica quotidiana che salda la profonda amicizia dell’uomo con la natura, per la conservazione di un equilibrio perfetto. Gli animali, le piante, e perfino i sassi e le rocce sono per loro le divinità che hanno preso forma per controllare e vegliare sul comportamento della comunità.

Gli aborigeni australiani cacciano esclusivamente la quantità indispensabile per nutrirsi. La loro concezione del mondo deriva dal sogno (dreaming), vale a dire la creazione ad opera degli Spiriti Antenati che un tempo vennero sulla terra come umani, e che muovendosi su di essa avrebbero prodotto tracce, ora individuabili negli animali, nei fiumi, nei monti, nelle piante, nell’ambiente naturale nel suo complesso. Gli spiriti risiederebbero ancora nell’ambiente naturale, che dunque significa per gli aborigeni la definizione stessa della loro origine. La comunità che non segue le regole rituali del sogno trasforma la natura in qualcosa di crudele e la sua vendetta ricade su tutta la comunità.

Gli Yanomami della foresta amazzonica usano la parola Urihi, (traducibile con foresta-terra), per indicare tutte le forme di vita nella foresta, naturali, animali e umane. Urihi ha la voce della foresta dove il creatore degli Yanomami li ha collocati affinché uomini e foresta si prendano cura reciprocamente. La violenza contro Urihi rappresenta la violenza contro l’ambiente e contro la vita di ogni essere, animato e inanimato. Presso alcune etnie in Africa, alcune regole di “sostenibilità”, come le chiamiamo noi, vengono dagli spiriti degli antenati, a volte evocati per la consultazione sull’opportunità delle scelte degli uomini. E gli esempi sono tanti, come tante sono le comunità che, nei diversi continenti, vivono contesti sostenibili.

Come vediamo, ciò che potrebbe concorrere a promuovere un rapporto tra ambiente e uomo è riassumibile in due parole: rispetto e timore. La nostra ricca ed evoluta società ha dimenticato il rispetto e non conosce più la paura. La natura è quasi scomparsa dalla nostra complessità spirituale, abbiamo perso il contatto, se non per servircene a piacimento, sottomettendola. L’uomo è proprietario delle risorse naturali, le sfrutta a volontà e non teme né conseguenze né vendette. Dov’è finita la paura? Certo, è difficile avere paura o avvertire un timore reverenziale al supermercato! Siamo incoraggiati a inutili scorte, senza riuscire a chiederci quali torti siano stati fatti al sistema naturale per ottenere quella quantità spropositata di prodotti accattivanti sugli scaffali. Sappiamo che ci sono inquinanti allevamenti intensivi che producono carne in modo sovrabbondante rispetto al bisogno nutrizionale umano, oltre a infliggere torture agli animali. Mangiamo carne piena di ormoni, pesce allevato con antibiotici, verdure piene di pesticidi. Non abbiamo paura nemmeno di questo. E quando le scorte di cibo che abbiamo accumulato nei nostri raid al supermercato finiscono nella spazzatura pensiamo allo spreco in termini più economici che ambientali. Ciascuno di noi avrebbe la possibilità di autolimitarsi ma, al massimo, releghiamo i percorsi di sostenibilità ambientale e di preservazione della biodiversità alle popolazioni native nella foresta o tra i ghiacci o chissà dove.

In fondo siamo consapevoli che il paradigma capitalista è distruttivo ma siamo rassegnati all’idea che un cambio culturale è un processo molto lento e, probabilmente, perdente. Possiamo però prestare l’orecchio alle voci dei popoli indigeni che da anni denunciano le politiche di conservazione dell’ambiente naturale. Chissà che i loro saperi e le loro tradizioni millenarie non possano offrire suggerimenti alle cosiddette società avanzate su come salvarsi dalle piaghe che ci colpiscono, come inquinamento, effetti del surriscaldamento climatico, spreco alimentare, sfruttamento e aumento della povertà.

 


Criminalizzazione e repressione, non solo manganelli su chi manifesta per clima e per la Palestina

Le cariche della polizia su ragazzi inermi a Pisa e Firenze lo scorso febbraio hanno fatto rumore, tanto rumore che al richiamo di Mattarella si è dovuta accodare alle critiche buona parte dell’opposizione dal PD ai Giuseppe Conte. Eppure la repressione delle proteste degli studenti continua indisturbata, soltanto ieri a Bologna nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico mentre alle studentesse, che chiedevano lo stop alle collaborazioni con le università israeliane, veniva tolta la parola, il corteo solidale all’esterno è stato caricato. Ma non ci sono soltanto i manganelli a zittire gli attivisti, dopo le proteste degli studenti pro Palestina dell’Università Federico II di Napoli che hanno causato la cancellazione del dibattito con il direttore di Repubblica Molinari, Piantedosi ha ipotizzato la possibilità di regolare gli accessi alle università in modo limitato e sotto controllo. Il tutto mentre Lollobrigida ha richiamato il terrorismo rosso e le BR.

Nuovi livelli di repressione sono in corso di sperimentazione sugli attivisti per il clima. Per questo motivo Italia ed Europa sono state richiamate da Michel Forst, relatore speciale Onu per i difensori dell’ambiente, per la criminalizzazione dei movimenti ambientalisti. Nel report si legge tra le altre cose che ‘la repressione che stanno attualmente affrontando gli attivisti per il clima che praticano la disobbedienza civile pacifica in Europa rappresenta una grave minaccia per la democrazia e i diritti umani. Non solo ‘In molti Paesi sembra essere diventato accettabile paragonare i blocchi stradali o l’occupazione di un cantiere, alla criminalità organizzata, al terrorismo, alla violenza e all’uccisione di civili’. Anche l’Italia è menzionata, per la legge sugli “eco-vandali”, approvata nel gennaio del 2024, che prevede pene che possono arrivare fino a cinque anni di reclusione e multe fino a diecimila euro per chi danneggia monumenti e opere pubbliche. Fino a sei mesi di prigione e una sanzione fino a mille euro per coloro che versano vernice sulla teca di un dipinto o sulla base di una statua.

Anche nel Regno Unito le maglie della giustizia si stanno stringendo sugli attivisti per il clima, una recentissima sentenza ha tolto la possibilità di utilizzare come difesa il Criminal Damage Act del 1971 . Di fatto la corte ha affermato che le “convinzioni e le motivazioni” di un imputato non costituiscono una scusa legittima per causare danni a una proprietà. In tutta Europa la repressione delle proteste e delle idee avanza.

Ci sarebbe da sottoscrivere la dichiarazione di Mattarella dopo i fatti di Napoli ‘Quel che è da bandire dalle Università è l’intolleranza, perché con l’Università è incompatibile chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente’. Peccato che queste parole siano state espresse a favore di Molinari, mente gli studenti sarebbero quelli che impongono le loro idee senza dare spazio a chi la pensa diversamente.
Molinari e chi la pensa come lui hanno giornali nazionale e innumerevoli ospitate televisiva con le quali esprimere le loro idee a senso unico a favore di Israele, mentre gli studenti trovano soltanto manganelli, repressione e riduzione al silenzio.

Se ad avere libertà di parola è soltanto il potere, se il codice Antimafia viene scomodato per emettere ordini restrittivi nei confronti dei manifestanti di Ultima generazione, i manganelli diventano solo la punta dell’iceberg della repressione del dissenso.


Il rimorso di Prometeo dal dono del fuoco al grande incendio del pianeta

“Quelle che consideriamo civiltà moderne sono “in realtà” effetti degli incendi di foreste che il nostro presente appicca nei relitti dell’antichità della Terra. L’umanità moderna è un gruppo di piromani che appiccano il fuoco a foreste e brughiere sotterranee” scrive il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, nel libro “Il rimorso di Prometeo dal dono del fuoco al grande incendio del pianeta.”

L’immaginario prometeico del sapiens culmina in questo sistema mondo dominato dal capitalismo e si avvia verso il precipizio climatico e nucleare. Occorre provare ad avere una visione prospettica diversa. Provare a reincantare il mondo. Dare uno sguardo epimeteico sul mondo che ci stimoli a cambiarlo, scriveva Gil Pierazzuoli, nel libro “Dalla parte di Epimeteo.” “Devi cambiare la tua vita!” si intitola un altro libro di Sloterdijk: così non possiamo più andare avanti!  Il cosiddetto pacifismo energetico, potrebbe essere la scelta giusta, la svolta necessaria verso forme “pacifiste” di produzione energetica, in cui l’uso del fuoco viene eliminato e sostituito da metodi di produzione di energia non pirotecnici (Sloterdijk, qui non usa la parola “alternativa” che gioca un ruolo dubbio suggerendo che sia possibile fare la stessa cosa, solo “in modo diverso”). Il pacifismo energetico potrebbe fermare l’ekpýrosis, la nuova dissoluzione del mondo nel fuoco.

Ma la fame di carbone di grandi Paesi come la Cina (oggi caratterizzata, secondo Sloterdijk, da un individualismo consumistico apolitico con sfumature collettiviste e con ampie sacche di cittadini in regime di semi-schiavitù) l’India, gli Stati Uniti, nonchè  numerose economie emergenti; il parassitismo fossile dell’Arabia Saudita, dell’Iran e più recentemente della Russia, paesi proprietari accidentali, intossicati e corrotti dalla ricchezza improvvisa e legittimati al saccheggio; il lusso della mobilità esteso alle masse ed alla degenerazione del turismo dell’alcol e del sesso e di un’industria crocieristica straripante; la deriva demografica data dagli eccessivi tassi di natalità di molti stati; il problema delle dimensioni degli agglomerati urbani ipertrofici, vere e proprie disgrazie costruite mattone per mattone. Tutte queste aberrazioni nella storia delle civiltà, impediscono lo spegnimento del megaincendio mondiale e portano al rimorso prometeico-in cui il titano filantropo portatore del fuoco della mitologia greca, giunge alla conclusione che sarebbe stato meglio non aver mai consegnato il fuoco al popolo. Ma non sarà certo questo rimorso prometeico, nè il suo pragmatismo ecologico a guidare il corso degli eventi, scrive Sloterdijk.

Hai voglia di attaccare etichette di “sostenibilità” che non sono altro che un pio autoinganno, tipo il piantare alberi, gesto di simpatica forza simbolica. Ci si anestetizza con l’illusione di fare qualcosa per i processi rigenerativi, abbassando il riscaldamento domestico, isolando gli edifici e viaggiando con auto elettriche; è evidente però che non un solo ettaro della foresta o della brughiera sotterranea che va in fiamme sotto forma di carbone, petrolio o gas sarà mai ripiantato.

Tutta la colpa è del lapsus fatale del diritto internazionale mondiale, che ha concesso la proprietà delle cosiddette “ricchezze minerarie”, ai governi territoriali che per caso vi stavano seduti sopra, invece di dichiararle da subito patrimonio mondiale delle risorse minerarie dell’umanità, in una lontana analogia con gli oggetti che costituiscono il “patrimonio culturale mondiale” dell’umanità, definito dall’UNESCO.

“Guardando al futuro dei sistemi microenergetici senza fuoco, si può azzardare un’ipotesi: la storia dell’energetica intelligente, in particolare nella microtecnologia, è appena agli albori […] Il modus operandi dominante è ancora radicalmente estrattivo; non mostra quasi traccia di sensibilità per le risorse rinnovabili.” Anzi si affacciano all’orizzonte ulteriori pericolosi progetti di de-democratizzazione della tecnologia su larga scala, che vanno ben oltre la pirotecnica ordinaria. Sloterdijk fa gli esempi della fusione nucleare “pulita”, delle iniezioni di CO2 nel sottosuolo, dei sogni vulcanotenici a occhi aperti.

Fire-fighters di tutto il mondo, fermate gli incendi!”

 

Gilberto Pierazzuoli, Dalla parte di Epimeteo, perUnaltracittà, 2023, Firenze-p.286, euro 13.

Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina, 2010, Milano-p.565, euro 36.

Peter Sloterdijk, Il rimorso di Prometeo dal dono del fuoco al grande incendio del pianeta, Marsilio, Venezia, 2024-p.95, euro 15.

 

 

 


Festival di lotta e di classe, dal 5 al 7 aprile alla ex GKN

Dal 5 al 7 aprile la seconda edizione del Festival di Letteratura Working Class, per raccontarsi e immaginare un futuro diverso.

Cosa avete pensato quando Margaret Thatcher è salita al potere? E quando chiuse la Trw di Livorno, lasciando a casa 450 operai, ve lo ricordate? Sono passati anni. Ve lo ricordate come le avete lette, allora, quelle storie? Con quale lente: quella della stampa borghese o quella politicamente scorretta delle vittime? Al secondo Festival di Letteratura Working Class, in programma dal 5 al 7 aprile al presidio ex Gkn, con un prequel il 4 aprile al Teatro Dante di Campi Bisenzio, queste storie potrete sentirle raccontare dal punto di vista di chi quegli eventi li ha subiti, di chi ha provato a ribellarsi, di chi ha immaginato un futuro diverso.

Non è un caso che tutto questo venga fatto a Campi Bisenzio, territorio sfruttato, alluvionato, licenziato, lasciato in balia della speculazione.

Non è un caso che, per il secondo anno consecutivo, questo festival, organizzato dalle Edizioni Alegre, il Collettivo di Fabbrica Gkn e la SOMS Insorgiamo, con la collaborazione di Arci Firenze, parta dal presidio ex Gkn, in quella comunità ancora in lotta, che da quasi tre anni la storia non solo la racconta, ma la costruisce pezzo dopo pezzo, attorno alla fabbrica pubblica e socialmente integrata. Quel futuro che la classe dominante non vuole farci nemmeno immaginare, fatto di riconversione ecologica e pacifica dell’economia, di mutualismo e servizi pubblici, di globalizzazione dei diritti, di equità sociale, di lotta alle disuguaglianze. Quel futuro che non è possibile senza un intervento pubblico che sia all’altezza di questa fase storica, finanziando progetti innovativi e di rilancio e non, come è avvenuto fino ad ora, coprendo con soldi pubblici le perdite di privati incapaci.

È proprio quel futuro lì, quello immaginato, a far paura, tanto da trasformare il festival nell’azione di lotta più odiata e attaccata. Eppure fa parte delle legittime attività della Società Operaia di Mutuo Soccorso Insorgiamo, che affianca le attività culturali al mutualismo, contribuendo a tenere viva questa comunità operaia, fiaccata dal ricatto continuo e da quasi tre mesi senza alcun reddito. Ancora una volta.

Nella prima settimana di aprile i confini della fabbrica metalmeccanica di Campi Bisenzio si allargano ancora di più, arrivando ad abbracciare i romanzi noir spagnoli e i memoir danesi, le graphic novel di classe e la poesia operaia degli anni Settanta, passando dalla letteratura working class francese, inglese, statunitense, svedese, fino alla poesia operaia cinese. Il prequel invece, il 4 aprile alle 21, sarà dedicato allo spettacolo teatrale “Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto” di Kepler 452, scritto e recitato insieme alle operaie e agli operai della Gkn, vincitore del premio UBU 2023.

Un programma ampio, che supera i confini dell’Italia e spazia nella letteratura working class di tutto il mondo, nelle sue varie forme: geografie e linguaggi, sono i filoni dell’edizione 2024. Con questo programma, la tavola rotonda finale, dedicata a “La fabbrica dei sogni”, della sottoscritta, mi fa sentire ancora di più una formichina nella grande prateria della letteratura più alta che io abbia mai letto e gustato, quella che esce dalla melma del neoliberismo, si scuote di dosso il fango e comincia a salire. E si fa spazio e voce, lotta e speranza, amore e visione. “Che forse è solo un sogno. O forse no”.

Programma completo su www.edizionialegre.it