JobsAct come JobsSteve

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Già dal nome il Jobs Act sceglie da che parte stare: Jobs non è il plurale di impiego ma il cognome di Steve Jobs, fondatore di Apple, scomparso da un paio d’anni e venerato dal premier Renzi che ha voluto che l’ultima Leopolda ricordasse il garage in cui Jobs assemblò il primo Apple.

appleMa, al di là della mitologia da Silicon Valley “de noantri”, non stupisce che si sia scelto il nome di un padrone per una legge che si propone di abbattere gli ultimi brandelli del fu Statuto dei lavoratori. E’ vero che Steve Jobs era una grande creativo ma certo non un sostenitore dei diritti dei lavoratori, e si dovrebbe sempre ricordare che i prodotti Apple vengono assemblati alla Foxconn International Holdings, multinazionale cinese, salita agli onori delle cronache per l’alto numero di suicidi di dipendenti che a partire dal 2009 si sono gettati nel vuoto da diversi edifici della fabbrica.

Quindi la legge che andrà a regolamentare il lavoro in Italia per i prossimi anni porta il nome di un uomo che pur di far uscire in contemporanea 56 milioni di esemplari dell’Iphone 5 non si preoccupava minimamente delle condizioni di lavoro di chi assemblava quei prodotti.

Ma quali sono i punti principali del tanto citato jobs act? Eccoli: sarà possibile demansionare un lavoratore in caso di ristrutturazione o conversione aziendale, vi sarà un ulteriore svuotamento dell’articolo 18 per cui il reintegro resterà solo per il licenziamenti discriminatori, sarà introdotto il compenso orario minimo anche per co.co.co solamente nei settori non regolati da contratti nazionali e sarà inoltre estesa l’indennità di maternità.

Eppure il Jobs Act non è altro che una scatola vuota in attesa di essere riempita dai Decreti attuativi che dovranno declinare i vaghi enunciati contenuti nella Legge Delega appena approvata.

E’ esemplare il caso di uno dei provvedimenti più sbandierati del Jobs act, ovvero rendere il tempo indeterminato “forma privilegiata” di assunzione facendo sì che sia“più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti”. Per capire meglio dov’è l’inganno bisogna tornare a maggio quando è entrato in vigore il Decreto Poletti che permette di stipulare contratti di durata triennale, un’ulteriore forma di precariato dunque, come se il Far West italiano nel capo dei contratti precari non fosse già abbastanza affollato. Quindi il governo vuol rendere il tempo indeterminato la forma di assunzione privilegiata e al tempo stesso crea una nuova forma di precarietà della durata di 3 anni. Strana strategia.

Eppure ormai è dimostrato che la flessibiltà non diminuisce la disoccupazione tanto che dai tempi del pacchetto Treu ad oggi la cavalcata è stata inarrestabile, mentre le tutele dei lavoratori dal 1990 al 2013 si sono ridotte di oltre il 40%, dal valore 3,82 al 2,26 dell’Employment Protection Legislation Index (EPL) la disoccupazione a settembre veleggiava al 12,3%.

La flessibilità assomiglia ad un medicinale che invece di far guarire il malato gli dà il colpo di grazia.

Nonostante questo, le ricette dei nostri governi non cambiano, tra Reagan e Thatcher, in ritardo di 30 anni, continuano a privatizzare, svendere i beni pubblici, distruggere i sindacati e a bastonare in senso sia fisico che morale i lavoratori.

Il nostro paese è in un momento delicato, il rischio di un appiattimento di qualsiasi pensiero divergente è elevato ma tutte le storie di resistenza che arricchiscono questo numero de La Città Invisibile fanno sperare che ciò non avvenga.

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